Era come se le strade precipitassero
poi – fu l’immobilità-
Eclisse: tutto ciò che era dato di vedere alla finestra.
Terrore: tutto ciò che provavamo.
A poco a poco – i più coraggiosi uscirono piano
allo scoperto, per vedere se il tempo c’era ancora-
La natura indossava un grembiule di opale,
e impastava aria più pura.
Emily Dickinson
Un fermo immagine improvviso, una dissolvenza lenta riavvolta da una moviolainvisibile. Poi il silenzio, il deserto. I vetri delle finestre riflettono l’immobilità e nonpiù il rombo dei motori segno di una vita ripetitiva, meccanica che inesorabilmenteavanza.Solo il grido dei gabbiani, più forti, modulati, discorsivi, mentre percorrono eattraversano le strade dalla parte del cielo. È l’entusiasmo perché la città è diventata la prosecuzione della scogliera oppure sono le provocazioni fatte alle vittime, prima di lanciarsi in picchiata sui terrazzi per la sopravvivenza, per il piccolo che attende nel nido? E poi i cani, i privilegiati della passeggiata. Escono dai portoni e il silenzio li stordisce. È come nei gialli, il silenzio fa paura, amplifica tutto ciò che non diciamo, che non vogliamo pensare, che rischia di intaccare con ombre sinistre l’immagine buona che abbiamo di noi. Anche i cani escono dai portoni cercando se stessi, cercando occasioni di rabbia, di sfida, di coinvolgimento, di lotta. Fissano le finestre chiuse delle case, le passano in rassegna con insistenza e abbaiano ogni tanto lungo tutto il percorso per vedere se qualcuno si fa vivo. Non si fidano di quella pace, di quel silenzio. Il pericolo è chiuso tra quelle mura, dietro alle persiane, in fondo a lunghi corridoi. Noi invece siamo un po’ più complessi, ci sono momenti in cui anche per noi quel silenzio è un frastuono. Inusuale, irreale, falso. Uno di quei paesaggi che si possono solo sognare, presagio di qualcosa che potrebbe essere la fine di tutto e poi ci si sveglia e si dice: era solo un sogno.
In altri momenti quel silenzio, quella desertificazione è piacevole, ci accoglie, ci rassicura. I pericoli sono altrove, non ci sfiorano, solo le sirene ogni tanto. Basta rimanere all’interno. Le persone che condividono territorio e silenzio non sono un pericolo, sono una vicinanza. Li tocchiamo, prendiamo loro la mano, vorremmo condividere quell’esperienza così sconfinata e brutale, ma il lessico familiare non lo prevede, non ha uno sviluppo sufficiente. Possiamo essere colti, possiamo parlare di politica, di economia, di teoria psicoanalitica, ma per esprimere cosa ci sta accadendole parole non sono già scritte, non possiamo fare copia incolla come siamo abituati. Rimanere sui luoghi comuni non ci basta, non placa la nostra ansia. Le parole le dobbiamo andare a cercare ben in fondo a noi, scivolando lungo dendriti e sinapsi verso una corteccia che non sempre si lascia raggiungere. E mentre noi stiamo cercando la nostra realtà biologica per ripercorre la strada del pensiero fin dagli esordi protomentali, per ricominciare tutto da capo e trovare nuove parole, nuove convenzioni e nuove prospettive, anche l’altro lo fa e intanto si allontana, si perde nella propria storia. In fondo è più facile condividere mondi già strutturati, pensieri già pensati, preformati, abitudini acquisite che possiamo dare per scontati e chiuderli tutti in automatico in una scatola nera da non aprire mai. Ma è proprio nelle catastrofiche le scatole nere si aprono per vedere cosa non ha funzionato. Ed ecco di noi e fuori di noi, in rete (luogo della ricostruzione della verità e insieme luogo di falsificazione massima) ad uno ad uno tutti i nodi problematici del nostro tempo, dalla dimensione mentale a quella ecologica. La pandemia li porta tutti alla ribalta responsabilizzandoci e lasciandoci in balia della nostra impotenza. Dal punto di vista mentale la colpa è la scissione tra bisogni e desideri personali realie l’adesione a una costellazione di punti di repere seriali e standardizzati che la società ci offre. Dal punto di vista ecologico deforestazione dolosa a fini speculativi, incendi indomabili, i ghiacciai che si sciolgono, l’ozono, cibo, acqua ed energia in esaurimento, le atrocità nei confronti degli animali ormai ampiamente documentate, le inutili e crudeli pratiche di caccia, le devastazioni del mondo animale per l’industrializzazione dei prodotti alimentari, gli allevamenti seriali su grande scala che -tra le altre cose-producono una quantità tale di anidride carbonica che trattiene in quota le polverisottili che purtroppo noi respiriamo e insieme a loro il coronavirus che ha quindi agiodi avere massima diffusione… Il cerchio si chiude. Ciascuno di questi fenomeni è concatenato all’altro, è interdipendente. Essere esposti ai risultati scientifici più sofisticati non ci rende capaci di agire, discegliere, di sposare una causa. Sappiamo tutto ma non possiamo fare nulla. Salvare l’economia tornando allo status quo ante o cercare un modo che tenga contodi tutto quanto questo Coronavirus ci ha fatto scoprire?
Anche chi ha il potere appare fragile e confuso. Lasciamo il passo alla scienza, ma lascienza non è mai davvero super partes. Adesso abbiamo una task force che devetogliere dall’imbarazzo chi ci governa. Ma quali saranno le sue capacità didiscernimento, quali gli scopi? Cui prodest? Forse nella globalizzazione non èpossibile avere davvero un progetto … troppe le forze in gioco, troppe le prospettiveda cui valutare, sconosciuti i burattinai che cercano forse di piegare le forze del benea quelle del male …Quello che abbiamo capito è che in questa task force scientifica gli unici psicologipresenti sono quelli sociali. Cioè psicologi che non si occupano di clinica, dellosviluppo e del contenimento della patologia mentale. Che non si occupano cioè diquegli emarginati che per propria storia non riescono ad inserirsi, o delle partiemarginate che dentro di noi battono i coperchi per farsi sentire. Si occupano solodella reazione della gente ai grandi movimenti sociali. In altre parole purtroppocercano di scoprire come meglio giungere a determinare una reazione normopaticanegli individui. E qui finalmente entriamo in gioco noi che nella vita abbiamo scelto di dedicarci allaclinica della mente, di quella più schiettamente patologica ma ancheconseguentemente di quella fisiologica, cioè dei bisogni che l’essere umano ha. Ed entriamo in gioco nella duplice veste di esseri umani che stanno vivendo le stesse vicissitudini di tutti, e come esperti della mente che devono innalzarsi sopra il livellodelle contingenze per portare avanti la loro missione. L’uomo/mente, che sia un paziente, che sia l’uomo della strada, difronte ad un fattodi tale entità ha due possibilità. O sceglie tra qualche meccanismo psicotico scisso (si abbandona alla depressione, non cerca di capire, non si difende, si mette a repentaglio, si ammala; oppure sceglie la negazione e l’onnipotenza, non c’è nessun virus e comunque non ci colpirà di certo; potrà perdersi nei rituali ossessivi; potrà incappare in una sorta di cura nel momento in cui svolgendo una professione d’aiuto si troverà obbligato ad una attività parossistica e se sopravviverà, solo a posteri o riscoprirà una lacerazione di tipo depressivo; ancora, qualcuno potrà buttarsi nella pratica cercando di ripristinare lo status quo ante). Oppure sceglie di non disabilitare la funzione del pensiero, anzi di attivare al massimo le istanze simbolopoietiche della mente e di andare alla ricerca di nuove possibilità interpretative e di fruizioni esistenziali, che permettano di apprendere anche da questa esperienza devastante, che permettano di strappare dal cappello di questo diabolico giocoliere nascosto dietro la maschera della morte che si muove davanti a noi con mosse velocissime e inafferrabili, nuove soluzioni mai pensate da mettere al servizio della vita. 4Il fantasma della morte che fino a ieri aleggiava discreto nei nostri studi in attesa di essere accettato come ospite inevitabile, adesso se ne sta conficcato nel pavimento senza ritegno o ritrosia di sorta. Di colpo oplà. Le porte dei nostri studi si sono chiuse e con una torsione nell’aria inostri pazienti si sono ritrovati “scorporati” all’altro capo di un filo, telefonico o direte… Di colpo i nostri corpi si sono separati ma i nostri destini si sono uniti. In effetti per noi si sono configurati due tipi di problemi. Uno quello del cambiamento di setting che ha sostituito la presenza con la tecnologia, il telefono o la piattaforma on line. L’altro è il fatto che si sia ridotta (ulteriormente se si pensa alla Heimann, e all’importanza da quel momento attribuita al controtransfert e poi, ultimamente, il depotenziamento dell’interpretazione versus la relazione) l’asimmetria tipica del rapporto terapeutico dove solo uno si racconta, uno chiede aiuto, uno paga per larelazione … anche se poi la garanzia di presenza che il terapeuta offre supera di solito quella di un amico o di un parente. Se si escludono agosto natale e pasqua …In pandemia, il rischio di premorienza è uguale per tutti. E questo costituisce un legame comune indissolubile, un’istanza di realtà che cementa inizialmente in maniera strana quel libero fluire del pensiero tra gioco, regole del gioco e attaccamento affettivo. Un libero fluire del pensiero che cerca costantemente di sovvertire le regole, che oscilla acrobaticamente tra senso e ipersenso e un a negazione che rende a volte irreale e odiosa la relazione stessa. Ma questo dato direaltà afferra saldamente onnipotenza e dipendenza, le costringe ad un confronto cheperde i confini simbolici nei quali di solito ci muoviamo. Nulla è più così libero e fluttuante. Il futuro è sospeso, chiuso da una porta murata e il senso di inutilità e di claustrofobia ci costringe a tornare indietro, ci costringe a un riesame della strada già fatta, a rivedere le cose già dette, il pensiero già consumato agli incroci di per corsi ripetuti nel tempo. Proprio come succede nella mente di chi sta per morire che ripercorre in pochi attimi la sua vita. E questo accade allo psicoterapeuta e al paziente in egual misura. La consonanza che ne deriva provoca una solidarietà che di solito non è così forte e decisa. Il bisogno di capire, di salvarsi cercando a ritroso il senso della vita fa si che ciascuno di noi impegni tutte le proprie forze per calarsi creativamente al centro del proprio esistere sia nella vita sia nell’analisi, per chi ha un’analisi in corso come paziente o come terapeuta. Ma la creatività è anche erotizzazione, naturalmente in senso lato. Un’erotizzazione direttamente proporzionale alla creatività impiegata. Mettiamo quindi il turbo alla nostra capacità introspettiva e di analisi, la potenziamo senza che ce ne accorgiamo. E questo appare evidente innanzitutto dall’investimento nei confronti della tecnologia. Pazienti e terapeuti affascinati dalle potenzialità del telefono e della videochiamata.
Un setting creato dalla sola voce, dalla modulazione della voce che diventa massimamente espressiva, dalla parola, si è vicinissimi, la distanza è più o meno quello dello spessore dell’apparecchio telefonico; ad occhi chiusi piano piano si scivola in abissi di senso; la concentrazione è massima, l’intesa perfetta. Non c’è più la materia. Il potenziamento è grande e reale. Anche lo schermo determina non pochi entusiasmi. Qui è la mimica che viene salvata, il volto la metacomunicazione veicolata dal volto. C’è più distanza ma anche più materia. E poi entusiasmano le videoconferenze. Qui le distanze vengono davvero abbattute, la possibilità di confronto e di discussione diviene immediata e anche molto amplificata, se serve. Con Zoom c’è addirittura il dono dell’ubiquità. Siamo quie contemporaneamente siamo là, nel nostro rettangolino, in un altrove assoluto che un po’ ci confonde. Tra i tanti possiamo scegliere un interlocutore, uno con cui c’è feeling, che avremmo voglia che comunicasse con noi, ma non sapremo mai se ce l’abbiamo fatta! Scientificamente comunque è un mezzo davvero potente anche seci rende confusi, frastornati, frequentatori di uno spazio che non c’è. Questo potenziamento erotizzato appare evidente anche nei “gruppi” attualmente comunque a distanza dove le persone hanno molto bisogno di esprimersi, di capire, di farsi capire. In fondo anche questo mio scritto potrebbe avere questa origine. Potrebbe rappresentare un tentativo e un bisogno di spiegare ai pazienti, ai colleghi, agli allievi il mio punto di vista su cosa sta accadendo. Questo bisogno appare evidente anche su larga scala, nella consonanza tra il numero e l’entità delle domandefatte agli esperti e l’alacrità e la puntualità delle risposte da parte degli esperti stessi. E questo vale per tutti gli argomenti possibili. Una parte delle persone vuole capiree si interroga, una parte vuole salvare la pelle, l’altra vuole salvare l’economia perchépurtroppo si muore anche di povertà.Potrebbe infine essere utile uno studio circa la tipologia e le caratteristiche dei sogniin questo momento così particolare, anche se potrebbe essere importante non trarre conclusioni affrettate e soprattutto credo che non saranno i sogni degli addetti ailavori a poterci fornire una visione di insieme …Ma per quel che riguarda noi e le nostre vite personali e professionali quale sarà ilritorno di tutto questo credo potremo capirlo alla fine dell’avventura. Potremmo ipotizzare che l’aumento delle “turbolenze” conoscitive, creative, interpretative possano portare o alla crisi e a competitività non più ricomponibili in caso di divergenze procedurali e di ideali ma anche a seconda della quota di narcisismo impiegata. In altri casi potremmo invece ipotizzare un potenziamento della componente affettiva.
Anche nella nostra professione questo potenziamento delle possibilità analitiche e di introspezione potranno dare risultati diversi a seconda delle quote narcisistiche introdotte nella relazione. Una cosa è certa. Nella nostra professione l’impegno a dosare con cautela le nostre potenzialità deve comunque essere massimo. Da questi eventi tragicamente stimolanti l’analisi potrà finire potenziata o anche fermarsi. La nostra capacità di capire le potenzialità di quell’embrione in evoluzione e in crescita che è la mente serve a favorirne lo sviluppo. Ma il nostro sguardo non deve essere quello che si ha sul tavolo anatomico. Deve essere uno sguardo caldo, affettivo, energico e ottimista, ma deve poter imprimere sviluppo all’embrione rispettando i tempi a lui necessari. Non si deve mai rompere il guscio dall’esterno perché sarebbe un disastro mortifero. Forse da questa disavventura pandemica la psicoanalisi potrà accogliere teoricamente dopo la valorizzazione della relazione anche quella dell’amore.
All’inizio non ci piacemmo affatto.
Fu uno squadrarsi da lontanocome fanno i gatti di notte
gonfi e diffidenti – un po’ goffi.
Le prime settimane tu sedevi
in fondo alle scale e mi fissavi
con lo sguardo di chi porta con sé
un segreto che non si può dare.
Allora avrei voluto strapparti
la bocca insieme alle parole
che nascondevi tra i denti.
Mi negavi persino la tuaidentità – tacendo tutte
le parole si facevano mute,
le attese slabbrate, le stanze
all’improvviso enormi.
In realtà volevi darmi tempo.
Mi avevi protetta per diciotto anni
ed io non lo sapevo – vedevo
in quei silenzi una minaccia,
una beffarda provocazione
a indovinare quale pensiero7mi precludevi, quale angoscia
mi risparmiavi – sbagliavo.
Così l’attesa era la tua.
Aspettavi da anni come si attende
la salute ai piedi di un malato,
come chi ha perso qualcuno
smaltisce il male sulle scale
di casa. Quegli occhi erano
una preghiera, un inno muto
alla rinascita.
Mi amavi ed io ti incolpavo il silenzio
– già sapevi che in quel silenzio
sarebbero germogliate
le verità più oscure. Più vere.
Giovanna Cristina Vivinetto