La rivincita della psicoanalisi. Risposta a Internazionale

di Nicoletta Massone

Buongiorno. Sono una docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Comparata di Genova e vi scrivo, insieme con gli allievi del primo anno di corso, in merito all’articolo da voi pubblicato nel mese di gennaio (n• 1138 – anno 23) La rivincita di Freud.

La prima lettura di questo scritto ha suscitato, in me e in molti degli allievi, sentimenti di sgradita sorpresa quando non di vera e propria irritazione. Ci aspettavamo un’informazione circa il confronto dei risultati terapeutici di diversi indirizzi psicoterapici e invece ci siamo trovati in un contesto dove i dati clinici sembravano mero pretesto per procedere ad una detrazione decisamente grossolana della psicoanalisi
In un secondo momento, però, ci siamo resi conto che molte delle affermazioni che l’articolo ospita formano il contenuto di domande che frequentemente ci vengono rivolte da colleghi, da altri professionisti, dai pazienti stessi e, più generalmente, dalle persone con cui siamo, a diverso titolo, in rapporto.
Per questo, abbiamo deciso di usare l’articolo come una specie di canovaccio, in modo da cercare di rispondere ai vari quesiti, ripercorrendo, nello stesso tempo, alcuni dei punti più significativi circa il dibattito sullo statuto epistemologico della psicoanalisi.

Le obiezioni alla psicoanalisi come scienza

Infatti, il signor Oliver Burkeman, autore dell’articolo, spesso pesantemente avverso all’impianto psicoanalitico, secondo modi espressivi neanche tanto raffinati, si rivela, in altri passaggi, consonante con obiezioni più strutturate che, nel corso del tempo, sono state dirette alla psicoanalisi circa il suo impianto scientifico.
Ad esempio, quando Burkeman parla della “sensazione che anche il più onesto degli psicoanalisti si butti ad indovinare e tenda ad ogni costo a trovare le prove delle sue ipotesi.”
sembra riprendere la famosa critica di Karl Popper per cui, visto che ogni comportamento è sempre spiegabile in termini freudiani, ne discende che la terapia è compatibile con qualsiasi cosa possa accadere. Fatto che rende la teoria stessa non falsificabile e, quindi, non scientifica. Questa critica, paradossalmente, è stata confutata proprio da Adolf Grünbaum, uno dei più attenti problematizzatori del costrutto psicoanalitico.
Più oltre, continua Burkeman:
“[…] Se protestate, dicendo all’analista che non è vero che odiate vostro padre, state semplicemente dimostrando il disperato bisogno di non ammetterlo nemmeno a voi stessi.”
Il problema, in questo caso, sembra fare riferimento alla classica obiezione dell’influenzamento: i dati che derivano dalla situazione clinica non possono essere ritenuti validi perché non sono esenti dall’eventuale contaminazione operata dallo psicoterapeuta che, a seconda del suo particolare tipo di impostazione teorica o in base a sue inclinazioni, può determinare la direzione delle libere associazioni, la costruzione di un’interpretazione piuttosto che un’altra. Con la critica che stiamo esaminando, in realtà, si dimostra semplicemente che, nel caso della psicoanalisi come in quello di tutte le scienze umane, la fondazione della verità dei concetti prevede un percorso più articolato rispetto a quello operante per le scienze della natura.
Se, per questi rilievi, il nostro giornalista sembra mantenersi nell’ambito del neopositivismo, più avanti esprime una serie di considerazioni che potrebbero essere riferite ad un altro modo in cui la psicoanalisi è stata pensata. Dice Burkeman:
“L’idea che l’approccio alla psicoterapia non dovrebbe essere scientifico – che la vita di ogni individuo sia troppo unica per essere sottoposta alle inesorabili generalizzazioni presupposte dalla scienza – è molto allettante.”

La psicoanalisi come ermeneutica e lo statuto epistemologico della psicoanalisi

Sembra qualcosa di compatibile con la corrente di pensiero che ha considerato la psicoanalisi come appartenente all’area dell’ermeneutica.
La corrente ermeneutica cerca di dare spazio alle caratteristiche specifiche degli oggetti della disciplina psicoanalitica, oggetti che non sono inanimati, non sono materiali, per cui non del tutto assimilabili a quelli delle scienze della natura.
Detto questo, però, ci siamo anche permessi di dissentire da Burkeman, ritenendo che la psicoanalisi, pur tenendo conto del suo specifico oggetto d’indagine, non debba rinunciare alla scientificità, al fatto, cioè, di addivenire ad ipotesi tese a spiegare universalmente il modo di funzionamento della mente.

La pars destruens di Oliver Burkeman

Senza addentrarci nell’approfondimento del percorso che il corpus psicoanalitico richiede per la fondazione delle sue tesi (approfondimento che si può trovare nell’articolo da me pubblicato sul sito della scuola www.spcgenova.it), torniamo al nostro giornalista che, dopo averci dato l’impressione di non essersi reso conto della complessità dell’argomento da lui affrontato, continua a trattarlo secondo una dimensione di notevole superficialità; l’avere trasformato il suo articolo in occasione di riflessione, non elimina il dispiacere dovuto a molte sue osservazioni particolarmente infelici. Ne riportiamo alcune tra le molte:
“Far pagare ai pazienti parcelle salatissime per rimuginare per anni sulla loro infanzia, definendo resistenza qualsiasi obiezione e sostenendo che, proprio per questo, è necessaria ulteriore analisi, è ritenuta da molti una truffa.”
Ancora, poco oltre:
“Uno dei problemi principali della psicoanalisi è sempre stato il fatto che il suo fondatore fu un po’ un ciarlatano, incline a distorcere i dati, se non a fare peggio: negli anni novanta si scoprì che Freud aveva detto ad un paziente, lo psichiatra statunitense Horace Frink, che la sua infelicità nasceva dal rifiuto di ammettere la propria omosessualità, e gli aveva suggerito che la soluzione sarebbe stata dare un contributo economico alle sue ricerche.”
E infine:
“Le tesi di Freud sono state smentite: da bambini, i maschi non desiderano la loro madre né temono di essere castrati dal padre; le adolescenti non invidiano il pene dei loro fratelli; nessuna scansione cerebrale ha localizzato l’Es, l’Io o il Super Io.”
La primitività di questo modo di pensare lascia, a dir poco, sbalorditi. Anche perché un giornalista sarebbe tenuto, per la sua stessa professione, almeno a documentare ciò che afferma e ad informarsi circa l’argomento di cui parla.
Ovviamente, nessuna scansione cerebrale può individuare il Super Io e sarebbe decisamente problematico se ciò accadesse.
Il termine Super Io è un concetto elaborato da Freud nel suo tentativo di descrizione del funzionamento mentale; come tutte le scienze, anche quella psicoanalitica si serve di ideazioni concettuali per cercare di interpretare il suo oggetto d’indagine.
Un oggetto che è, per sua natura, “non visibile” per cui non solo le ipotesi fatte su esso non possono essere rinvenute sul piano della materia, ma nemmeno l’oggetto stesso, la mente medesima, può venire vista.
Già Platone aveva proposto un’importante considerazione. Nel Fedone, discorrendo Socrate con il discepolo, diceva: “Stando così le cose, dobbiamo ammettere l’esistenza di due tipi di essere, quello che si vede e quello che non si vede”. Questa acquisizione pare continui ad essere difficile per il nostro giornalista.
In questo attacco svalutativo, la pratica psicoanalitica è ridotta, nella migliore delle ipotesi, a mera strumentalizzazione del dolore, cui arridono successi sul piano terapeutico senza che, a questo punto, se ne possa più comprendere il motivo. Ma la ragione deve essere quella asserita da Burkeman nell’ultima parte del suo articolo: conosciamo davvero così poco della realtà della nostra mente che persino la dottrina psicoanalitica può avere un’efficacia terapeutica!
Un attacco del genere, dicevamo, non tiene conto che l’argomento di cui si tratta fa riferimento alla sofferenza della mente e ai modi di intervento che, nel corso del tempo, si sono trovati per curarla. L’attacco – e il disprezzo – si dirige, allora, verso coloro, pazienti e terapeuti, impegnati nella fatica complessa e delicata della terapia. Si dirige, alla fine, verso la sofferenza stessa, sentita, se riferita alla mente, come un’imperdonabile fragilità che non dovrebbe esserci.
Una posizione del genere non credo che, ad oggi, possa annoverare molti sostenitori; chi lo fosse, potrebbe appoggiare queste “tesi” solo in forza di una scarsissima conoscenza dell’oggetto della propria detrazione e in forza di una adesione quasi incondizionata all’organicismo più integralista.
Caratteristiche, queste, che non credo voi auspichiate presenti nei vostri lettori. Il rammarico per l’articolo che avete ospitato è decisamente sentito visto, che la vostra rivista è, invece, motivo di interessante lettura per l’attenzione usata verso una presentazione il più possibile autentica e documentata delle diverse realtà.
Lo sgradito stupore, proprio per questo, è stato inevitabile.
Cordialmente.

Nicoletta Massone

Leggi l’articolo di Nicoletta Massone Lo statuto epistemologico della psicoanalisi