Seminari di supervisione (2001 – 2019)

Formazione continua per psicoterapeuti e tirocinanti delle facoltà di psicologia (2001-2019)

ogni martedi sera dalle 21,15 alle 23,15.

– Supervisione quindicinale in gruppo su casi clinici di adulti

Conduttori: Laura Grignola e Stefania Magnoni – aula B

– Supervisione quindicinale in gruppo su casiclinici di bambini e di supporto genitoriale

Conduttori: Giovanna Capello e Antonina Nobile-Fidanza – aula A

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La supervisione

Supervisione intesa come spazio in cui il giovane terapeuta osi impiegare e articolare la sua capacità di ascolto, un allenamento in progress, in cui -sentendosi aiutato- possa confidare che, per gradi, arriverà -partendo da congetture immaginative- a formulazioni che sempre di più metteranno in contatto la sua prospettiva con la prospettiva del paziente, aiutandolo a comprendere e contenere le emozioni in gioco.

‘Noi diventiamo quelli che siamo solo attraverso il rifiuto
profondo e radicale di quello che gli altri hanno fatto di noi’
Jean-Paul Sartre

Che cosa è una supervisione

La formazione di un giovane terapeuta si basa su tre pilastri:

  • l’analisi personale
  • la partecipazione a seminari teorici
  • la supervisione del proprio lavoro clinico

Con supervisione intendiamo un’esperienza di lavoro sia in coppia (allievo-terapeuta e supervisore) sia in gruppo. Ciascuna esperienza ha un suo valore nel percorso formativo e quindi riteniamo che siano momenti necessari e complementari.

Quali sono i compiti del supervisore?

Il supervisore non può limitarsi a suggerire prospettive diverse nella lettura del materiale e fare commenti, dovrebbe anche insegnare, ma qui nascono le difficoltà: insegnare cosa?

A lungo nella comunità terapeutica si è discusso se la supervisione doveva avere una connotazione maggiormente didattica o analitica, se cioè nel lavoro di supervisione bisognava concentrarsi

  • sul rapporto terapeuta- paziente,
  • sui contenuti delle comunicazioni del paziente,
  • sui modi, tempi e contenuti degli interventi del terapeuta, privilegiando così la dimensione didattica
    o concentrarsi sui
  • problemi di transfert/controtransfert, sottolineando così un’attenzione alla dimensione analitica.

Ma dal momento che attualmente l’attenzione per quanto accade in seduta procede sempre più verso la dimensione relazionale, intersoggettiva, di campo, che vede i due personaggi coinvolti entrambi, anche se non paritariamente, nell’esperienza emotiva di cambiamento, anche la supervisione sposta l’attenzione verso l’esperienza che il terapeuta-allievo fa del e con il suo paziente. Non vi è certo l’illusione o la pretesa di una ricostruzione oggettiva dell’ intimo dialogo della seduta, quello che viene ricostruito e su cui supervisore e terapeuta lavorano, è –usando le parole di Ogden- il modo che il terapeuta ha di ‘sognare’ il paziente in analisi, che consentirà alla coppia al lavoro in supervisione di cogliere quali difficoltà emotive il paziente sta portando nel dialogo analitico e quali fatiche emotive deve affrontare il terapeuta per essere quel terapeuta di cui il paziente ha bisogno.

Non ci muoviamo ovviamente verso un apprendimento per imitazione. Il supervisore non è una persona con una super-visione, una sorta di visione superiore, da cui copiare gli interventi, è un terapeuta con anni di esperienza clinica che offre questa esperienza per sostenere, incoraggiare, aiutare il giovane allievo ad imparare dalla propria esperienza con i suoi primi pazienti. Imparare a vedere, ma direi di più imparare ad ascoltare. Possiamo quindi a rigore parlare più di un super-ascolto, co-ascolto, nell’ottica della visione binoculare di cui ci parla Bion. Ascoltare quello che viene detto, quello che non viene detto, i movimenti del dialogo e del racconto che si va dipanando e le proprie reazioni interne a questa ‘musica suonata a quattro mani e due menti ’. Musica a volte armonica e fluida a volte interrotta e stonata a volte imprevedibile e sconosciuta. La supervisione è quindi un aiuto a mettersi in contatto sia con le comunicazioni del paziente, sia con i movimenti controtransferali che indicano e definiscono la partecipazione affettiva del terapeuta alla vicenda umana chiamata analisi.

È un percorso per rendersi pian piano capaci di rischiare il contatto con i propri pensieri, nutriti dalla teoria che ben assimilata, dovrebbe tendere a sparire nella sua veste paludata e tecnica per consentire alla coppia terapeutica di incontrarsi, intrecciando un dialogo semplice e interessante che non sappia di teorico e freddo. In questo senso Bion è stato assolutamente esplicito: è importante che l’analista in embrione, il candidato, osi impiegare la sua immaginazione e osi provare ad articolarla in supervisione . Questo è uno dei motivi per cui considero che la supervisione possa essere valida; solo se quelli che vengono in supervisione osassero dire quello che pensano e se solo usassero quell’occasione come un modo per far pratica del tentativo di articolare quello che pensano, in termini verbali o in altri modi, se li trovano, io sarei perfettamente contento …. (1997)

Supervisione, dunque come spazio in cui il giovane terapeuta osi impiegare e articolare la sua capacità di ascolto, un allenamento in progress, in cui -sentendosi aiutato- possa confidare che, per gradi, arriverà -partendo da congetture immaginative- a formulazioni che sempre di più metteranno in contatto la sua prospettiva con la prospettiva del paziente, aiutandolo a comprendere e contenere le emozioni in gioco. Tutto questo lavoro perciò ha come obiettivo la trasmissione di un sapere che consenta ai giovani di
utilizzarlo attivamente e creativamente, alla ricerca del proprio stile personale, in una trasmissione generazionale che consenta di fondare il nuovo senza dover disconoscere il vecchio e senza rimanervi troppo passivamente sottomessa. Meltzer ci invitava a ‘guarire dall’analisi’, occorre anche ‘guarire dalla supervisione’, arrivare a vedere il paziente in analisi e i suoi movimenti solo con i nostri occhi. Ma se – come dice Ogden – per pensare i pensieri più disturbanti di una persona sono necessarie due menti, come il paziente ha bisogno del terapeuta, così -agli inizi di questo lavoro molto bello ma anche emotivamente impegnativo- il giovane terapeuta ha bisogno di una mente – quella del supervisore- che lo aiuti a contenere le ansie (sia del paziente, sia del terapeuta stesso) per muoversi verso pazienza, creatività, capacità di gioco e sicurezza, come attrezzature della propria mente che gli consentano di affrontare l’ignoto che è ogni paziente con umiltà e passione

Stefania Magnoni