di Giovanna Capello
Quando ho pensato ad un titolo per questo breve intervento, che introdurrà il lavoro di Luisa Tirelli, ho pensato, di getto, ad un romanzo e al film che ne è stato tratto…è la storia di “E Johnny prese il fucile”.
Continuava a risuonarmi nella mente, e non capivo perché…
Recuperando il ricordo della trama, dopo un poco ho trovato il nesso…
La storia è nota: è la vicenda del giovane soldato Johnny che, alla fine della prima guerra mondiale, colpito in pieno da una granata, si ritrova ridotto ad un tronco umano: senza arti, il volto semidistrutto, senza vista né udito, senza uso della parola. Intrappolato per sempre in una stanza d’ospedale, intubato, nutrito artificialmente, agganciato ad una macchina che respira per lui…nessuna possibile relazione con l’esterno.
Il tempo per Johnny è inesorabilmente bloccato, in un vuoto di orrore indicibile.
Non potrà più accadergli nulla.
Ma cosa può avere a che fare Johnny – che è la straziante personificazione della Vittima e non certo dell’Aggressore Crudele – con l’immagine che noi abbiamo dell’adolescente violento?
Ecco, credo di averlo scelto perché non posso che pensare la violenza adolescente come esito – perfettamente coerente, nelle sue manifestazioni più efferate – della deriva violenta del nostro mondo adulto. Johnny ha preso il fucile in nome e per volere di altri: di un potere adulto, lo stesso potere che – nel momento in cui la granata si rivolta contro il soldato – lo confinerà in un letto d’ospedale, condannandolo al silenzio e all’emarginazione assoluta.
I crescenti episodi di teppismo, l’organizzazione in bande, l’allarmante fenomeno del cyberbullismo (bullismo online, effettuato attraverso le chat), i vandalismi, la violenza sessuale e la violenza contro i soggetti più deboli, i comportamenti autolesivi sul corpo e sulla pelle….e inoltre, una dispersione scolastica in aumento soprattutto nelle grandi città, e la scuola stessa, divenuta sempre più frequentemente sede di reati….tutto questo rappresenta il riflesso – nel mondo adolescente – della violenza e della distruttività che segnano la nostra storia attuale, fatta di attacchi terroristici, genocidi, guerre di portata devastante. Decisamente, dunque, la violenza adolescente è un riflesso in scala ridotta della violenza adulta!
Da qui, dunque, l’immagine di un’adolescenza intrappolata in un funzionamento violento, la cui matrice è però spesso da collocare altrove.
Allora, quando penso alla violenza, la penso rappresentata dall’immagine straziante di Johnny: un grumo di vita incastrato in un vuoto rappresentazionale, in un eterno presente, scollegato dal passato e senza alcuno sguardo rivolto verso il futuro.
Questa, è la violenza. Altro è l’aggressività.
Perché l’aggressività adolescente sappiamo essere una forza vitale – fisiologica e costruttiva – in quanto permette al ragazzo di prendere le distanze dal suo Sé bambino e dalla dipendenza infantile dai genitori. Per quanto rabbiosa, l’aggressività è un affetto, capace dunque di mantenere il legame con l’oggetto, con l’altro.
E’ chiara, allora, la natura non necessariamente patologica dell’aggressività: è una “necessità biologica” che permette all’adolescente di individuarsi, esistere nel mondo ed esplorarlo.
Tutto questo, distingue l’aggressività dalla violenza.
La violenza implica infatti, per sua natura, qualcosa di molto più spietato, cioè la disumanizzazione dell’altro.
Soffermandosi sugli aspetti più orribili della crudeltà umana, lo psicoanalista Christopher Bollas sostiene che il male trova la sua concretizzazione nella violenza priva di pensiero, vuota e terribile, rappresentata al meglio dal genocidio e dal serial killer. L’aggressore uccide nell’altro tutto ciò che è buono (la fiducia, l’amore, la riparazione), ri-creando così, serialmente, nel Sé delle vittime l’uccisione del proprio Sé, avvenuta nell’infanzia.
Disumanizzando l’altro, l’aggressività non conosce più, allora, la possibilità di identificarsi con l’oggetto– negando la comune umanità di vittima e aggressore.
Negando la natura umana della vittima, il soggetto nega anche la propria.
Operare violenza significa quindi de-umanizzarsi.
La violenza ha l’effetto pietrificante dello sguardo di Medusa, che pietrificando l’Altro condanna se stessa ad una condizione di cosa isolata, morta. La distruzione dell’altro impoverisce il pensiero adolescente, istupidisce e rende impermeabile la sua mente, impedendole di trovare altre soluzioni. Perchè – come scrive, con sintesi straordinaria lo psicoanalista Eric Brenman – la condizione di ristrettezza mentale è necessaria, affinché la crudeltà possa diventare operante.
Sappiamo che un adolescente può sentirsi così inconsistente, da ricercare la prova della sua esistenza nelle reazioni che riesce a suscitare negli altri. Ma se le grida di allarme, espresse attraverso comportamenti a rischio, non vengono udite e accolte – dall’ambiente circostante, in primo luogo dalla famiglia, in primo luogo dai genitori – la sfida può intensificarsi in un crescendo violento, che esprime contemporaneamente rabbia e disperazione.
Per fronteggiare il dolore psichico, questo deve essere allora istantaneamente evacuato: è questo un processo difensivo estremo che comporta l’impossibilità di portare a termine il fisiologico processo di lutto adolescenziale – lutto, come dicevamo, per la perdita della condizione infantile e del rassicurante dipendere dai genitori – e allora, al posto del tempo della riflessione, della crescita e dello sviluppo, si instaura il Tempo circolare e mortifero della ripetizione.
La violenza è capace – in ultima analisi – di paralizzare il tempo.
La distruzione del tempo è il non-luogo in cui abita l’adolescente violento, il non-luogo in cui abita il povero, disperato Johnny.
Johnny che però, ad un tratto – nel letto asettico dell’ospedale in cui è confinato, apparente vegetale – riprende a pensare.
Si riattiva in lui un flusso di pensieri disarticolato: non può che essere così, per una mente che non ha altro appiglio e punti di riferimento se non se stessa. (La stessa solitudine vive l’adolescente violento, e come quello di Johnny è il suo pensiero, frantumato e accartocciato su se stesso).
Vi leggo qualche riga, tratta dal romanzo: “Il tempo di Johnny non era completamente cosciente: si sentiva mordere da un topo e dopo lunghi momenti di dolore e paura comprendeva che però si trattava di un incubo. Ma in breve, quella certezza lo abbandonava. Forse davvero un topo lo stava divorando. Forse non c’era soluzione: era destinato a non sapere se era sveglio o dormiva. Come faceva a saperlo? Una persona ha bisogno di sapere: è importante. Era la cosa più importante che gli fosse rimasta. L’unica cosa che aveva era una mente, e gli sarebbe piaciuto sapere che sapeva ragionare con chiarezza. Ma com’è possibile che una mente ragioni con un topo addosso?”
La mente rosicchiata da un topo: é una descrizione chiara e straziante del cortocircuito del funzionamento psichico.
Cortocircuito che noi adulti siamo chiamati ad affrontare. A diverso titolo, con ruoli e competenze diverse, ma spesso ponendoci di fronte alla violenza adolescente con lo stesso assetto difensivo: perché tutti, di fronte alla violenza – genitori, insegnanti, educatori, assistenti sociali, psicologi – sentiamo minacciate le nostre competenze, la nostra stessa identità adulta.
Io posso fare riferimento alla nostra professione, mostrarvi quale impatto abbia la violenza sul nostro funzionamento mentale di psicoterapeuti… nel momento in cui arrivano o vengono condotti da noi, noi ci disponiamo a pensare questi adolescenti come giovani pazienti: pensiamo, allora, che con il nostro lavoro fatto di accoglienza, ascolto, contenimento, interpretazione, sapremo aiutarli a comprendere e ad abbandonare i comportamenti disfunzionali e patologici e a ridurre la loro disperazione….partiamo, insomma, dal pre-giudizio rassicurante di essere noi nel pieno possesso di un’identità chiara, definita e adulta: quella di psicoterapeuti.
Nell’incontro con l’adolescente violento, invece, ci coglie di sorpresa l’essere investiti da un bombardamento, da quella che è stata definita “una nube di frammenti psichici in cerca di contenitore”.
L’esplosione che ha colpito Johnny si propaga, ci raggiunge e colpisce anche noi.
Affrontare il tema del trattamento clinico della violenza adolescente significa infatti interrogare profondamente la nostra identità psicoanalitica.
Di fronte ad uno stato psichico di blocco dello sviluppo, in cui il pensiero e l’ideazione si sono arrestati ad un livello rudimentale, estremamente concreto, siamo costretti a confrontarci inevitabilmente con la nostra impotenza.
Vorrei, allora, mostrarvi un’immagine che mi è sembrata particolarmente chiara nel suo rappresentare quel che incontriamo nella stanza d’analisi. Probabilmente molti di voi la riconoscono: era l’immagine di copertina del Venerdì di Repubblica apparsa qualche settimana fa e raffigura un ragazzino-soldato dell’Is. L’articolo, a cui l’illustrazione fa riferimento, parla dei ragazzini che vengono reclutati sotto la bandiera nera del Califfato per essere addestrati e trasformati in terroristi. Non entro nel merito di un terrorismo che ha perso anche il suo ultimo tabù – perché il terrorismo storico non reclutava bambini – ma mi limito a condividere con voi la feroce potenza suggestiva dell’immagine.
Un baby killer ha appena sgozzato il suo peluche, il coniglietto rosa.
E’ l’emblema del sacrificio dell’ingenuità infantile: sappiamo che per l’adolescente è necessaria una quota fisiologica di tale sacrificio, perché possa arrivare a conquistare una posizione autonoma di giudizio sul mondo e a dare alla luce un proprio progetto desiderativo.
Ma qui possiamo osservare con sgomento il sacrificio violento e concreto dell’oggetto – l’orsetto di peluche – l’oggetto a cui lo psicoanalista Donald Winnicott ha dato immenso valore, chiamandolo oggetto transizionale. Winnicott lo ha assunto ad emblema di quella preziosa area di gioco, area creativa che ha inizio nella primissima infanzia e che accompagna l’essere umano per tutta l’esistenza, trasformandosi nello spazio del funzionamento simbolico. Il bambino pensa: “Gioco con il mio peluche mentre la mamma non c’è, e mi consolo, facendo finta che il peluche sia la mamma, in attesa che la mamma ritorni.” Un oggetto al posto di un altro: inizia a funzionare così, il pensiero simbolico!
In questo spazio – da bambini prima, in seguito da adulti – continuiamo a trovare personali soluzioni creative ai problemi, compensando i limiti e le frustrazioni imposte dall’esistere con uno slancio creativo che ci fa sentire capaci di funzionare, di realizzare sogni, di costruire cose buone e belle…sentiamo, cioè, di saperci riservare uno spazio ed un tempo capaci di allentare il dolore e la solitudine. Winnicott ci ha detto, insomma, che gli oggetti transizionali non finiscono mai: quindi, tutti noi attraversiamo l’esistenza accompagnati da un peluche di qualche tipo!
Che cosa è accaduto, allora, a questo ragazzino?
Qualcosa che, a questo punto, comprendiamo essere molto grave: per la volontà feroce di altri, dei grandi, si è prodotto un drastico arresto, il black out della funzione simbolica: attraverso la distruzione del peluche, concretamente identificato con la persona perduta e odiata, si attua l’attacco concreto al corpo di un’altra persona o al proprio corpo, e insieme alla propria mente, trattati tutti come se fossero oggetti.
Metterci al servizio di questo tipo di pazienti ci impone allora una grande fatica e una grande responsabilità: l’adolescente deve infatti incontrare un adulto che abbia affrontato e
che sia riuscito a reggere l’impatto della propria pubertà e della propria violenza.
Ma non è pensabile esaurire una volta per tutte la presa di coscienza della propria violenza istintuale, naturale e innata. Come ha scritto lo psicoanalista Jean Bergeret: “L’emozione che l’adulto prova di fronte alla riattivazione angosciante della propria primitiva violenza, non è mai completamente integrabile…e gli psicoanalisti non sfuggono a questa reazione.”
L’attacco dell’adolescente non è solo e non tanto al nostro pensiero e alla nostra funzione interpretativa, ma al nostro assetto emotivo , quando in seduta irrompe la violenza che ci porta a condividere il timore di perdere – anche noi, a nostra volta – il controllo.
Non è facile, ma in questi momenti l’adolescente vuole sentire che noi possiamo far fronte non solo alla sua, ma soprattutto alla nostra violenza mobilitata.
Perché, in questi casi, può farsi davvero concreta la paura che la violenza fisica possa essere messa in atto contro di noi; in altri casi, concreto è lo stato d’allarme che viviamo di fronte a possibili attacchi autodistruttivi dell’adolescente, fino ad arrivare ai rischi suicidari: insomma ci sentiamo, facilmente, angosciati e confusi.
L’impulso può essere, allora, quello di risolvere immediatamente il nostro senso di impotenza – quando è avvertito come intollerabile – mettendoci, specularmente e istantaneamente , a nostra volta in azione.
Oscillando tra tentazioni espulsive e desideri salvifici, possiamo allora diventare o troppo rigidi – trasformandoci negli inflessibili rappresentanti della Legge e della Regola contro le spinte pulsionali e trasgressive dell’adolescente – o all’opposto diventare troppo duttili e flessibili, identificandoci proprio con quelle spinte pulsionali e trasgressive. O, ancora, gli attacchi dell’adolescente possono appannare il nostro pensiero creativo, rendendoci timorosi nel dar segno della nostra presenza in seduta. Possiamo sentirci ridotti – così- ad un’entità insignificante.
Di fronte all’emergere di rabbia, provocazione e sfida, non è facile continuare a svolgere una funzione di contenimento, di protezione e di elaborazione: a lungo, allora, non possiamo far altro che accontentarci, come è stato scritto, di “rimanere vivi”, senza soccombere alla disperazione e senza cedere all’idea che non ci sia nulla da fare.
Cercare di rimanere vivi – come ci ha insegnato Winnicott – non è proprio una cosa da poco: significa non fare soltanto riferimento ad un saldo modello teorico e affinare la nostra tecnica: significa addentrarci nel campo delle motivazioni profonde che ci spingono a lavorare con questi pazienti. L’empatia naturale che proviamo per la condizione adolescente, nasce dall’adolescente vivo che, nell’incontro con questi ragazzi, si rimette in moto dentro di noi.
Rimanere vivi significa allora essere capaci di entrare in relazione con il vissuto violento, senza il timore di riconoscerlo come espressione – anche – del nostro funzionamento mentale.
Questo ci mette in gioco profondamente: perché ci chiama al continuo approfondimento della nostra analisi personale e della nostra capacità autoanalitica.
E ci pone di fronte ad un compito impegnativo e a suo modo struggente – che è poi il compito di tutto il mondo adulto:
quello di accompagnare le loro adolescenze, rivisitando la nostra, rimanendo nello stesso tempo adulti e separati, e salutandoli alla fine di un pezzo di strada fatto insieme. Come ha scritto Luisa Tirelli: “Con la non facile sensazione – comune a tutte le fasi conclusive delle psicoterapie – che se tutto è a posto, niente è in ordine. E, mentre loro vanno e vengono, noi dobbiamo rimanere là”.
Con la speranza di aver collaborato a ricucire lo strappo del piccolo, ma così vivo e importante, coniglio di peluche.
Lascio ora la parola a Luisa Tirelli,
e grazie!