2 dicembre 2015

Kenzaburo Oe,   “Insegnaci a superare la nostra pazzia”

Recensione di Lidia Compagninopsicoterapeuta, socia CSTCS

 

Del corpo nulla mi ripugna.
Marguerite Yourcenar da “Quoi? L’eternitè

La letteratura orientale ha per molti un fascino notevole di terre lontane, altre culture, diverse religioni e differenti modi di vivere la vita e le emozioni.
La letteratura occidentale ha per molti un interesse considerevole per approfondire la nostra cultura nelle sue pieghe nascoste, per analizzare il senso del nostro quotidiano, per scoprire un nostro comune modo di sentire.
Il Giappone produce in me il fascino dell’Oriente mescolato con stili e possibilità che avverto come l’estremizzazione – forse il futuro- dell’Occidente.
Sento la cultura giapponese come una cultura di cerniera e mi confondo e mi spavento.
Così spesso mi allontano e mi nascondo.
Ma a volte, raramente, qualcosa – i titoli bellissimi?- vince timidezza paura e confusione ed eccomi con un libro in mano ad accettare la sfida di provare e riprovare a leggere e a capire.
È capitato con Hishiguro, è successo con Yasushi, torna ad accadere ora con Kenzaburo Oe e il suo “Insegnaci a superare la nostra pazzia”.
Ed è ancora confusione magia timore perfezione bellezza incomprensione paura.
È una raccolta di quattro racconti che in totale non supera le 200 pagine e che inchioda il lettore alla pagina per la sua soverchiante insostenibile pesantezza.
Non si può leggere tutto d’un un fiato, anzi.
Si rischia di soffocare.
È necessario centellinarlo, ma soprattutto volerlo leggere. Decidere di volerlo leggere. E poi deciderlo ancora.
Quindi rimane lì tra la testa e il cuore, appeso come una domanda cui non si può, non si riesce a dare risposta.
E ti ritrovi -insieme a quella domanda- forse proprio la sensazione – quella vera- della follia.
È una cosa dura profonda pesante insopportabile assurda angosciante ostinata eccessiva ingombrante ineludibile fisica.
Piantata con solo 200 pagine, in soli quattro racconti, non tanto nel cervello -nel ricordo, nella capibilità dei testi-, non nel cuore -nei sentimenti, nelle emozioni o nelle storie tanto estranee- ma a metà o meglio nel mezzo: nel corpo, dentro il corpo.
Rimane dentro il corpo – laddove è chiaro l’autore voleva che finisse- il vissuto della follia.

È nel cancro immaginario, ma realmente putrescente, del primo racconto in cui il protagonista con una lunga lettera si vendica della madre che ha isolato lui e il padre molti anni prima e la chiama a un capezzale che è tanto insensato quanto reale a rendere conto in un punto di morte solo presunto di una vita che non si è potuta vivere se non così attraverso lo scrivere insensato e il guardare il mondo in modo distorto come da dietro degli occhialini da piscina ovviamente inutili in un reparto d’ospedale.
È nell’incontro angosciante degli abitanti di un piccolo villaggio di campagna con un soldato di colore le cui fattezze fisiche fanno sospettare. -per la diversità- non umano, incontro che da timoroso diventa sorprendente e poi drammatico, quando, nel tentativo di rispettare le leggi del paese, viene deciso di uccidere l’estraneo che in una difesa assurda della propria vita condanna il ragazzino, che pure fino ad allora lo aveva nutrito e con cui fino ad allora aveva giocato, all’amputazione di una mano mentre il suo corpo non sarà salvato dall’ardere in un falò, emanando l’odore animale della morte e della decomposizione sopra ogni cosa e nelle narici di tutti.
È nel rapporto simbiotico e folle di un padre con il proprio figlio gravemente ritardato e con molti handicap fisici che si basa sul godimento del cibo e sul contatto fisico dei corpi e che porta entrambi ad ingrassare oltre ogni immaginabile e sopportabile obesità per poter essere sempre in contatto –saturando ogni spazio- e che troverà fine solo nel trauma di cadere allo zoo nella piscina puzzolente e sporca dell’orso e nella vergogna che questo trauma saprà suscitare o finalmente esprimere con la possibilità che questa vergogna –tanto antica quanto nuova- risvegli la percezione sopita da tantissimi anni della realtà.
È nella follia -qui platealmente dichiarata- del protagonista del quarto racconto – musicista geniale e pazzo- che dichiara al mondo di dialogare ancora con il figlio che ha fatto sopprimere neonato credendolo deforme fino a
trascinare tutti gli altri personaggi nel gorgo della distruzione di ogni sua opera e del suicidio.
La pazzia allora è nelle menti dei personaggi di questi racconti, ma passa a noi attraverso il loro corpo descritto così minuziosamente da poterlo immaginare con tutti i nostri sensi e da poterlo sentire quasi vivo e vero accanto a noi e imbarazzante, tremendamente vivo vero e imbarazzante, atrocemente vivo vero e imbarazzante.

E difficile imbattersi in un libro in cui i corpi siano così presenti da essere più che parola sulla carta e attraverso questi sia possibile il viaggio nella sofferenza psichica che li abita.

Non lo so se si può consigliare di leggere un libro così, pure sono quattro racconti che non si può dimenticare di avere letto, un’ esperienza che non si può tralasciare di avere fatto.

Qualcosa di unico e disturbante come la pazzia che vuole insegnarci a superare.

Eppure dovresti conoscere la vergogna,
tu che hai raccolto e mangiato fin da bambino
i rifiuti degli altri?
Kenzaburo Oe,  “Insegnaci a superare la nostra pazzia