Stefania Magnoni, “Un porto dove andare, un porto dove tornare”. Il viaggio errante di paziente e terapeuta

Ho conosciuto Giorgio Blandino per motivi di lavoro: lo abbiamo scelto come docente nella nostra scuola perché ne abbiamo apprezzato l’onestà intellettuale e il profondo amore per la cultura intesa come contenitore strutturante l’esperienza e come lascito positivo tra generazioni, abbiamo poi scoperto un lucido umorismo e una creatività sempre effervescente, piena di iniziative e di desiderio di trasmettere il bello, il profondo …. Ci rincresce molto che i suoi progetti abbiano trovato anzitempo – difficile forse dire che ci sia un tempo giusto per morire- il brusco arresto della morte.
Proprio perché, come dice Pavese: ‘l’uomo mortale non ha che questo di immortale. Il ricordo che lascia, il ricordo che porta’, oggi vogliamo trattare temi che pensiamo sarebbero stati ‘cari’ a GB e fare memoria, un modo per essergli grati di quanto nella sua umanità variegata e complessa ci ha lasciato.

Il tema del viaggio, della navigazione è una metafora molto utilizzata per tratteggiare il bisogno dell’uomo di un movimento, prima di tutto interno, ma che si esprime anche in un corrispondente comportamento esterno, che dia senso e spessore alla sua esistenza. Così anche l’esperienza dell’analisi spesso viene descritta come un viaggio in cui i viaggiatori sono coinvolti e corrono tutti i rischi connessi con il muoversi in acque nuove . Viaggiatori che sono senz’altro più di due, se pensiamo a quanti livelli di funzionamento, a quante fantasmatizzazioni interne ciascuno dei due attori della scena analitica ha dentro di sé.
Se l’esperienza dell’analisi ha fra i suoi scopi quello di riaprire i giochi e animare una curiosità esplorativa, penso che George Gray- uno dei preziosi ‘cammei’ di Spoon Rivers- testimoni e dipinga invece quegli aspetti di ciascuno di noi che non accettano il rischio delle passioni e del limite, rinunciando così ad esprimersi, congelandosi, morendo in vario modo, costituendo una zavorra contro la libertà, l’affettività, la creatività.

George Gray
Ho osservato tante volte
il marmo che mi hanno scolpito –
una nave alla fonda con la vela ammainata.
In realtà non rappresenta il mio approdo
ma la mia vita.
Perché l’amore mi fu offerto ma fuggii le sue
lusinghe;
il dolore bussò alla mia porta ma ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma paventai i rischi.
Eppure bramavo sempre di dare un senso alla vita.
Ora so che bisogna alzare le vele
e farsi portare dai venti della sorte
dovunque spingano la nave.
Dare un senso alla vita può sfociare in follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vago desiderio:
è una nave che desidera il mare ardentemente ma ha
paura
E.L. Masters, Antologia di Spoon River

Se parliamo di crescere, trovare la propria strada e percorrerla consapevoli delle proprie dotazioni e delle proprie fragilità, trarre piacere da ciò che si fa, sentirsi a proprio agio e avere una buona capacità di far fronte alle difficoltà del cammino, dovremmo essere in presenza di qualcosa che è connaturato all’uomo, che sembrerebbe un ‘normale’ dispiegarsi della sua vicenda esistenziale e invece, molto spesso, il ‘normale’ rimane qualcosa di affidato al ‘migliore dei mondi possibili’ mentre il nostro mondo è o è stato costellato di trappole e ostacoli che hanno impedito questa ‘normalità’. Allora ecco che abbiamo possibilità di ripercorrere trame non ancora tessute del tutto, sciogliere qualche nodo, rischiare nuove tessiture che si organizzino a partire dal già dato ma che non si sentano costrette a ‘copiare’: è l’esperienza dell’analisi, di un percorso a quattro mani, impegnate in un primo momento a creare uno spazio di accoglienza, lo ‘spazio ospitante’ di cui parla Bolognini.
Sto qui parlando di un viaggio/navigazione che non ha nulla a che fare con il ‘turismo’: ‘ il viaggiatore vede quello che vede, il turista vede quello che è venuto a vedere’ (Chesterton) . Sto pensando ad un’esperienza di scoperta, di ricostruzione, di cambiamento che è stata descritta come ‘capacità di giocare’ come ‘fare emergere un Sé in divenire’, come ‘metodo che dà responsabilità e- se ci riesce- anche forza per sopportarne il peso’, come ‘capacità di pensare quel che si pensa e sentire quel che si sente’ tanto per pescare alcune delle sintesi che mi hanno nel tempo aiutato a intravedere una possibilità di comunicare qualcosa di un’esperienza che non è facile raccontare.
‘Un porto dove andare, un porto dove tornare’… introduce un tema a me caro che è quello del setting e della funzione contenitiva della mente. Nessuna esplorazione è possibile se ci sentiamo naufraghi in un mare sconfinato: sperimenteremo solo panico annichilente, e forse la speranza, alternata alla disperazione che qualcuno intercetti la nostra rotta perduta e ci indichi, nell’incontro, un ancoraggio. Solo così può ripartire la capacità di muoversi. Vorrei quindi un po’ soffermarmi sull’importanza della fase costitutiva del contenitore – il porto. È in un certo senso una fase più primitiva rispetto alla funzione trasformativa, ma penso che ciascuno dei due aspetti abbia bisogno dell’altro perché la navigazione possa continuare. La funzione contenitiva della mente possiamo vederla come la ‘capacità di sopravvivere agli attacchi’ e come possibilità di costituire uno spazio interno. L’immagine del porto ci aiuta a vedere intrecciate queste due funzioni: un buon porto riesce a reggere alle turbolenze del mare, le ha messe in conto e ha attivato protezioni adeguate a non soccombere, così la mente del terapeuta ha affinato capacità di ‘reggere’ le turbolenze, gli attacchi, le proteste senza lasciar andare, senza ‘mollare la presa’ e pian piano- a volte occorre davvero molto tempo- il paziente, la sua mente, potranno sentirsi meno distruttivi e più capaci di ‘tenere dentro’ qualcosa che non sia soltanto negativo.
Creare uno spazio ospitante significa anche, con alcuni pazienti, essere capaci di attendere che la loro mente sia in grado di ‘accogliere’, abbia avuto il tempo di liberarsi da una sorta di ‘costipazione emotiva’ di scorie e pressioni persecutorie interne che non permettono uno scambio nutritizio. Bisogna saper aspettare che si faccia posto, che gli elementi negativi abbiano un loro tempo per essere espressi e allentati. Costruire uno spazio interno non significa forzare attivamente con interpretazioni e associazioni la mente del paziente, diventerebbe un’intrusione persecutoria simile a quella di una mamma che invece di ‘proporre’ il capezzolo aspettando che il piccolo lo cerchi attivamente, intrude il seno nella bocca di un neonato intento ad altro e non disponibile. Se la mente esprime bisogni evacuativi, prima di dare un senso tollerabile, condiviso e rappresentabile agli elementi dell’esperienza ha necessità di trovare un ‘contenitore concavo’- così secondo il modello bioniano, capace di resistere senza andare in pezzi e disponibile ad elaborare il materiale evacuato . Laddove momentaneamente la mente del terapeuta non riesca in questa funzione, l’avere un gruppo di riferimento con cui continuare il confronto può consentire a questo gruppo di funzionare come ‘contenitore sovrapersonale’

Accogliere, riconoscere, non opporsi alle tensioni negative, fa parte del processo di cura prima di una possibilità interpretativa. Bisogna essere capaci di attesa e di fiducia, e così anche la mente del paziente farà sua una funzione di contenimento e potrà percepire uno spazio interno in cui sperimentare capacità di scambio e di mutuo accoglimento.

Vorrei far mia una provocazione di Ferro: ‘ non sono poche le analisi che sono viaggi organizzati, si sa troveremo le angosce per il fine settimana, l’Edipo, magari l’invidia e gli attacchi al setting o alla mente dell’analista, e secondo la linea teorica dell’analista, dal logo dell’agenzia di viaggio, potremmo conoscere già le tappe dell’inclusive tour.’
Provocazione che diventa richiamo ad una responsabilità quando il compito è quello della formazione. Certamente ci vuole passione e coraggio sia da parte dei capitani sia da parte dei cadetti a non navigare nelle acque rassicuranti delle procedure, di un certo conformismo teso alla ripetizione del già noto che spegne ogni creatività, ma produce menti ubbidienti e rassicurate da certezze assiomatiche che le faranno sembrare, a prima vista, molto competenti e sicure di sé …. Niente di tutto questo è un buon bagaglio per un vero viaggio di esplorazione: bisogna osare la creatività e non aver paura di essere ‘sanzionati’. Credo però che osare la propria creatività richieda un buon punto di ancoraggio, il porto da cui partire, quello in cui ci riconosciamo, ci sentiamo a casa e possiamo riposare, recuperare, rischiare. Un luogo della nostra mente che contenga e si strutturi attorno all’esperienza viva del diventare. Esperienza che richiede, come ci spiega M. Quinodoz quando ci parla di portanza, tanto un saldo radicamento quanto una capacità di movimento relativamente libera dal bisogno di continue conferme. Un senso di ‘continuità di esistenza’ che ci svincola dal penoso oscillare tra esaltazione e annientamento: è questa l’uscita dall’onnipotenza che consente una visione di ‘ragionevole potenza esistenziale’. Abbiamo cioè bisogno di dedicare tempo alla costruzione di un nostro porto sicuro, questo costituirà un punto sulla mappa. Il viaggio è da inventare di volta in volta, ma potremo inventarlo nella misura in cui ‘sappiamo’ che dopo tutta la nostra esplorazione torneremo al punto di partenza anche se lo vedremo con occhi diversi e quindi ‘non sarà più lo stesso’.
Stabilità e movimento quindi sono i due ingredienti del viaggio, sono le ‘ricette’ da scoprire , sono gli elementi di base da offrire a noi naviganti perché il cammino sia fruttuoso.
Money-Kyrle dice che alla base della nostra sofferenza mentale troviamo fraintendimenti e deliri inconsci, cioè non riusciamo a ri-conoscere ciò che da sempre sappiamo, lottiamo contro ciò che non vogliamo sapere. Ma se sperimentiamo una relazione di congruenza tra ciò che ci aspettiamo e ciò che troviamo abbiamo un’esperienza di verità. E in fondo il fraintendimento è mancanza di verità, è essere rimasti intrappolati in rapporti che dichiaravano di offrirci la centralità di cui tutti i bambini hanno bisogno, senza in realtà farcela sperimentare, millantando per esempio un possesso narcisistico del figlio, per una vera accoglienza… ecco, l’esperienza analitica deve essere una navigazione sincera, senza false promesse e lusinghe, dove davvero possiamo essere toccati, commossi, inquietati, incuriositi dalla mente dell’altro, dove siamo disposti a farci portare ‘oltre’. È per certi versi molto ‘rassicurante’ aspettare un paziente avendo già in mente la mappa del percorso: ‘oggi mi porterà questo, quello, quell’altro…’ siamo nel tour all inclusive di Ferro! Siamo spenti e ben presto ci annoiamo, forse siamo troppo spaventati da movimenti nuovi per poterli consentire e così usiamo il porto in maniera difensiva: la giornata è buona ma accampiamo scuse e non salpiamo.
A proposito di coraggio – questa è una qualità richiesta – non la spavalderia o l’incoscienza, ma il coraggio che deriva dalla possibilità di cimentarsi con la paura e affrontarla, riconoscerla, prenderne le misure: mi sono imbattuta recentemente in un gustoso libricino ‘la cantina di Isabella’ di Carla Muschio che in modo garbato e divertente racconta le avventure ‘coraggiose’ di una bimba di 8 anni che scopre nella cantina di casa una ‘sua personale porta’ che di volta in volta la conduce in luoghi diversi, fra draghi, spiagge, animali … e ogni volta Isabella non si tira indietro, affronta il rischio spinta da curiosità e bisogno di conoscere, di farsi una sua idea del mondo. È una bella metafora del viaggio di analista e paziente, quando il viaggio avviene. Ma il racconto ci dà anche la chiave che rende possibile l’avventura: una coppia genitoriale solida, partecipe ma non oppressiva, che conosce l’esistenza ‘delle porte’ e così permette alla figlia di sperimentare senza sentirsi sola e incompresa. Come Isabella, anche la coppia analitica al lavoro non dovrebbe accontentarsi della cantina, ma andare al di là del muro, nel non ancora noto, nel regno del possibile, del raffigurabile per immagini alla ricerca del registro simbolico.
Impariamo da Isabella che se la prima volta che incontra il drago ‘brustofotago’, questo sembra davvero molto molto minaccioso, al successivo incontro ha le sembianze di un piccolo draghetto di peluche.
Ogni paura non evitata entra nel mondo della possibilità elaborativa: insomma ‘non dobbiamo avere paura e vergogna della nostra paura’. Anche questo è un elemento importante in una navigazione in mare aperto: tutti abbiamo conosciuto la paura, ma la martellante pedagogia del ‘non è niente, non fare così, non piangere’ rende difficile negli anni successivi accettarla in noi. Temiamo sia indice di debolezza e comporti scherno da parte degli altri. Tendiamo quindi a chiamare in soccorso tutti gli apparati difensivi che abbiamo a disposizione ma se, per sbarazzarcene, la proiettiamo totalmente nella mente dell’altro, l’altro – lo psicoanalista- avrà un compito parecchio faticoso, perché, per poter davvero mettere mano alla paura, e non limitarsi a ‘informarne l’Io del paziente’ – cosa che ovviamente serve solo a rinforzare il circuito difensivo- , dovrà favorire una re- introiezione di quanto è stato proiettato: è meglio quindi che venga conservato, almeno in parte, il sentimento della propria paura: il coraggioso non è l’incosciente!
Bisogna tutti e due, avere paura, almeno un po’, se no rischiamo di parlare intorno alle cose, ‘parlare di parole’ secondo una bella espressione di Bolognini, e non diamo spessore e senso trasformativo al nostro lavorare insieme.
Nel procedere in navigazione, prima di preoccuparci di attivare ‘il processo trasformativo, dobbiamo operare in modo che la mente del paziente possa introiettare una funzione ‘digestivo- metabolica’- in fondo è una funzione che assomiglia un po’ al nostro porto: organizza, ordina e –nominando- accoglie, smista, protegge-.
‘ attivare i contenuti prima di aver pensato allo sviluppo degli apparati per pensarli e trasformarli, potrebbe diventare una psicoanalisi che porta a patologie iatrogene: come un acceleratore di particelle che poi non fosse più in grado di contenere i processi che attiva’ (Ferro pag 14).
La psicoanalisi non è ‘un opera buona’,(di Chiara) ‘propone una dieta sgradevole fatta di iniezioni di verità’ (Money-Kyrle), ha a che fare con ciò che la mente non è ancora riuscita a rendere pensabile e ha questo delicato compito di scomporre l’impensabile e il non ancora pensato in tante ‘narrazioni’ che pian piano ottengano l’accesso alla pensabilità e alla trasformazione: il terribile drago di Isabella può diventare un buon compagno di giochi!
Le teorie psicoanalitiche apprese dai libri, dai colleghi , dai docenti, prendono vita solo quando il fenomeno che descrivono diventa incontro nella pratica clinica, dobbiamo andare per mare!

Lentamente muore chi non viaggia
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso
Pablo Neruda