La scuola di psicoterapia comparata di Genova
di Laura Grignola
Per delineare il nostro percorso formativo prenderei l’avvio dal nome della nostra scuola, Scuola di Psicoterapia Comparata. Comparare significa confrontare una cosa con un’altra, studiare vari soggetti nelle loro attinenze reciproche.
Dal mio punto di vista nel termine “comparazione” c’è un ché di democratico.
Là dove altre scuole affermano con determinazione il proprio modo di procedere, lo stile, il metodo, la nostra scuola afferma innanzitutto un bisogno metodologico di studiare le attinenze tra le varie impostazioni.
Per noi però la comparazione non è sinonimo di eclettismo, tutt’altro.
E non significa nemmeno un bisogno compulsivo e filologico di confronto sistematico.
Comparazione -concetto paradossale, imprescindibile e impossibile insieme- per noi significa apertura a tutti quegli apporti di altri vertici prospettici dai quali considerare e sviluppare teorie sulla mente e sull’apparato per pensare, sia in senso fisiologico e funzionale, sia in senso psicopatologico.
Significa quindi dare tridimensionalità al discorso sulla mente ma non certo confondere il discorso sulla mente con il discorso sul cervello.
Integriamo lo studio della mente partendo da un modello forte che è quello psicoanalitico. Dal modello psicoanalitico deriviamo quindi alcune indicazioni che riteniamo fondanti per l’attività psicoterapeutica. Fondanti e imprescindibili. Ciò non toglie che la psicoanalisi poggi su una teorizzazione debole che cerca di avvicinarsi alla realtà noumenica senza la pretesa di essere esaustiva e ontologicamente definitoria.
Diciamo che, nel nostro intendimento, il termine comparazione possiamo considerarlo innanzitutto un invito non a non utilizzare dei modelli conoscitivi, perché non sarebbe possibile, ma a utilizzare questi modelli come degli strumenti duttili e utili per esprimere ad esempio un’intuizione. Intuizione che ci permette ad esempio la comprensione e la vicinanza nei confronti di un paziente in un determinato momento del processo analitico. Che ci permette di pensare, di ripensare, di trasmettere quella determinata intuizione, per poterla ritrovare, ripetere, utilizzare un’altra volta o in altri mondi terapeutici. Proprio come un poeta che ci ghermisce all’improvviso e ci avvicina al suo sentimento anche se non lo vogliamo.
E qui il termine comparazione incontra il terreno epistemologico, là dove la scienza ripensa a se stessa e dove il pensiero gioca le sue carte.
Una carta è quella della rassicurante onnipotenza che nella scotomizzazione degli opposti, del diverso, delle altre possibilità, trova le sue certezze usurpate a tutti gli altri regni conoscitivi e un rimedio all’angoscia esistenziale del Dasein, dell’esser-ci, dell’essere gettati nel mondo a dover superare attimo per attimo il disorientamento dell’esistere.
L’altra carta è quella meno rassicurante della critica, che rinuncia alle certezze e riproduce nelle sue elaborazioni proprio quello che è il processo attraverso cui il pensiero sorge dalle sensazioni e trasforma il corpo in “spirito”.
E’ questa carta della critica che noi vorremmo giocarci attraverso la comparazione, la carta non dico dell’umiltà ma del rispetto degli altri e delle loro fatiche metodologiche, la carta della rinuncia alle certezze assolute, la rinuncia a contare solo sulla perfezione teorica e tecnica, perché la scienza cambia, perché la scienza è insufficiente a elaborare l’infinita quantità di variabili che caratterizzano il sistema psicofisico degli esseri viventi, perché la scienza è spesso politica e asservita a qualche forma di potere, perché a salvare il paziente dal suo abisso di solitudine sarà solo la nostra capacità di ascoltarlo e di raggiungerlo qualunque sia il modo.
E non è solo la teorizzazione “debole” della psicoanalisi che induce la scienza su queste derive critiche e autocritiche. La carta della critica e dell’autocritica, è anche la carta scelta dalle prospettive scientifiche più evolute e complesse.
Einstein e Freud hanno determinato il superamento dei concetti di induzione o di meccanicismo ed hanno influenzato tutte le altre discipline scientifiche.
Nel dominio submicroscopico delle particelle elementari e in quello supermacroscopico delle galassie, i fisici si sono imbattuti in fenomeni così complessi e dinamici da rassomigliare ai processi della vita. Anche in fisica non è più possibile ridurre i fenomeni in componenti semplici da considerarsi unità di misura di fenomeni più complessi. Hanno impiegato strumenti più potenti, ma hanno anche portato i loro concetti e le loro teorie a un livello di astrazione più alto di quello della meccanica, hanno abbandonato l’ideale classico di semplicità e di certezza e in cambio hanno ottenuto nuove conoscenze.
Allo stesso modo che nella fisica quantistica di Planck e in quella relativistica di Einstein, la psicoanalisi freudiana permette di esplorare i più oscuri recessi dell’inconscio, mutando completamente l’immagine del mondo.
Tale immagine è diventata sempre più astratta, non rappresentativa in senso concreto: e questo anche attraverso il filtro delle altre scienze e dell’arte.
La psicoanalisi ha permesso, psicologicamente e scientificamente, di andare oltre l’aspetto codificato e familiare della realtà individuale.
Questo ha esteso anche in altri campi la scoperta della forma meno consueta e la scoperta di un’identificazione artistica aderente a una realtà completamente scarnificata, ridotta all’essenziale. Ma tale processo di scarnificazione e di astrazione, risulta profondamente ansiogeno in quanto implica il trovarsi di fronte ad una immagine della realtà nella quale l’uomo non può riconoscersi e specchiarsi. Questa astrazione è però anche un elemento essenziale di creatività, di evoluzione, porta all’assunzione di nuove prospettive. Ciò che appare oggi astratto e alienante, domani ci apparirà assolutamente familiare, così come ci appare familiare quel mondo rappresentato “come un insieme di palle da biliardo” che i fisici oggi disconoscono e che aveva comportato, invece, una grande capacità di astrazione da parte di Newton.
Comparazione quindi come apertura alla riflessione dell’altro, quale spunto di riflessione continua per sé, in nome di un pensiero sempre in fieri, disposto a rinnovarsi per affrontare momento per momento le evenienze esistenziali. E senza attivare in automatico programmi di problem solving precostituiti e computerizzati, volti a spegnere in contemporanea angoscia e creatività.
E questa sorta di dialettica della riflessione possiamo considerarla anche l’unica vera terapia possibile per la mente. Che a volte il discorso si muova più in una prospettiva psicopedagogica o che si tenda l’orecchio a cogliere suggestioni provenienti da territori inesplorati e inconsci, l’importante è il processo di mentalizzazione e la conseguente riduzione della turbolenza emotiva, fattori che rendono possibili ulteriori elaborazioni.
Agli estremi opposti della mente dello scienziato e del malato mentale ci può essere un identico fattore patogeno: il cristallizzarsi della mente o intorno alle teorie scientifiche o intorno alle personali teorie reattive alla frustrazione, quali programmi di elaborazione dati volti comunque alla fissità, ad ottenere immagini e prospettive immutabili, che risolvano il problema del cambiamento e dell’interrogativo circa cosa potrebbe esserci dietro l’angolo.
Siamo quindi giunti a coniugare questo modo aperto di intendere la prospettiva scientifica che abbiamo indicato come comparazione e la necessità di acquisire una capacità di simbolizzazione continua come finalità terapeutica.
Per divenire adulto, infatti, un individuo deve avere il coraggio di accedere all’ordine del simbolico, deve saper usare il linguaggio, al di là di qualsiasi modello codificato, per quello che esso è: non mistica ipostasi, ma organon dello spirito, strumento al servizio delle sue potenzialità creative.
Il modello forte psicoanalitico
Quali sono le indicazioni, derivate dal modello forte psicoanalitico cui facciamo riferimento, che riteniamo fondanti e imprescindibili per il nostro modo di concepire l’attività psicoterapeutica?
Prendiamo l’avvio dal concetto di sofferenza mentale.
La teorizzazione psicoanalitica, pur adottando un numero cospicuo di modelli esplicativi del senso della sofferenza mentale nelle varie epoche e ai vari livelli di gravità, si fonda grossomodo sull’idea che quei desideri e quelle fantasie infantili che non possono essere realizzati, oppure quelle esperienze di carenze della reverie, di mancanza, di non contenimento così precoci o così traumatiche da non poter essere simbolizzate, vengono comunque rimossi, ovvero dimenticati, ovvero non pensati, lasciando però tracce indelebili nella mente, determinando –pur rimanendo subliminali- il comportamento del soggetto. Vanno cioè a costituire quelle fantasie inconsce che sottendono ogni azione e ogni pensiero cosciente che la mente sia in grado di formulare.
Questo materiale dimenticato o mai pensato o costituito da semplici tracce di emozioni sospese tra il corpo e la mente ha la peculiarità di poter essere riportato alla luce nei sogni o nell’incapacità di sognare, nelle libere associazioni o nei silenzi, nelle paraprassie. In altre parole il sogno riattiva le esperienze rimosse o scisse o dissociate che possono essere così risignificate e ritrascritte nella memoria.
Quale terapia quindi per questa sofferenza mentale?
Le particolari caratteristiche del setting psicoterapeutico di impostazione psicoanalitica, costruito su misura per un ’altra dimensione rispetto alla realtà quotidiana in cui il soggetto è immerso, atto scopo quindi ad accogliere sogni e associazioni in un clima fortemente simbolico e di libertà evocativa, sollecita la coppia terapeutica ad una costante attenzione alla relazione intersoggettiva e intrapsichica che il lavoro interpretativo renderà comprensibile al paziente favorendo un processo di crescita e di cambiamento. La stanza d’analisi diventa quindi una sorta di agar in cui prende vita piano piano, miracolosamente tutto quel mondo rimosso-sommerso fatto di depressione, di idee paranoicali, di pensieri deliranti che determina il comportamento, le reazioni, le scelte ma che è escluso dalla coscienza. L’attivazione di tutto questo mondo nascosto permette la sua elaborazione alla luce della relazione terapeutica che ne modificherà le potenzialità adattive rispetto alla realtà esterna e rispetto al senso di sé attraverso la ripetizione e la ritrascrizione.
Del resto Edelman conferma che la memoria non consiste in una registrazione permanente situata nel cervello e isomorfa all’esperienza passata ma ricostruisce il ricordo alla luce delle esperienze successive, è cioè una ritrascrizione dinamica legata al contesto in cui si attua.
Per questo può esserci psicoterapia, per questo la mancanza di reverie nel rapporto con la madre e i traumi affettivi possono essere superati nella relazione con il terapeuta.
I livelli di realtà nel setting
Per effetto delle proiezioni transferali e controtransferali, nella stanza della terapia sono tanti i livelli di realtà. Il terapeuta è il terapeuta e insieme può essere il padre, la madre, il fratello o la sorella, il partner; è lo scienziato che può portare con sé qualche idea messianica che può coinvolgere e destabilizzare; è il professionista arrivato con il quale competere o dal quale essere surclassato; è il nemico detentore di un’altra verità, è l’essere umano a sua volta alle prese con i problemi esistenziali, esattamente come il paziente. Il terapeuta deve avere una capacità acrobatica per passare con agilità -nelle sue interpretazioni e nel giungere insieme al paziente alla costruzione di un senso – da un livello all’altro di realtà, in modo da aiutare il paziente a funzionare altrettanto bene, a diventare un Io capace cioè di sentire e di pensare i propri pensieri, invece di essere agito da fantasie subliminali e non metabolizzate.
Queste considerazioni sui vari livelli di realtà presenti contemporaneamente nel setting (Modell) per cui il terapeuta non è solo il risultato delle proiezioni dei pazienti (madre buona, madre cattiva, padre, ecc. …) ma è anche se stesso con la sua personalità, con le sue connotazioni, con la sua storia ecc. … sono molto importanti perché in una prospettiva psicoanalitica relazionale non è più possibile immaginare una neutralità e una asetticità assoluta. La realtà del terapeuta entra anch’essa nella stanza di analisi, non quale modello da imitare evidentemente, ma come dato reale ineliminabile che deve anch’esso essere introdotto nel discorso terapeutico. E queste considerazioni sono ancora più significative se il paziente è anche in training per diventare psicoterapeuta. In questo caso non si può prescindere dal considerare la competizione suscitata nel paziente dal fatto che il proprio terapeuta è anche una persona più abile di lui nella sua stessa professione. E anche questo deve essere oggetto di analisi se non ci si vuole trovare di fronte ad una analisi come se.
Il setting psicoterapeutico
Ricapitolando, come terapeuti non dobbiamo in primo luogo rendere conscio l’inconscio o rafforzare l’Io, quanto piuttosto dobbiamo essere capaci di fornire al paziente un setting in cui possano essere ristabilite le connessioni con quegli aspetti del Sé precedentemente rimossi, scissi e perduti. E tutto questo può accadere non solo in ragione delle nostre capacità interpretative ma, soprattutto, se riusciamo a mantenerci in relazione e siamo capaci di avere per i nostri pazienti un‘attenzione, una dedizione e una curiosità costanti nel tempo.
Ma che cosa accade nel setting? Come possiamo mantenere a lungo questa attenzione per i nostri pazienti? Quali sono le forze in gioco?
In realtà il setting psicoterapeutico può essere pensato come un mezzo per concentrare quelle forze terapeutiche presenti nella vita di tutti i giorni.
Freud infatti ipotizza che le forze che producono il cambiamento in psicoanalisi non sono completamente differenti da quelle forze che portano a cambiamenti psicologici all’esterno del trattamento. Perciò, il potere terapeutico del transfert può essere visto come un’estensione del potere terapeutico dell’amore e del gioco, due situazioni in cui il soggetto viene trasportato in un altro mondo, in un’altra realtà con limitazioni spaziali e temporali e con delle regole precise da osservare. Allora questa area delimitata e circoscritta diventa uno spazio in cui muoversi in piena libertà e spontaneità. Lo spazio tra l’analista e l’analizzando, dove il giocare ha luogo, è una realtà condivisa.
Questa esperienza condivisa, è un intreccio illusorio e giocoso del mondo interno dei due partecipanti. “ La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta”.
Che cosa deve accadere nel nostro studio, nella relazione con il paziente, nella nostra mente innanzitutto?
Dobbiamo saper creare e mantenere un setting con delle regole precise e un impegno di contenimento complesso. Deve diventare una sorta di grembo materno capace di accogliere il lavoro con il nostro paziente, sogni, associazioni, interpretazioni,
confrontazioni; una sorta di schermo sul quale si delineano i fantasmi dell’inconscio, diventano piano piano tridimensionali e si intrecciano con i personaggi della scena analitica in una rappresentazione dei drammi e dei conflitti del passato. Potremo così leggere le difese, lo stile di attaccamento, le costruzioni deliranti…
Il setting rappresenta anche il confine oltre al quale la relazione terapeutica non potrà spingersi senza travalicare quel campo del simbolico che costituisce la peculiarità della relazione terapeutica.
L’atmosfera creata dal setting si porta dietro quindi ineluttabilmente la tendenza a rivivere conflitti e emozioni del passato come se fossero attuali. Emozioni primitive e infantili si presentano con inaudita veemenza chiedendo di essere riammesse nella sfera del Sé, di essere risperimentate come proprie, di avere diritto di cittadinanza nella mente e nelle relazioni del soggetto.
Ma sperimentare questi stati d’animo infantili, essere visti in questo assetto dal terapeuta, spaventa il paziente, lo terrorizza e lo riempie di rabbia e di frustrazione. E spaventa moltissimo anche il terapeuta (soprattutto se giovane professionalmente) in quanto teme che il proprio paziente possa impazzire, teme di non essere in grado di contenere, di arginare questa spinta regressiva, teme di essere coinvolto, trascinato verso il basso senza possibilità di risalita.
Superata la paura della regressione e messa in salvo la relazione terapeutica dalle valenze pseudosimboliche di alleanze di matrice psicopatologica, ammantate di ipocrisia e di falsa disponibilità, allora può sorgere nel soggetto una capacità di cooperazione con il terapeuta che si inserisce nella dimensione della peculiare asimmetria del rapporto analitico come una capacità di collaborazione assolutamente simmetrica, pronta per essere esportata nella vita quotidiana del paziente.
Importante è anche la sintonia con il paziente. Il paziente deve avere la certezza di essere visto nella sua individualità, nella sua irripetibilità. Nel rapporto con il paziente il terapeuta non può far riferimento solo alle competenze teoriche ma deve attingere alla propria sensibilità, alle proprie capacità di entrare in risonanza, alla capacità di creare un linguaggio comune della coppia.
Deve esserci una capacità di modulare e tarare l’intervento sull’effettiva possibilità di assimilazione del paziente, dobbiamo sapere quello che il suo Io può tollerare e quello che avrebbe come risultato il ricorso a qualche meccanismo difensivo che appunto manderebbe in pezzi la compattezza del Sé fino a quel punto raggiunta.
Un ultimo punto importante è il tenere presente che quando ci troviamo di fronte ad una pressione persecutoria interna molto elevata (ad esempio nel caso di una struttura di personalità narcisistico-evacuativa), quando cioè ci troviamo di fronte ad una mente piena di cataboliti, non possiamo pensare di introdurre nulla in questa mente.
Non c’è spazio, non c’è possibilità per questa mente di assimilare nulla se prima non sono stati drenati tutti quegli elementi tossici che la ingombrano. L’espressione di tutto questo negativo deve precedere qualsiasi interpretazione, fa parte della terapia, inerisce al metodo.
Per perforare delicatamente questo guscio o per incominciare a intrecciare dei fili di senso che nel tempo possano andare a costituire un tessuto adatto a imbrigliare e a trattenere dei significati, bisogna anche essere tanto creativi da trovare nuovi registri di linguaggio che si adattino ad un funzionamento della mente così particolare e così diverso.
Per questo dobbiamo avere anche la disponibilità di calarci nel mondo interno del paziente per mettere in scena, come cointerprete, le sue dinamiche relazionali con gli oggetti interni scissi; è un’operazione che richiede molta disponibilità e rassegnazione, in quanto implica essere disponibile ad immergersi, in senso stretto, nel vissuto scisso del paziente e, per quanto oggetto “competente”, rischiare di essere trascinati verso il fondo. E’ questo l’aspetto più d’avanguardia, più moderno che la psicoanalisi ci offre e che mi sembra irrinunciabile: che non dobbiamo più limitarci a dare indicazioni, a interpretare come un istruttore sul bordo della piscina ma immerso nella stessa acqua del paziente. L’estetica di una tecnica impeccabile lascia il posto alle incertezze brancolanti e antiestetiche di un salvataggio avventuroso. Ma in questo modo anche qualche borderline e qualche psicotico può, magari maldestramente, essere salvato.
Infine possiamo ancora rilevare che l’essere umano è attraversato da due forze uguali e contrarie, una che lo sospinge verso la distruzione del legame perché questo legame non gli riverberi il suo stesso limite e la sua debolezza inaccettabile, l’altra che lo spinge invece con altrettanta determinazione verso l’integrazione e la costruzione del legame.
Se prendere coscienza di questa forza destruente, che lavora contro l’integrazione, è indispensabile per la crescita e lo sviluppo mentale, pensiamo che sia anche determinante riconoscere e far sviluppare quella forza che spinge invece verso l’integrazione.
Possiamo quindi pensare alla mente come a qualcosa che va creata a poco a poco, come un Io che accoglie un po’ per volta parti del Sé, una sostanza intelligibile cha accoglie una sostanza percettiva e la amalgama e la informa di sé.
In fondo tutte le critiche che vengono fatte alla psicoanalisi attualmente sono volte a scandagliare l’azione terapeutica e a spostare l’efficacia della interpretazione versus l’efficacia della relazione (che del resto personalmente non ho mai trascurato). Ci troviamo di fronte allo spostamento dell’enfasi dalla ricostruzione storica all’interpretazione del qui e ora tra analista e paziente. E così via …
Possiamo pensare alla mente come ad un embrione che contiene in sé immanenti già tutte le potenzialità ma che è ancora interamente indifferenziato.
Un embrione che può essere raggiunto dal pensiero in profondità prima ancora che si sia dispiegato. E il lavoro terapeutico, sostanza intelligibile, può raggiungerlo, giorno dopo giorno, provocare il dispiegarsi delle sue funzioni, fino all’interezza della sua realtà.
Quando l’embrione è ancora un embrione, si difende da qualsiasi investimento emotivo, deviandolo verso l’esterno attraverso le difese classiche, perché non sa ancora gestirlo, dato il suo stato di indifferenziazione.
Ma se un’altra mente sarà in grado di pensarlo e di riconoscerlo nella sua fragilità, nella sua impotenza e nella sua forza prospettica, l’embrione potrà via via dispiegarsi in tutte le sue potenzialità..
Posso quindi aspettare per anni che il paziente più fastidiosamente onnipotente e più determinato in ogni sorta di attacco al legame, giunga finalmente a scoprire le proprie fragilità e il suo non essere mai stato visto prima. Psicoterapia è quell’atto contemplativo che contiene amore, passione metafisica, attenzione scientifica. Quel rapporto emozionale -intrapsichico e insieme della coppia terapeutica- che provoca l’espansione della coscienza attraverso il riconoscimento dell’altro.
Ma intendo un riconoscimento che porta con sé un insight che trascende la relazione con un particolare paziente, che può andare a riguardare problemi del terapeuta come problemi più ampi nel campo dell’arte, della letteratura, del sociale.
Lasciarti essere te
Lasciarti essere te ‘: formazione, setting, funzione paterna
di Stefania Magnoni
Lasciarti essere le, … Vedere che sei tu
solo se sei tutto ciò che sei….
la tenerezza e la furia, quel che vuole sottrarsi e quel che vuole aderire…
Eric Fried, Te
‘Noi lavoriamo per aiutare i nostri pazienti, e non per procurarci seguaci, discepoli, convertiti o complici. Il nostro obiettivo è di rendere possibile la nascita di un individuo maturo ‘ Così nel 1957 si esprimeva Ralph Greenson e, nella semplicità dell’affermazione possiamo trovare a tutt’oggi validi spunti di riflessione non solo riguardo le finalità della psicoterapia, ma anche rispetto alle fatiche del training formativo per ‘essere psicoterapeuti’. Se ipotizziamo che l’itinerario terapeutico permetta di recuperare con fatica e lentezza, ma anche con stupore e piacere la nostra identità autentica e ci consenta di attivare in noi gli elementi creativi del nostro esistere rimasti intrappolati e bloccati, ovviamente anche la formazione degli psicoterapeuti non può prescindere dal percorrere itinerari interiori che, lungi dall’essere solamente ‘scavi archeologici’ costruiscano architetture dotate di autenticità, di verità e di senso personale. Certamente questo non è sufficiente perché è indispensabile una trasmissione della teoria e della tecnica che costituiscano un bagaglio conoscitivo mai saturo e sempre capace di nuove curiosità.
Uno dei nodi da affrontare è, quindi, quello di strutturare una situazione di apprendimento che assolva a funzioni positive, proprio perché sono i sentimenti il nocciolo della questione ed è l’autenticità con cui riusciamo ad accogliere le nostre emozioni che ci permetterà di esprimerle con sincerità. Mi limito qui a ricordare le funzioni positive di cui ci parla Donald Meltzer: generare amore, sostenere la speranza, contenere la sofferenza depressiva, pensare.
Sia la formazione dei giovani psicoterapeuti sia il lavoro con i nostri pazienti si muovono continuamente fra esigenze di accudimento, accoglienza, cura del loro mondo interiore e necessità di attivare funzioni separative e normanti che garantiscano un adeguato emergere dell’individualità personale. Ora ‘mentre la madre resterà sempre la condizione dell’esistere, il ruolo del padre è quello di aiutare ciò che esiste a divenire ‘ (Gaddini 1985); la funzione paterna si esprimerà quindi primariamente come normativa, nel senso di ‘guida’ rispetto alla realtà e nel senso di ‘dare dei limiti’, ridimensionando l’onnipotenza infantile e introducendo la frustrazione del soddisfacimento immediato del bisogno, passaggio indispensabile per poter transitare dal registro del bisogno a quello del desiderio che si manifesta come possibilità di ricerca di un rapporto oggettuale.
Come dice Murray Bowen: ‘se Edipo ha potuto sposare sua madre, è soltanto perché Laio, nell’incontro/scontro con il figlio, si è lasciato uccidere abdicando al suo compito di custode della coppia.
Giocasta, lasciata sola, ha saputo offrire solo la legge materna, la legge del legame. Ma questa è legge che da sola, non bilanciata dalla legge paterna, diviene legge dell’essere senza il divenire, cioè legge di morte.
Nessuno può esistere senza divenire’
Se a questo punto ci riferiamo al setting, pensando che la situazione analitica è terreno sperimentale in cui si rivivono le condizioni della propria esistenza, possiamo dire che la regola analitica rappresenti- nel processo terapeutico- quella funzione paterna capace di proporre e custodire la norma, ponendo con ciò dei limiti soprattutto alle parti infantili che rivendicano sia il loro diritto di fusione con la madre sia l’immediatezza nel soddisfacimento dell’impulso. I confini posti dal setting, diventano un contenitore che permette processi rivivono le condizioni della propria esistenza, possiamo dire che la regola analitica rappresenti- nel processo terapeutico- quella funzione paterna capace di proporre e custodire la norma, ponendo con ciò dei limiti soprattutto alle parti infantili che rivendicano sia il loro diritto di fusione con la madre sia l’immediatezza nel soddisfacimento dell’impulso. I confini posti dal setting, diventano un contenitore che permette processi trasformativi delle fantasie e degli impulsi aggressivi in qualcosa che può essere usato creativamente, ovviamente a patto che questo contenitore regga adeguatamente l’aggressività connessa alla frustrazione e ne moduli con attenzione il potenziale distruttivo. Il ‘setting interno’ del terapeuta si traduce nel suo modo di lavorare e si forma attraverso un costante confronto con le regole dell’analisi e il senso che hanno per lui.
Diceva, a questo proposito Anna Freud che per i giovani in training le regole sono vissute in due modi apparentemente opposti: o come un intralcio che non permette di mantenere la propria sensibilità e disponibilità, similmente a quanto accade alle ragazzine che imparano a cucire e si sentono intralciate dal ditale, o come una barriera dietro cui proteggersi nell’affrontare il paziente che elimini la necessità di un’azione indipendente, ‘ci vuole molto tempo per convincere alcuni giovani che la regola analitica non è stata concepita per la loro protezione’.
Ovviamente per favorire processi di crescita verso l’autenticità e la verità del proprio essere se stessi è indispensabile coniugare funzioni materne di accudimento, accoglienza, appartenenza, sensibilità e funzioni paterne essenzialmente rivolte ad introdurre il principio di realtà e cioè il limite, la norma, il distacco dai desideri fusionali ed incestuosi per promuovere movimenti esplorativi verso il mondo esterno sia relativamente alle curiosità epistemofiliche sia nella ricerca dell’oggetto sessuale. Ciò naturalmente non significa un semplicistico, quanto irrealistico, attribuire all’uomo funzioni paterne e alla donna materne.
Ecco cosa dice Winnicott:
… ancora una parola su certi no della madre, Non rappresentano forse il primo
segno della presenza del padre?… Mi sembra che, come padri, essi compaiano per la prima volta nella vita del bambino sotto forma di quella parte più forte della madre che le consente di dire ‘no’ e di tenere duro… all’inizio l’idea di personificare il no può non piacere, ma risulta meno sgradita se si tiene presente che ai bambini piccoli piace sentirsi dire ‘no’.
A loro non serve giocare sempre con cose morbide; sanno apprezzare anche i sassi, i bastoni, il pavimento duro..