Ivano Calaon, Il significato delle stelle.

Le competenze dello psicoterapeuta tra astronomia e astrologia

“Pensando alle stelle notte dopo notte cominciai a capire che “le stelle sono parole” 
e tutti gli innumerevoli mondi della Via Lattea sono parole, e così anche il nostro mondo.
E capii che non aveva importanza dove stavo, se in una stanzetta piena di pensieri 
o nell’universo senza fine di stelle e montagne, 
è tutto nella mia mente.”

Jack Kerouac – “Viaggiatore solitario”

Abstract:

L’identità professionale e culturale dello psicoterapeuta è complessa, si muove sul confine tra cultura scientifica e umanistica. Queste due anime possono essere descritte attraverso alcune coppie di opposti: astronomia e astrologia, chimica e alchimia, saggio e romanzo. La faticosa e continua sintesi tra questi due mondi richiede due tipi di competenze: competenza di metodo sui processi che avvengono nella relazione terapeutica e competenza nella cura di Sé.

Quando guardiamo le stelle abbiamo a che fare con forme che non esistono più da tempo e che hanno quell’aspetto solo da uno specifico punto di osservazione, la Terra. Ad esempio la luce della stella più vicina a noi, il Sole, ci mette circa otto minuti ad arrivare sul nostro pianeta. E nel cielo notturno l’astro più vicino è Proxima Centauri, nella costellazione del Centuaro, a circa 4 anni luce da noi. In pratica l’immagine che vediamo risale a più di quattro anni fa… e per tutte le altre costellazioni l’età delle immagini può essere di milioni o miliardi di anni fa. La maggior parte di ciò che colpisce i nostri occhi non esiste più da tempi immemori.
Eppure da sempre gli esseri umani hanno cercato di dare un significato e usare quello che vedono in cielo nelle notti limpide. Il medesimo tentativo che facciamo con le nostre immagini interiori: passiamo mesi, anni, a volte una vita intera a cercare di trovare un significato a immagini, ricordi, sensazioni il cui riferimento esterno è scomparso in epoche remote.

ASTROLOGIA vs ASTRONOMIA

Un primo modo per dare significato alle visioni notturne è quello dell’astrologia. Come in un gioco della settimana enigmistica le immagini delle stelle vengono collegate da linee e, con un po’ di fantasia, è possibile vedere animali, eroi, divinità, creature fantastiche e credere in una connessione, prevedibile e comprensibile, tra il moto dei corpi celesti e la nostre esistenze. L’astrologia concepisce un vero e proprio sistema di classificazione della personalità, un sistema utile per districarsi nella complessità dei rapporti umani e con valenza predittiva . In questo senso non è poi tanto diversa dai manuali diagnostici come il DSM o il PDM usati in campo psichiatrico e psicologico. Si tratta, in ogni caso, di un tentativo che da sempre ha grande presa e che crea la sensazione di una connessione tra il Se, gli altri e l’universo, di poter decidere se è il momento opportuno per l’amore, gli affari, la salute, di prevedere il futuro o almeno cercare di non esserne travolti.
L’astrologia condivide con l’astronomia lo finalità dell’orientamento. La prima lo fa nel mondo delle relazioni e delle scelte per il futuro, la seconda in quello fisico e geografico. I marinai da sempre usano le stelle per orientarsi. La regolarità dei movimenti, la certezza delle posizioni hanno permesso viaggi e scoperte straordinarie con la “semplice” osservazione. Nel corso dei secoli lo studio del cielo notturno (e diurno) è diventata un’attività sempre più raffinata e precisa. L’astronomia e l’astrofisica ci parlano di buchi neri, quasar, pulsar, big bang, stelle di neutroni e molti altri affascinanti fenomeni con impeccabili formalismi matematici. Tuttavia, quanto più il nostro sguardo si spinge nel buio degli anni luce, tanto più ci troviamo sospesi e persi in un vuoto freddo e senza significato. Ironicamente uno dei principali problemi della cosmologia contemporanea è quello della materia oscura. La materia oscura viene definita come l’ipotetica componente di materia che non è direttamente osservabile, in quanto, diversamente dalla materia conosciuta, non emette radiazione elettromagnetica (p.e. la luce visibile delle stelle) e si manifesta unicamente attraverso gli effetti gravitazionali.
Nel 2001 Bruce H. Margon, astronomo all’Università di Washington, dichiarava al New York Times:

“È una situazione alquanto imbarazzante dover ammettere che non riusciamo a trovare il 90% della materia dell’Universo.”

E negli ultimi anni non sono stati fatti significativi passi avanti. Più aumenta la nostra conoscenza più cresce la consapevolezza di quanto c’è ancora da scoprire. Questo può farci sentire un po’ come il replicante Roy Batty del film Blade Runner che al termini del film, sotto un acquazzone recita il suo famoso monologo e sente le sue certezze liquefarsi nella pioggia.
Non è un caso che allo sviluppo dell’astronomia si sia accompagnato quello della fantascienza. Dei, animali e creature fantastiche che popolano la volta celeste sono stati rinchiuse nel museo della superstizione da parte della scienza ma in qualche modo hanno scavato cunicoli, hanno cambiato forma e si sono ripresentati in forma di alieni costantemente impegnati a invadere e la Terra oppure in quella di asteroidi, comete, pianeti in rotta di collisione con il nostro pianeta. E’ come se l’universo fosse diventato un’infinita macchia di Rorschach su cui vengono proiettate le nostre angosce, in un fantascientifico ritorno del rimosso.

CHIMICA vs ALCHIMIA

Una dicotomia del genere si può ritrovare anche nell’opposizione tra chimica e alchimia.
Fino al XVIII secolo l’alchimia in Europa era considerata una scienza razionale. Isaac Newton, che insieme a Galileo Galilei è l’inventore del metodo scientifico sperimentale, ha dedicò molto più tempo allo studio dell’alchimia piuttosto che a quello dell’ottica o della fisica per le quali divenne famoso. Tuttavia Newton mantenne sempre un notevole riserbo intorno ai suoi studi alchemici, e non pubblicò mai opere sull’argomento. Lo scopo principale dell’alchimia era trasformare il piombo in oro, ovvero far diventare positivo ciò che è negativo nell’uomo, per fargli riscoprire la sua vera “natura interna”, il proprio Dio. La trasmutazione dei metalli di base in oro (attraverso la ricerca di sostanze come pietra filosofale o grande elisir o quintessenza o pietra dei filosofi o tintura rossa) simboleggia un tentativo di arrivare alla perfezione e superare gli ultimi confini dell’esistenza. Gli alchimisti credevano che l’intero universo stesse tendendo verso uno stato di perfezione, e l’oro, per la sua intrinseca natura di incorruttibilità, era considerato la sostanza che più si avvicinava alla perfezione. Gli alchimisti pensavano che riuscendo a svelare il segreto dell’immutabilità dell’oro si sarebbe ottenuta la chiave per vincere le malattie ed il decadimento organico; da ciò l’intrecciarsi di tematiche chimiche, spirituali ed astrologiche che furono caratteristiche dell’alchimia medievale.
Attraverso, ad esempio, la vicenda narrata nel romanzo “L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar è possibile cogliere come l’alchimia fu quasi un’appendice metallurgico-medicinale della religione, maturò una ricca esperienza di studi, fu una forma di misticismo e fornì alcune delle fondamentali conoscenze empiriche nel campo della chimica e della medicina moderne.
La ricerca della pietra filosofale o della quintessenza può quindi essere vista come una ricerca di Sé o meglio una ricerca di come trasformare il proprio Sé in qualcosa di prezioso, duttile e malleabile.
Il tramonto dell’alchimia a favore della chimica ci ha però lasciati orfani della connessione tra noi e il mondo fisico. Una cesura di cui si può trovare eco in un romanzo di Primo Levi, intitolato con un riferimento astrale: “La chiave a stella”.

Ciechi con le dita sensibili

Primo Levi era un chimico e un romanziere. Un po’ scienziato e un po’ alchimista si potrebbe dire.
Si salva dal campo di sterminio grazie alle competenze di chimico, alla conoscenza del tedesco e al fatto di ammalarsi al momento giusto. Ma saprà salvarsi dalla shoah emotiva negli anni a venire grazie alle sue doti letterarie, grazie alla capacità di dare forma alle proprie emozioni. La narrazione è la sua pietra filosofale, lo strumento che gli permette di trasformare il piombo dell’esperienza nel campo di concentramento nell’oro di “Se questo è un uomo” o de “I sommersi e salvati”.
Una sorta di Orfeo che, anche nel cuore più nero dell’inferno nazista, riesce a cantare: i demoni si quietano e per un momento sospendono i disumani supplizi che lì vengono amministrati. E proprio come Orfeo, a un passo dalla meta, quando ormai il peggio sembra essere passato, con un gesto intenzionale si volta e getta via ciò che ha di più caro.
“La chiave a stella” è un dialogo tra un operaio specializzato, Libertino Faussone, detto Tino, e un chimico-scrittore (Primo Levi). L’operaio lavora in proprio e viene chiamato in tutte le parti del mondo a montare strutture complesse come torri di trivellazione, ponti, ecc. Grazie a questo lavoro fa esperienze a volte molto faticose e pericolose ma che, al tempo stesso, ne forgiano l’identità e il carattere. Il protagonista, un tecnico, ha bisogno di un narratore, un umanista per dare forma e significato alle proprie esperienze, per poterle “sognare”. Si tratta in qualche modo una coppia terapeutica, dove Faussone porta la concretezza delle proprie vicende e il narratore offre un linguaggio e una mente in grado di accoglierle, elaborarle e aprirle a nuovi significati.
Ed in questo romanzo scopriamo che anche tra i chimici esistono gli analisti…

“E già difficile per il chimico antivedere, all’infuori dell’esperienza, l’interazione fra due molecole semplici; del tutto impossibile predire cosa avverrà all’incontro di due molecole moderatamente complesse. Che predire sull’incontro di due esseri umani?

Il mio mestiere vero, quello che ho studiato a scuola e che mi ha dato da vivere fino ad oggi, è il mestiere del chimico. Non so se lei ha un’idea chiara, ma assomiglia un poco al suo(di Faussone): solo che noi montiamo e smontiamo delle costruzioni molto piccole.
Ci dividiamo in due rami principali, quelli che montano e quelli che smontano, e gli uni e gli altri siamo come dei ciechi con le dita sensibili. Dico come dei ciechi, perché appunto, le cose che noi manipoliamo sono troppo piccole per essere viste, anche coi microscopi più potenti;
Quelli che smontano, cioè i chimici analisti, devono essere capaci di smontare una struttura pezzo per pezzo senza danneggiarla troppo; di allineare i pezzi smontati sul bancone, sempre senza vederli, di riconoscerli uno per uno, e poi di dire in che ordine erano attaccati insieme. “

La sindrome di Moby Dick

Ciechi con le dita sensibili. Una bella definizione anche per un analista della psiche e che rende efficacemente come sia necessaria scienza e immaginazione, metodo e creatività. Coppie di opposti che, anche due mostri sacri come Freud e Jung, hanno fatto fatica a tenere insieme. Si potrebbe dire che in qualche modo soffrissero di una sorta di “Sindrome di Moby Dick”. Il capolavoro di Melville è uno sconcertante alternarsi di capitoli narrativi dal linguaggio epico e di capitoli tecnici e “ingegneristici” sull’industria della caccia alle balene. La vera protagonista dello scritto è l’ossessione che Achab, il capitano della nave baleniera Pequod ha nei confronti del capodoglio bianco Moby Dick:
“Achab nutriva una selvaggia brama di vendetta nei confronti della Balena, tanto più feroce tenuto conto che nella sua delirante morbosità egli era infine giunto a immedesimare in essa non soltanto tutte le sue sofferenze fisiche ma tutto il suo inasprimento intellettuale e spirituale. La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutti quei malevoli agenti da cui certi uomini profondi si sentono mangiare dentro, finché sono ridotti a vivere con metà cuore e mezzo polmone…Tutto ciò che più esaspera e tortura, tutto ciò che rimescola la feccia delle cose, tutta la verità che in sé cattiveria, tutto ciò che schianta i tendini e cuoce il cervello, tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, tutto e ogni male, per il folle Achab era visibilmente personificato e reso concretamente aggredibile in Moby Dick. Egli accatastava sulla bianca gobba della balena la somma di tutto il furore e tutto l’odio provati dalla totalità della sua razza da Adamo in poi; e quindi come se il suo petto fosse stato un mortaio, le sparava addosso il proiettile rovente del suo cuore.”
“Nella forma il nido di corvo (un posto di vedetta in cima all’albero più alto della nave) ricorda una grossa pipa ed è aperto in alto dov’è provvisto di una schermatura laterale mobile da tenersi sopravvento in caso di burrasca forte. Essendo fissato alla sommità dell’albero vi si accede dal fondo attraverso una piccola botola. Sul lato poppiero c’è un confortevole sedile con sotto un stipetto per ombrelli, scarponi e giubbe. Di fronte c’è una rastrelliera di cuoio per tenere portavoce, pipa, cannocchiali ed altre utili cose. “
Il romanzo si muove come una balena, alternando lunghi periodi di immersione alla ricerca di cibo nelle profondità, a improvvise emersioni in superficie per sfiatare e prendere aria. Sembra che Shakespeare e Cartesio si passino costantemente la penna raccontando la stessa storia da due punti di vista diversi, con la stessa contrapposizione tra concreto e simbolico della coppia Levi-Faussone.
Una tensione costante presente in tutta la storia della psicoterapie: uno dei numerosi punti di scontro tra Freud e Jung era per l’appunto lo statuto della psicanalisi: arte o scienza? Freud immaginava la sua creatura come una branca della medicina, alla pari della cardiologia o della neurologia, mentre Jung metteva l’accento sulle dimensioni simboliche e umanistiche. Nell’opera di entrambi gli autori si trovano costantemente passi che sembrano uscire da un romanzo di avventura, l’avventura dell’esplorazione del proprio inconscio e di quello dei pazienti, alternate a lunghe e pesanti trattazioni tecnico-teoriche su cui si sono accapigliati (e si accapigliano) i discepoli e/o detrattori. Altrettanto intenso è stato il dibattito in seno alle società psicanalitiche rispetto alla necessità o meno che un analista sia medico.

LE COMPETENZE TERAPEUTICHE: TRA METODO E CURA DI SE’

Ma cose c’è nello spazio tra astronomia e astrologia, chimica e alchimia, arte e scienza? E quali sono le capacità necessarie a muoversi tra questi poli?
Lo sfondo su cui appare il terapeuta è il momento del fallimento del desiderio, della sua frustrazione, della sua impossibilità a viverlo, pensarlo o di un suo dilagare incontenibile e incomprensibile. Si tratta di uno spazio oscuro che richiede capacità di navigazione notturne.
Nella cuore di tenebra del desiderio si può tentare di essere ciechi con le dita sensibili.
Una delle etimologie del verbo desiderare è legata al momento in cui gli aruspici, gli indovini degli antichi romani, non potevano trarre auspici dalla stelle perché il cielo era coperto. A quel punto si poteva solo de-siderare: distogliersi dagli astri e rinunciare a cercare di interpretare i segni del destino.
Il generale sospeso tra l’attaccare o meno, gli innamorati incerti sui sentimenti dell’amata o dell’amato, il contadino in attesa del tempo opportuno per la semina o il raccolto rimanevano soli con il proprio desiderio, con le proprie incertezze e le proprie ansie.
Quando l’incontro con l’Altro fallisce il desiderio è alle stelle. Quando l’oggetto dei nostri desideri è coperto, quando si fa oscuro e inaccessibile siamo gettati in una notte oscura e senza senso. Non è più possibile conoscere il mondo esterno e il futuro ma si apre un’altra possibilità: quella della conoscenza profonda di Sé. E’ possibile vedere il nostro modo di vedere, le immagini interiori che usiamo per dare forma e contenuto ai nostri desideri. E’ possibile considerare la materia oscura della nostra vita (sintomi, sogni, coazioni a ripetere, “coincidenze”, malattie organiche inspiegabili, ecc.) come strumento di navigazione. L’etimologia di considerare è “divinare”, significa letteralmente “stare con gli astri”.
Durante il giorno siamo impegnati ad agire, a realizzare compiti e obiettivi e abbiamo la sensazione che il mondo sia ciò che appare ai nostri occhi, che “sia tutto la fuori”. Siamo convinti che le persone che amiamo e odiamo, il luoghi che percorriamo, il nostro lavoro siano realtà unicamente esterne e trascuriamo la metà di tutto questo che nasce dalla nostra soggettività. La metà che ha che fare con il significato che le persone, gli oggetti e i luoghi hanno per noi, la metà che è il modo in cui le viviamo, sentiamo e manipoliamo.
Nel Libro Rosso Jung afferma che dentro di noi c’è metà dell’universo, la metà che da un nome e una forma alle stelle, a volti, persone, situazioni che magari non sono più da tempo ma che, nonostante tutto, continuano a influenzare le nostre vite. Le nostre emozioni e relazioni sono fatte per lo più di materia oscura, non visibile ma di cui percepiamo in maniera irresistibile la forza gravitazionale, le attrazioni e le repulsioni.
Freud diceva che la personalità è come un cristallo, quando va in frantumi lo fa secondo linee di rottura ben precise. Considerare (divinare) le linee di rottura della personalità e i relativi sintomi a causa di un trauma, di una crisi esistenziale, di una malattia organica o altro è lo specifico di una terapia psicodinamica.
Questo credo richieda ad un terapeuta almeno due tipi di competenza:
Competenza di metodo
Competenza nella cura di sè

Metodo e anarchia

Astrologo, astronomo, alchimista, chimico: sono prima di tutto modi diversi di vedere il mondo e “mestieri” che usano metodi diversi per descriverlo. In campo filosofico si dice che hanno epistemologie diverse. L’epistemologia è la branca della filosofia che si occupa di stabilire quando una forma di conoscenza è scientifica e di quali sono i metodi per raggiungere tale conoscenza. Evidentemente un chimico e un alchimista hanno criteri di verità differenti e in fondo è così per ognuno di noi, in qualche modo abbiamo delle epistomologie personali che, per lo più in maniera inconscia, sono alla base di ciò che consideriamo vero e falso, giusto e sbagliato, bello e brutto, eccitante e disgustoso. Sia da un punto di visto cognitivo che emotivo.
In questo senso “curare” significa rendere visibile e comprensibile a un paziente la sua epistemologia vitale, non attraverso un procedimento razionale come accade in campo filosofico, ma utilizzando il materiale che emerge nella relazione con il terapeuta: ricordi, associazioni, sogni, transfert e contro-transfert, ecc. La competenza del terapeuta non sta tanto nei contenuti quanto nel metodo, nel saper stare dentro i processi mentali del paziente, costruendo ipotesi ad hoc man mano che si sviluppa la relazione terapeutica.
Il filosofo contemporaneo Fayerabend nella sua opera “Contro il metodo” sostiene che il metodo scientifico è, in realtà, poco metodico e parla perciò di anarchia metodologica. Raramente esperimenti contrari a una teoria determinano, di per sé, l’abbandono della stessa. Troppe carriere, abitudini, istituzioni, interessi commerciali ne sarebbero danneggiati. La storia della scienza non è tanto un progressivo accumulo di conoscenza via via più “vera” ma piuttosto un continuo contrasto e dialettica tra “vecchi” e “nuovi” modi di vedere il mondo, con momenti di passaggio che richiedono l’uso della retorica e delle ipotesi ad hoc come necessità per lo sviluppo della conoscenza. Così come la realizzazione di nuovi strumenti adatti a vedere ciò che si è immaginato.
La costruzione dei telescopi nel 1600 fu possibile grazie allo sviluppo tecnologico ma anche perché una serie di intellettuali a partire da Copernico stava iniziando a immaginare che la Terra girasse attorno al Sole e che le teorie tolemaiche e aristoteliche non fossero più adeguate. A partire da Galileo tutti i grandi scienziati sono stati anche grandi poeti e filosofi che hanno prima “sognato” nuove teorie e poi con grande fatica e contrasti sono riusciti a dimostrarle. Diversi studiosi aristotelici contemporanei di Galileo, come Cremonini o Magini, uomini colti e raffinati, guardarono nel suo cannocchiale ma non “videro” niente di quello che lui “vedeva”. Sostenevano infatti che le immagini delle lune di Giove e degli anelli di Saturno non fossero altro che deformazioni ottiche causate dalle lenti del telescopio, in quanto l’esistenza di questi corpi celesti non era compatibile con la visione tolemaica dell’universo: la teoria (e la pratica dell’Inquisizione) diceva che non potevano esistere e quindi era meglio non vederli…
Si tratta di dinamiche che si presentano anche a livello individuale, in genere più si avanti con l’età più è difficile mettere in discussione i propri punti di vista e comportamenti, anche di fronte all’evidenza della loro disfunzionalità. Al punto che solo momenti di passaggio importanti (lutti, separazioni, nascite, perdita del lavoro, malattie) aprono spazi per una “riflessione epistemologica” sulle radici del proprio Sé. In questi frangenti si può aprire uno spazio per ipotesi ad hoc e costruzione di nuovi strumenti di conoscenza di Sé, ma occorre “sognare” una nuova visione. Ed è esattamente questo uno degli sviluppi più interessanti della psicanalisi contemporanea. Lo statunitense Thomas Ogden sostiene che sognare è una modalità di funzionamento di base della mente, una serie di processi psichici attivi sia di giorno sia di notte che alimentano la salute psichica. Al contrario, non riuscire a sognare significa ammalarsi e quindi il processo di guarigione è un “sognare sogni non ancora sognati”. Non a caso una delle sue opere più recenti si intitola, con buona pace di Freud, “L’arte della psicanalisi.”

Il centauro Chirone: La competenza della cura di sè

Questo lavoro di analisi e ricostruzione dei fondamenti epistemologici del Sé sarebbe un inutile esercizio intellettuale (coma a volte può essere un percorso analitico) se non fosse accompagnata dalla competenza nella cura di Sé del terapeuta. Si tratta di una questione ben rappresentata dal mito del centauro Chirone.
A differenza degli altri centauri, ignoranti e violenti, Chirone è saggio e conosce molte arti e scienze, soprattutto quelle mediche. Maestro di Asclepio, il dio della medicina, ha per allievi numerosi eroi: Aiace, Achille, Aristeo, Atteone, Ceneo, Enea, Fenice, Giasone, Oileo, Palamede, Telamone, Teseo. Un giorno Eracle entra in conflitto con i Centauri e ne uccide alcuni. I superstiti si rifugiano nella grotta di Chirone, suo maestro, mentre continua a infuriare la battaglia. Una freccia avvelenata, scagliata proprio da Eracle, colpisce al ginocchio Chirone. La ferita non può guarire, nonostante tutte le sue conoscenze e arti, ma d’altro canto Chirone è nato immortale e anche la fine delle sofferenze con la morte non è possibile. Il dolore e l’impossibilità di liberarsene con la cura o la morte lo portano alla disperazione, tanto da chiedere a Zeus di scambiare la sua immortalità con Prometeo, diventato mortale per i suoi contrasti con Zeus. Il padre degli Dei, al quale il centauro è particolarmente caro, lo vuole comunque vicino a sé nel cielo, e lo trasforma nella costellazione del Centauro.
Chirone è un guaritore malato. Dopo una vita spesa a curare ed istruire gli altri viene colpito duramente, viene tradito proprio là dove più ha dato e più ha speso. Uno dei suoi discepoli, uno dei più famosi e di successo, lo ferisce (per sbaglio?) in un modo tremendo. Il guaritore, anzi, il maestro di tutti i guaritori è malato, di una malattia incurabile da cui non si può uscire né con la scienza né con la morte. E’ una condizione di sospensione, di blocco: Chirone è fisiologicamente vivo ma il dolore gli rende la vita impossibile. Una situazione che ricorda molto zombie e vampiri, figure mitiche cui è preclusa sia la vita che la morte, e che, come gli alieni di molti film e romanzi di fantascienza, depredano in maniera avida e distruttiva la vita di quanti entrano in contatto con loro.
Una lettura possibile del mito di Chirone è l’esigenza, per il terapeuta, di una cura continua, quotidiana, delle proprie ferite, dei piccoli e grandi tradimenti perpetrati da (e verso) i propri pazienti, allievi, affetti. Una cura che non passa tuttavia attraverso l’utilizzo di conoscenze e tecniche ma prima di tutto richiede la rinuncia all’illusione dell’immortalità e dell’onniscienza. E’ necessario saper chiedere aiuto e saper scambiare, scendere dalla cattedra e mettersi a propria volta nella posizione del paziente, dell’allievo, del mortale attraverso l’analisi personale, la supervisione, il confronto con i colleghi e la formazione continua.
La cura di Sé passa poi non poco attraverso la cura di tutto ciò che non è professione, pazienti, sedute, ecc, vale a dire attraverso il rispetto e l’affetto per il proprio corpo, il proprio tempo libero, le amicizie e l’amore. Come qualsiasi altra attività imprenditoriale diventare e restare terapeuti richiede un notevole investimento di energie, tempo e denaro e l’equilibrio tra vita professionale e vita privata non è mai scontato. Chirone è metà essere umano e metà cavallo: identificarsi troppo con la propria professione è un po’ come se un Centuaro credesse di essere solo la propria parte superiore e si dimenticasse che sta in piedi e può correre grazie alle sue gambe equine.

Come una pashimina: un tessuto di seta e lana

L’integrazione della competenza (anarchica) di metodo e quella della cura di Sé (e del Sé) può essere rappresentata come una pashmina.
Nella zona del Kashmir, tra India e Pakistan, la parola pashmina identificava lo scialle dei maharaja ottenuto usando solo il sottovello della parte del collo delle capre changthangi. La pashmina è un tessuto molto leggero ma morbidissimo al tatto e molto caldo, utilizzato produzione di sciarpe, stole e scialli. Il filato di pashmina può essere tessuto solo con telai a mano a causa della sua sottigliezza: il diametro dei fili (15 micron) è in media 4 volte più sottile di un capello. Per la trama viene anche usata la seta, che aumenta la resistenza alla deformazione e crea le caratteristiche frange o nappe, costituite dai fili della trama intrecciati.
La sete è lucente e leggera ma fredda. La lana è calda ma può essere pesante e soffocante. Allo stesso modo l’astronomia, la scientificità sono chiare ma fredde. L’astrologia, l’approccio umanistico, è caldo ma isolante.
La sindrome di Moby Dick che affligge la psicoterapia può forse essere superata provando a sognarla come un lavoro per tessitori ciechi ma con le dita sensibili. Un mestiere per persone in grado di annodare, tra la propria anima e quella dei pazienti, fili caldi e leggeri, morbidi e resistenti.