“Anche il pugno era una volta una mano con le dita tese”

di Lidia Compagnino

Sono contenta di presentare l’intervento di Vittorio Lingiardi sull’omosessualità e la ricerca di presunte spiegazioni di diversa natura.
La mia presentazione durerà 10 minuti e verterà intorno a 2 idee: la prima è il pregiudizio con cui viene accolta oggi la poesia e quindi poi respinta, la seconda che non esiste genere o orientamento sessuale che differenzi il dispiegarsi dell’affettività umana e le due poesie che vi porterò vorrei ne fossero la prova.

Ho il piacere quindi –e il timore naturalmente-  di presentare uno psichiatra-psicoanalista, importante teorico e clinico, professore universitario, molto conosciuto dal pubblico nazionale/internazionale che ha avuto il coraggio di esprimersi recentemente anche come poeta.
Proprio per questi differenti motivi, l’essere anche poeta di Vittorio Lingiardi,  il fatto che la psicoanalisi non abbia dal punto di vista clinico una precisa teorizzazione su come lavorare con un paziente omosessuale o eterossessuale ma solo col dispiegarsi della sua affettività,  pur essendo io psicoterapeuta e socia del consultorio, mi piace iniziare a parlare partendo da qualcosa di piccolo, il pregiudizio con cui non riesce più naturalmente a venire accolta la nostra poesia e, di conseguenza, la violenza con cui viene respinta e rifiutata.
Il titolo stesso di questa mia presentazione è pure infatti il verso di un poeta Yehouda Amichai: Anche il pugno era una volta una mano con le dita tese.
Ciò che un tempo era una mano aperta –disponibile ad incontrare- si fa per disabitudine, per paura, per sconforto, per delusione un pugno chiuso pronto a sferrare il colpo.
Così è stato, a parer mio, il destino della poesia occidentale, complici alcuni autori della poesia stessa –che la responsabilità di una sconfitta non è mai ravvisabile in uno solo dei fronti- che è andata via via, negli ultimi anni, chiudendosi sempre di più in una raffinatezza intellettuale che l’ha isolata e snaturata, rendendola di difficile accesso, allontanando i lettori anche dalla poesia più autentica che pure permane, capace di toccare semplicemente le corde del cuore di tutti.
La poesia infatti è la forma più antica di comunicazione dell’uomo: è il canto improvvisato delle madri che consolano i loro piccoli dalla sofferenza dell’essere venuti al mondo e la loro stessa stanchezza dell’averli partoriti e del volerli cullare – non c’è madre neppure la più stonata che non canti tutto l’amore e tutta l’aggressività, tutta la complessità quindi che l’essere madre comporta- a quel qualcuno che con quel canto, che è musicalità e parole, si rasserena e si conforta pur non avendo ancora una mente capace di decodificare contenuti e significati.
E’ il narrare ritmico –che aiuta la memoria- delle storie d’amore e d’armi, di donne eroi guerra lavoro divinità e viaggi, con cui ogni letteratura, di ogni tempo e latitudine- comincia e accompagna il suo percorso di narrazione del proprio divenire uomo, di mito e di storia poi, di scrittura romanzo infine.
Possiamo allora azzardare di dire che in origine era la parola sì, ma la parola poetica, seppure ancora essenziale,  davvero universalmente compresa da tutti.
Il pensiero si raffina, la scrittura pure, diventa prosa –storia e romanzo- e quello che un tempo era di facile intuizione e di comprensione al volo – seguendo ciascuno le proprie inclinazioni e i propri sentimenti-  diventa elevato e colto, ma in modo artificioso ostico innaturale necessitante di istruzione, chiose, note, indicazioni –ardua applicazione quindi.
E la poesia diventa –è diventata- il coraggio di pochi e la lettura di pochissimi.
Ma come è stato possibile?
Non ho la pretesa di poter rispondere io a questa domanda ma un tentativo lo vorrei comunque fare.
Abbiamo perso –poeti e lettori di poesia- la fiducia nella nostra unica irripetibile peculiare straordinaria bellezza e capacità, prescindendo da quelle che sono le miserie e le meschinità di ciascuno.
E perdendo la fiducia quanto abbiamo perso di noi: la sorpresa, la curiosità, l’interesse e il fascino del quotidiano, del consueto e dell’inconsueto che spalanca gli occhi bambini su un mondo continuamente nuovo e diverso!
C’è rimasta la diffidenza, la paura e il pugno chiuso.
Della cultura è rimasta l’istruzione, della parola vissuta il gioco di parole, del verso che canta il sentimento di tutti la persuasione arrogante di pochi.
Abbiamo smarrito la capacità di raccogliere tra le nostre mani la semplicità del nostro essere unici e diversi, simili e fraterni nel sentire e provare emozioni e sentimenti e saperli cantare e ascoltare.
Ed ecco come un poeta ci riporta in pochi versi questo impoverimento della poesia e dell’umanità:

            Una ragazza bionda si è chinata su una poesia.
Con una matita affilata come un bisturi trasferisce le parole su un foglio
bianco e le trasforma in trattini, accenti, cesure.
Il lamento del poeta caduto in combattimento ha ora l’aspetto di una
salamandra smangiucchiata dalle formiche.
Quando lo trasportavamo sotto il fuoco, credevo che il suo corpo ancora
caldo sarebbe risorto nella parola.
Ora, vedendo la morte delle parole, so che non c’è limite alla decomposizione.
(…)

Zbigniew Herbert

E questo discorso sulla poesia e sulla bella possibilità che potrebbe esserci che questa sia riaccolta come un linguaggio semplice, naturale, capace di tradurre immediatamente i nostri più radicali sentimenti, se potessimo superare il timore che spesso la scuola ci ha indotto a provare verso questa forma di comunicazione,  ipotizzandola come non intuitiva –quale invece è- vorrei mi aiutasse a entrare nel vivo di quello che è l’argomento di oggi: i sentimenti conoscono orientamento sessuale o è la presunta cultura che crea differenze e muri, ghetti e pregiudizi che altrimenti non esisterebbero?
Ho provato a leggere i poeti e le antologie di poesie interrogandoli sui sentimenti vissuti provati e cantati: la gioia, l’amore, la rabbia, il dolore, la perdita, l’abbandono, il tradimento, la tristezza, la tenerezza e tantissimi altri e a capire se nel declinarli si potevano ravvisare differenze che provenissero dal genere del poeta e dal suo orientamento sessuale.
Non ne ho trovato.
Ho trovato invece fratellanza e similitudine.
Così voglio provare a leggere con voi due poesie su un unico fondamentale sentimento che ho scelto proprio come medicamento e terapia per i mali di cui questo ciclo si occupa -pregiudizio e violenza–: l’accoglienza quindi- una di un poeta biograficamente omosessuale e l’altra di un poeta biograficamente eterosesssuale e vedere insieme a voi che cosa ci raccontano nei loro versi, senza porre attenzione sul dato biografico che pure me li ha fatti scegliere, per poi poterlo negare in quanto vincolante.

La prima:

In un piccolo spazio
del mio cuore
ho letto lacrime…

Nel vagare dei pensieri
Ho visto alberi scuri
E poche anime.

Quando la notte calava
Col silenzio di quel pianto
Ho scritto parole.

D’improvviso l’abbraccio,
la tua voce, ritorna una speranza,
i nostri baci, ricordo di un dolce sapore;
assaggio di nuovo con te il primo amore
(…)
Raccolto come in preghiera
Mi avvicino piano…
Non voglio offenderti, mai.
Con cura, capiremo.

Pasquale Quaranta

L’accoglienza è qui un sentimento quieto e senza sforzo di ciò che è triste e di ciò che è gioioso, del pianto della solitudine e dell’incanto sorpreso di un nuovo di nuovo sempre primo amore. E’ un sentimento misurato e senza sfarzo: non usa parole altisonanti, non vuole colpire con la grandiosità, ma puntare diritto al cuore con la semplicità dell’abbraccio, del bacio, della voce e restituire speranza e fiducia che ci si possa fare ancora del bene se ci avviciniamo piano e senza violenza, con delicatezza e rispetto,  se con cura cercheremo di capire.
Se in questo sentimento pulito e trasparente, raccolto appunto come in una preghiera, ci mettessimo sforzo e imposizione diventerebbe qualcos’altro invece che accoglienza, forse l’esercizio pur nobile di una virtù, disciplina, che tradisce l’umanità e la visceralità e diventa regola e obbligazione; se ci mettessimo sfarzo e artificio letterario rischierebbe l’ipocrisia, lo sfoggio sociale, l’ideologia tradendo l’umiltà  e la semplicità del gesto di chi si dispone in modo riservato intimo quasi segreto all’accoglienza della cura e del capirsi, lentamente.

La seconda:

Non il messaggio che attendevo, tu,
messaggera tu stessa, di che?
D’amore, non può essere d’altro .
Sei cresciuta a dismisura,
mi hai occupato cuore e mente
come fanno le figure dei poemi
che mi chiedono voce e sangue.
Tu invece provieni da te stessa
Dalla tua irrefutabile esistenza.
Da lì, non da versi di poeta
O per altra mediazione.
Da te a me, dalla tua origine
Alla mia accoglienza.

Mario Luzi

L’accoglienza è qui un sentimento immediato: è il sentimento di chi dice Eccomi e offre spazio conforto e riparo, si fa concavo, immensamente concavo, per poter dire Eccoti e offrire riconoscimento unicità e pazienza.
E’ il sentimento essenziale che accetta che tu sia tu, irrimediabilmente altro anche dalla propria fantasia e dalle proprie aspirazioni, non per questo ma grazie a questo più bello, più vero,  più stupefacente.
Eppure non è impulso né improvvisazione– che sarebbe un ospitare l’altro senza sicurezza, senza costanza e senza profondità- ma pensiero che immagina un percorso breve e vissuto, quello che va dall’origine misteriosa e sconosciuta dell’altro alla nostra accoglienza –anch’essa misteriosa e sconosciuta, per certi irrinunciabili aspetti: è il percorso dell’intuizione –non sprovvista di tecnica- che rende splendidi i mestieri di psicoanalista e poeta laddove per brevi attimi lo squarcio dell’intuizione/accoglienza offre un buon contenimento alla violenza delle emozioni e del viverle pienamente, con tutto l’essere.

Ed entrambi i poeti allora indipendentemente dal tu a cui si rivolgono, che sia dello stesso genere o dell’altro, nei brevi versi che vi ho voluto riportare esprimono il loro SI’ alla presenza rischiosa e pericolosa dell’altro nella loro vita, rischiosa e pericolosa fino al dolore, sapendo profondamente che un MA e un FORSE sarebbe già una porta socchiusa, il limite della soglia, l’insidia della paura e della sfiducia, la limitazione fatale che l’altro possa essere l’incontro con una vita più piena.

Gli psicoanalisti e i poeti allora ci aiutano e sostengono nell’accettare l’azzardo dell’imprevedibile cambiamento che l’incontro  -reale possibilità di trasformazione- possa essere sorpresa, effettivamente e affettivamente un dono.

Concludo accogliendo una intraducibile parola inuit – IKTSUARPOK – e cioè il vitalissimo senso di aspettativa che spinge l’eschimese e noi tutti  a uscire ripetutamente dall’igloo del nostro ego per vedere se, per fortuna, qualcuno sta arrivando e sperare di potergli offrire uno spazio, un cuore,  aperto e libero da preconcetti e paure.

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Lascio la parola all’ospite,  Vittorio Lingiardi, poeta e psicoanalista, certa che il poeta soccorra l’analista nell’accogliere l’altro e la verità nuda dei suoi sentimenti porgendo un riparo libero da sovrastrutture e eccessivi schermi teorici.