Intervento di Nicoletta Massone

L’individuo e la globalizzazione
Intervento di Nicoletta Massone, psicoterapeuta del Consultorio CSTCS

Quando un bambino nasce, accanto alla nascita organica, inizia a realizzare il percorso della sua nascita psichica. Tale secondo tipo di evento si verifica nella relazione che il bambino vive con coloro che si prendono cura di lui, in particolar modo con la madre.
Il piccolo essere umano è in condizione di dipendenza assoluta rispetto a questi altri significativi, soprattutto per quanto riguarda l’elaborazione delle sue emozioni. Queste, infatti, sono vissute in modo dirompente dacché la mente non ha ancora sviluppato funzioni atte ad elaborarne l’intensità. Molto spesso il bambino, infatti, è travolto da un mondo fatto di dolore, rabbia, disorientamento ed impotenza. Come sappiamo, se un adulto si avvicina ad un bambino, può accadere che lo veda, che ne senta il terrore e che provi a calmarlo. La madre può prendere in braccio il bambino che piange disperato e nel calore che lo avvolge, nelle parole sommesse che gli arrivano il piccolo può trovare un confine, un elemento buono che argina quelli cattivi che sente dentro di sé. L’esperienza relazionale permette al bambino ritrovare un suo proprio centro che temeva di avere perduto sotto il peso disintegrante del dolore.
In altre parole, il bambino non ha la capacità di tenere insieme la sua mente, dominato come è da continui processi di scissione che hanno lo scopo di evacuare nell’esterno altro l’intollerabilità della sofferenza. Viene, però, costantemente proiettato nell’altrove ciò che il bambino è, le sue esperienze, la sua concreta vita ed è proprio tale fatto che impedisce il formarsi e mantenersi di una continuità d’essere. Il bambino non può che vivere nella mente degli adulti e vi vive realmente se , in quella mente, è contenuto per quello che egli effettivamente è, con i suoi pensieri, paure, desideri.
Tale contenimento origina, per il piccolo, la possibilità dell’esperienza di un nucleo centrale buono, in cui consistere ed identificarsi e da cui procedere con ogni moto di significazione.
Il nucleo originario buono è posto in essere dall’interazione emotiva dell’adulto con il bambino, dall’accettazione che l’adulto mette in campo nei confronti di esso. Essere diventa sinonimo, o meglio, abbreviazione di essere in relazione, rimanda ad essere amato, un bisogno che “non abbandonerà” mai l’uomo lungo tutto la sua vita (Freud, Compendio di psicoanalisi).
Quando tutto questo, per qualche ragione, non può accadere il bambino non riesce a fondare il senso di una sua identità. Al contrario, fa l’esperienza di un traumatico rifiuto: ciò che tu sei non mi piace, non mi interessa, è davvero cattivo, di poco conto, degradato e degradante. Con te non voglio avere a che fare. Di fronte a tale rifiuto, il bambino cercherà, in prima battuta, di produrre delle forme di sé che possano essere accettate dagli adulti, nel costante terrore di non riuscire a nascondere elementi inopportuni che lo possano fare precipitare ancora una volta nella terribile esperienza dell’abbandono da parte di coloro da cui dipende, di cui ha bisogno per potere continuare a vivere.
Al bambino non è possibile sperimentare con sufficiente certezza: “io sono l’oggetto”. Se l’Io e l’altro non sono stati racchiusi a sufficienza nello stesso ed unico pensiero, se il confine non è servito per unire i due in uno, non ci sarà la possibilità di uno spazio in grado di strutturare la mente, origine di ogni possibile coerenza interna.
Il risultato di tale mancanza coincide con il senso di essere nulla, lo spaesamento dato dall’assenza di orientamento emotivo, di familiarità con la vita. Paradossalmente, la profondità originaria, la parte più intima del sé diventa il luogo di maggior deprivazione possibile: non sono stato amato, se non fossi nato sarebbe stato meglio.
Pessoa, ne Il libro dell’inquietudine, descrive questa condizione in modo particolarmente toccante

«All’improvviso oggi ho dentro una sensazione assurda e giusta. Ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno […] Sono stato derubato dal poter esistere prima che esistesse il mondo. Se sono stato costretto a reincarnarmi, mi sono reincarnato senza di me. Sono la periferia di una città inesistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. […] Da una botola situata lassù, sto precipitando per lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, infinitupla e vuota. La mia anima è un maëlstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo. E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso. […] E in me è come se l’inferno ridesse, senza neppure l’umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell’universo morto, il cadavere girante dello spazio fisico, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, disforme, fuori del tempo, senza un dio che l’abbia creata, senza neppure se stessa che sta girando nelle tenebre. Poter saper pensare! Poter saper sentire! Mia madre è morta molto presto e io non l’ho conosciuta …»

È in questo luogo che si installa il tentativo di sopravvivenza contro la morte psichica. Rispetto ad un’esperienza che parla di un radicale rifiuto, si tenta l’uccisione di un altro così terribilmente lontano ed inaccessibile. Il vuoto lasciato da questa operazione omicida, porta il bambino a rivolgersi prevalentemente ad un mondo di fantasia. Da quel momento in poi, l’attenzione è rivolta, contemporaneamente all’accadere delle esperienze, a tale mondo di fantasia che sembra potere correggere e sostituire il significato della vita.

«Il sogno penetra nel mondo reale nel rapporto con gli oggetti e il vivere nel mondo reale penetra in quello dei sogni […] Per contro, il fantasticare rimane un fenomeno isolato che assorbe energia, ma non contribuisce né al sogno né alla vita» D. Winnicott.

Il ritiro nella fantasia rappresenta un movimento verso un luogo dove si può raggiungere uno stato mentale di piacere. Il bambino, catturato dal ritiro e dal piacere che in esso sperimenta, non prova soddisfazione dal suo rapporto con gli altri e non apprende dall’esperienza emotiva; è destinato a non conoscere sé e le reazioni affettive degli altri, mentre diventa sempre più dipendente da un sistema che lo isola dalla vita. In tale sistema, può identificarsi con immagini interne onnipotenti , equipaggiamento con cui cerca di affrontare le frustrazioni dell’esperienza. Questa identità interna onnipotente è creata nel laboratorio della mente in cerca di una consistenza, nel frenetico e maniacale sforzo di mettere insieme quanto vi è di luccicante che possa dare l’idea di potenza ed incorruttibilità, in una giustapposizione grottesca ed infantile.
L’assenza di un originario riconoscimento obbliga alla messa in scena del narcisismo, inteso non come amore del sé, bensì come dolore di esistere che rimanda all’assenza di una storia. La storia mia non c’è perché nessuno mi ha mai voluto.
Un soggetto di questo tipo non tollera il buco della discontinuità relazionale: essere due, che per lui significa essere uno, è l’unica forma possibile di esistenza. Il soggetto ingloba l’oggetto perché è quell’oggetto che gli deve dare il senso di un consistere di cui non è provvisto. Per l’oggetto in sé, come per tutto il mondo esterno, vi è una assoluta mancanza di interesse: la produzione fantastica e il suo bisogno di continuo approvvigionamento, annulla la curiosità per gli altri e per il proprio sviluppo psichico. E la relazione instaurata non può evolvere da tale stadio di razzia; una scelta affettiva, infatti, diventa impossibile nella misura in cui non può che far rivivere il primario investimento che si è spento nella solitudine straziante del rifiuto.
Ogni relazione, al contrario, deve esclusivamente alimentare l’identità onnipotente, nella negazione di ogni limite.
Ci si può chiedere che cosa c’entrino tali vicissitudini con il fenomeno della globalizzazione. In realtà, a ben guardare, la società che ci circonda sembra abitata da una modalità come quella che stiamo descrivendo. Ad ogni individuo è chiesta una costante perfezione, una incessante attività, l’oro del successo, una eterna giovinezza. La vita d’elezione diventa quella degli attori e la letteratura ufficiale, quella del regime, è costituita dai rotocalchi dedicati al gossip intorno alla vita delle persone in qualche modo famose. Perseguitato dall’ansia e dal senso di colpa di non cogliere tutte le possibilità messe in campo, l’individuo di tale società, ossia noi, inventa strategie di sopravvivenza per raggiungere un benessere di mente e di corpo: nutrirsi di cibi genuini, prendere lezioni di ballo o di danza del ventre, bagnarsi nel mare della saggezza orientale, fare jogging, imparare ad entrare in rapporto …
Strategie tese al raggiungimento di un piacere che possa dare alla mente la sensazione di coincidere con quell’ideale di potenza con cui ci si è identificati.
Anche i rapporti sono utilizzati a tal fine, compresa la sessualità: sono irresistibile, sono atteso quanto lo è stato il redentore dai pastori della Galilea, la mia bellezza è catturante. Sono gli altri che hanno bisogno di me, io sono già ricolmo di ogni perfezione. Al massimo, i rapporti possono essere utilizzati nella loro fase iniziale, dove l’assenza di conoscenza consente il massimo utilizzo di proiezioni ed identificazioni onnipotenti. Mai, però, è possibile un approfondimento che richiederebbe il riconoscimento della diversità e del limite come l’ammissione della caducità.
Persino gli oggetti subiscono identica sorte; la maggiore disponibilità di mezzi e l’ampliamento di possibilità offerto dalla tecnologia, va direttamente ad alimentare il sogno di perfezione di cui stiamo parlando, unica forma del consistere dell’uomo contemporaneo. Come per le persone, anche per le cose non esiste un autentico interesse, curiosità e preoccupazione per il loro esserci e per il loro destino. Da anni l’America diserta il congresso mondiale sullo stato della terra.
Una “cultura” di questo tipo rafforza il rifiuto e la paura per la vita reale, paventata come eccessivamente frustrante e dolorosa nella misura in cui parla di limite, della non disponibilità continua degli altri, della finitudine, della morte. Tutto ciò finisce con il diventare sempre più quantità negativa, non detto, tabù che può solo contaminare, che non si può né dire, né pensare.
In queste condizioni, chi potrà più identificarsi con il pianto di un neonato che parla di paure di abbandono, di dipendenza estrema, di mancanza di risorse, di solitudine, di terrore di morire?
Recentemente, anche in Italia è stata approvata la legge che consente di somministrare psicofarmaci ai bambini. Un terribile segno dei tempi, come il decodificatore Beghelli del pianto, che testimonia una impossibilità di ascolto di ciò che è limitato, piccolo ed impotente. Un segno che ci parla del rischio di un’assenza di relazione che ancora presiederà alla nascita ad uomini vuoti, senza storia e senza radici, condannati all’angoscia del vuoto interno e alla fabbricazione di una infinita volontà di potenza.