di Nicoletta Massone
Sono molto contenta e onorata di introdurre l’intervento del professor Carlo Sini, da noi tutti conosciuto per l’impegno che da sempre lo contraddistingue in ambito filosofico. Per molto tempo, è stato ordinario di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano, e anche, ugualmente per molto tempo, docente presso la nostra scuola di specializzazione in Psicoterapia circa l’insegnamento di epistemologia. Attualmente, tale insegnamento è ricoperto dalla dottoressa Florinda Cambria.
Le sue lezioni ogni volta sono state per noi stimolo prezioso e sprone in merito all’approfondimento delle nostre conoscenze, confrontate e arricchite dal più ampio contesto filosofico.
Proprio per questo, per la mia introduzione, ho deciso di utilizzare alcuni pensieri del professor Sini a cui farò riferimento senza un un ordine che rispecchi la costruzione della sua opera e senza pretendere, ovviamente, di esaurirne il significato, ma impiegandoli per quello che per me sono stati: stimoli per la riflessione e occasione di scoperta di consonanze tra quella che è la sua posizione filosofica e la prospettiva che appartiene a me e al mio gruppo di lavoro, riguardante il piano dell’intervento terapeutico e del pensiero psicoanalitico.
Parlando di ciò in cui consiste la filosofia, dice Sini: «Chi fa filosofia, va personalmente alla ricerca della verità, una ricerca che non si acquieta mai, non trova mai una soluzione definitiva, ma, per sua natura, apre sempre nuove domande. […] E la questione vera non è liberarsi di queste domande, ma essere capaci di sostarvi con gli occhi spalancati e attenti. Senza essere spaventati dal riconoscere che frequentiamo la verità senza conoscerne davvero la natura.»
Questa è la descrizione precisa ed appassionata di quello che dovrebbe essere il nostro atteggiamento, la nostra disposizione profonda, quando siamo con il paziente. È la precondizione essenziale del nostro lavoro, quella che Wilfred Bion, psicoanalista per noi importante punto di riferimento, chiama “capacità negativa”. Rimanda ad un saper sopportare l’assenza, la mancanza di un significato che non è ancora presente. Tollerare, quindi, il peso del caotico della, destrutturazione. Tutto ciò non è semplice perché viene sentito e decodificato come segno della nostra imperfezione, imperdonabile mancanza di adeguatezza.
Per evitare la sofferenza che ciò comporta, possiamo produrre una verità pur che sia, verità apparenti, caricature di verità che diventano intransigenti, rigide, inflessibili, per la paura di venire scoperte nella loro inconsistenza. Il pensiero non c’è più, al suo posto ci sono gli oggetti che abbiamo creato nel laboratorio onnipotente del nostro desiderio di controllo. Al posto del sentire, dell’ascoltare, del pensare ci sono – dice ancora Bion – «non-oggetti, violentemente avidi di ogni altro oggetto e delle sue caratteristiche solo per il fatto che questo altro oggetto esiste per davvero.»
Avidi, potremmo dire, della vita che non possiedono.
Riuscire, invece, a stare nella domanda – ci dice Sini, domanda che il nostro ascoltare inevitabilmente suscita, con gli occhi spalancati ed attenti come quelli di un bambino che guarda, senza pregiudizi, il cielo stellato. E questo, particolarmente con il paziente, per coglierne, quando sarà possibile, la parola, evitando di restituirgli un’immagine deformata di se stesso.
«Le par possibile che si viva davanti ad uno specchio che, per di più, non contento d’agghiacciarci con l’immagine della nostra espressione, ce la ridà con una smorfia irriconoscibile di noi stessi?»
Così si esprime il Figlio dei Sei personaggi in cerca d’autore, indicando uno dei rischi più seri che corriamo nel nostro lavoro: consegnare all’altro, al nostro compagno di viaggio, un’immagine distorta, non corrispondente a ciò che di sé ci ha fatto vedere, abbandonando i suoi significati e la sua storia ad una penosa solitudine.
Per cui, più di tutto, il nostro lavoro sembra consistere nel comprendere l’altro sulla scorta di ciò che il suo passaggio ha suscitato in noi.
È proprio quello che ci dice Sini nello scritto La verità del babbuino:
«Il nostro discorso va alla ricerca di spiegazioni relativamente a incontri d’esperienza che nessuno può crearsi a suo piacere: non ci siamo inventati i babbuini, tutt’al più il loro nome e ci siamo dovuti chiedere che cosa essi fossero ‘in verità’. Da allora camminiamo insieme, secondo un ‘conoscere’ che non equivale all’assimilazione con una realtà esterna delle cose in sé.
Camminando con noi, il babbuino è assegnato alla verità, segnato dalla nostra verità. Non però dalla sua. La sua vita vivente che a suo modo comprende il mondo frequentandolo nei modi sapienti della sua prassi, questa vita vivente resta la nostra origine immaginaria, il nostro sogno immemore, rovescio silenzioso del nostro dire.»
Sono parole, queste, che mi hanno profondamente commossa.
Camminando con noi, l’altro è segnato, è assegnato alla nostra verità, una verità che cerca di dire la traccia che di lui ci è giunta, mentre l’altro in sé resta nel suo mistero, nella sua separatezza da noi. Attingendo alla nostra riserva di vissuti ed emozioni, tentiamo una corrispondenza con ciò che abbiamo sentito. Tentiamo di diventare quell’emozione e quell’esperienza.
«Non siamo noi che affermiamo o neghiamo alcunché di una cosa – dice Spinoza in una citazione del suo Breve trattato, citazione che, ancora una volta, ho rubato a Carlo Sini – ma è la cosa stessa che afferma o nega in noi qualcosa di se stessa.»
Quanto spesso non sembra esserci spazio per questo. Non solo in sede clinica, ma anche nel più ampio campo del contesto sociale troppo frequentemente il pregiudizio sembra la risposta al tentativo comunicativo dei singoli in merito alla loro esperienza.
Ad esempio, un esempio tra i tanti, i preconcetti sugli extracomunitari bene esprimono il tentativo, mai sopito desiderio, di sfuggire una complessità avvertita come troppo compromettente, capace di mettere in discussione l’immagine che di noi abbiamo costruito. Interrogati dalla migrazione di interi popoli, dalla disperazioni di troppi uomini silenziosamente morti accanto a noi, ci rifugiamo in una logica essenziale che conosce solo colpevoli, che approda sempre a certezze incontrovertibili.
Ed è bello, invece, pensare che la verità stia nel camminare insieme, curiosi – noi babbuini – del babbuino che abbiamo accanto.
È sempre di fronte al dolore che il pregiudizio si fa più forte perché, in fondo, non è passaggio scontato riconoscere di non avere nessun potere, se non quello di capire il significato di ciò che siamo, accogliendo le immagini che la nostra mente, di volta in volta, ci dona. Secondo Franco Fornari – presidente negli anni settanta della Società Psicoanalitica Italiana – per vedere queste immagini è necessario che si accenda una luce e quest’opera è la cifra più specifica della nostra anima, per cui dobbiamo immaginare l’anima imparentata con le lucciole. E’ questa produzione endogena di luce, questa piccola intermittenza luminosa, a permetterci di venire segnati dalla verità dell’altro.
Dice ancora Sini, facendo riferimento alla Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Husserl:
«L’evento della verità chiede di essere frequentato nelle pratiche concrete, le pratiche di vita comuni a tutti, imposte dalle esigenze dei progetti della quotidianità, che tutti condividono nel fare. Ogni tempo ha una comune atmosfera del sapere, il complesso di conoscenze che governano le necessità dettate dai propositi di vita. […] In questo modo, la verità diventa un transito e non un ‘giudizio’ o una ‘cosa’, transito di una vita infinita e di un destino di rinascita.»
Le conoscenze legate alle azioni della quotidianità sono l’intelligibilità comune ad ogni uomo. Producono un linguaggio appartenente ad ogni uomo. Sulla base di quel linguaggio che nasce dagli oggetti che ogni giorno sono con noi, scopriamo consonanze e legami di verità.
Il che fa sì che la verità sia sempre diversa, come diversi e mutevoli sono i luoghi dell’incontro, i supporti su cui la verità si inscrive, di cui conserva l’impronta, la qualità della materia, il profumo.
Anche questo aspetto accompagna significativamente il nostro lavoro: la decodifica che possiamo realizzare delle comunicazioni dei nostri pazienti è sempre instabile, è la verità di quel momento emotivo che subito si apre al destino di altre integrazioni, verità sospesa e generata dallo ‘scorrere di una continua metamorfosi di senso’.
E’ questa necessaria catastrofe eraclitea – così la definisce Sini – a far si che la la verità diventi un transito e non un ‘giudizio’ o una ‘cosa’, un quasi oggetto dato una volta per sempre. Nella molteplicità caleidoscopica dello scorrere dei nostri significati, continuamente cerchiamo, per noi e per i nostri pazienti, di porre mano ad una venuta al mondo, ad un destino rinascita più completo e fecondo, più capace di una circolazione affettiva in grado di generare speranza. Evitando il rischio di cristallizzarci nel feticcio di un giudizio-oggetto alla cui ombra illuderci di trovare nascondimento dalle passioni della vita.
I materiali di questa costruzione li troviamo, ne impariamo a conoscere il nome, nel rapporto con gli altri, luogo d’incontro generativo dei significati che siamo. Non bastiamo a noi stessi, ulteriore, inaccettabile fragilità che frantuma le immagini di onnipotenza in cui ci piace rifugiarci.
Anche di questo ancora ci parla Carlo Sini, commentando l’opera di Enzo Paci che è stato suo maestro:
«La percezione è un vincolo vivente, una cooperazione di corpi e di intenzionalità viventi. […] Lo sforzo dell’uomo è quello di fondarsi come soggetto all’interno di una intersoggettività umana che superi ogni oggettivazione ereditaria e ogni forma di alienazione storico sociale, in lotta con l’idolatria e la feticizzazione.»
All’incontro è assegnata la responsabilità di accogliere le nostre esperienze, di dar loro dimora, evitando di cadere dentro un noi stessi inautentico, dentro brandelli o idoli – come dice Sini – di identità posticce che non conoscono più il nostro nome, identità troppo fragili per reggere l’urto del desiderio.
Le immagini di Fernando Pessoa sanno descrivere mirabilmente questo desolato punto di approdo, dolente luogo dell’essere:
«La mia anima è un maelstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voce, in un turbine sinistro e senza fondo. E io, proprio io, sono il nulla intorno a cui questo movimento gira. Poter saper pensare! Poter saper sentire! Mia madre è morta molto presto e io non l’ho conosciuta.»
Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine.
Il bambino ha consolazione se il suo pianto risuona nella madre, se crea, dentro di lei, una forma che a quel pianto assomiglia.
Il bambino trova sollievo se la madre, in questo modo, piange con lui, diventando il suo sconcerto. È, quel momento, qualcosa che si può dire, qualcosa che l’altro accetta come possibile e partecipata declinazione di esistenza.
Se questa condivisione non può avere luogo, il suo posto è preso dall’abbandono, dal cadere del desiderio di comunicare, dal senso di strumentalizzazione, dall’impossibilità di trasformare quello che si è in vita vivente. Insomma, dal dolore.
Molto meglio di me dice di questa mancanza la poetessa Nelly Sachs in una sua splendida poesia che presenta, in modo straordinario, il dramma di una comunicazione che viene perduta.
Noi nascituri
già comincia l’anelito a plasmarci,
le rive del sangue si allargano ad accoglierci,
come rugiada caliamo nell’amore.
Le ombre del tempo posano ancora
come domande sul nostro segreto.
Voi che amate,
voi che anelate,
udite, voi, malati di commiato:
siamo noi che cominciamo a vivere nei vostri sguardi,
nelle vostre mani che vanno in cerca nella luce azzurra –
siamo noi, che odoriamo di domani.
Già ci aspira il vostro fiato,
ci trae giù nel vostro sonno
nei sogni, che sono il nostro regno
dove la buia nutrice, la notte,
ci fa crescere,
sino a che ci specchiamo nei vostri occhi,
sino a che parliamo alle vostre orecchie.
Come farfalle
saremo catturati dagli sgherri del vostro desiderio –
venduti alla terra come voci di uccelli –
noi che odoriamo di domani,
noi luci venture per la vostra tristezza.
Da Nelle dimore della morte Nelly Sachs
Ci dice Sini:
«Sempre di nuovo raccontiamo la vita dell’altro parlando, in realtà, soprattutto della nostra perché ‘conoscere’ e ‘comprendere’ è la nostra ‘politica di vita’, il nostro cammino di sopravvivenza. […] E questo comprenderci nel sapere e nel conoscere non ci assegna a una chiusura epistemologica, ma piuttosto ad un compito etico, qualcosa che non è affatto da sapere, ma da fare, da porre in opera nel transito stesso del soggetto, entro le sue pratiche di vita e in vista dei suoi peculiari oggetti sociali.»