di Stefania Magnoni
’ Stare bene, stare vivo, stare sveglio’ : responsabilità e creatività sulle tracce di Winnicott
L’analisi personale è esperienza, avventura, scoperta, legame trasformativo e molto altro ancora. Per condividere qualche pensiero su questa possibilità di costruire un noi che trasformi e consenta di accedere alla propria natura più vera, prendo spunto da un autore che ha significato molto nel mio percorso formativo, perché parlare dell’analisi non può essere disgiunto dal parlare della propria esperienza prima come paziente e poi come terapeuta. Vorrei che potessimo insieme percorrere un sentiero di esplorazione che ci e vi renda curiosi circa le molteplici sfaccettature da cui guardare a quel mistero affascinante e oscuro che è l’essere umano.
Winnicott ha tracciato una mappa con alcuni punti nodali che hanno una potenzialità intrinseca di parlare a quel IO-SONO che ciascuno di noi è, in un dato momento della sua storia. Così tornare e ritornare più e più volte su alcuni passi ce li farà scoprire-creare ogni volta in modo un po’ diverso.
Una piccola nota autobiografica: venuta in contatto nei primi anni dell’università con queste righe
‘Allorché svolgo una psicoanalisi, io miro a:
Stare vivo
Stare bene
Stare sveglio ’
avevo sul momento pensato che l’autore mi stava simpatico perché poneva degli obiettivi semplici che anch’io assolutamente digiuna della materia potevo ‘capire’ e che avrei senza fatica potuto perseguire….
Sono passati davvero molti molti anni e nel corso del tempo questo progetto ha continuato ad interrogarmi, non mi è sembrato più così semplice, a portata di mano, quasi ovvio, ma non ha perso per niente vitalità, potenzialità e capacità di orientarmi.
Noi esseri umani, spaventati in misura simile dai nostri limiti e dalle nostre capacità abbiamo davvero bisogno di essere visti, trovati senza essere svelati, aiutati a creare-abitare un luogo interno in cui raccoglierci e poter sperimentare questa cosa così naturale e alle volte tanto ostacolata del sentirci reali, vivi, veri.
Abbiamo bisogno di tempo: nessuna accelerazione che spinga verso una qualche direzione, anche per fini ‘nobili’, ci aiuta.
Il tempo è individuale, soggettivo, l’altro –l’ambiente- deve saper aspettare con pazienza, fiducia, dedizione, sensibilità, che il ‘nostro’ tempo sia maturo e che possiamo procedere verso le scoperte della crescita emozionale.
Se le cose vanno bene, quasi non ci accorgiamo che il nostro sentirci nel mondo accade in funzione del fatto che partecipiamo attivamente, quotidianamente ad una continua costruzione di scambi interno/ esterno, Me – non-Me che sono ‘creativi’ nel senso che costantemente mediano tra l’onnipotenza delle origini (IO SONO come unico polo che comprende fusionalmente ogni altra realtà) e la rischiosa REALTA’ ESTERNA (sei piccolo e insignificante e devi conformarti a me se vuoi sopravvivere), costruendo ponti che mettano in comunicazione questi due aspetti in modo tale che ci possa essere una negoziazione e l’incontro sia senza rinunce mutilanti.
Fare esperienza di ‘gioco’, così la chiamerebbe Winnicott, è ciò che ci permette di incuriosirci dell’altro senza sentirlo un estraneo pericoloso e perturbante nel suo bagaglio di ignoto, di andare incontro a ciò che non siamo e che non possediamo con la curiosità dell’esploratore più che con l’avidità del conquistatore o il terrore del vinto.
Così, attraverso un intenso scambio identificatorio godremo di una relazione che riuscirà ad arricchire entrambi e ci cambierà.
Senza questi scambi che transitano attraverso lo spazio di gioco, abbiamo solo la possibilità di percorrere canali pre-costituiti e ubbidienti che ‘onorino la sceneggiatura’ di un rito sociale dove tutto è già preformato, con una non piccola dimenticanza: l’aspetto vivo di noi! Se possiamo invece contattare qualcosa di vero, questa esperienza ci restituisce una sensazione nutriente e godibile, e la fatica che eventualmente abbiamo fatto non ci pare troppa perché quello che ne abbiamo ricevuto ‘valeva la pena’.
Come mantenere viva nella clinica -in fondo questo è il compito e il lascito di Winnicott questa impronta?
In tanti momenti mi sono chiesta come posso pensare ad una situazione di gioco se il dolore, la confusione, l’impotenza e l’isolamento sono gli ospiti che ci tengono compagnia facendo circolare una disperazione che solo la memoria di altre lunghe navigazioni fa intendere come momentanea.
Ecco che trovo una traccia: ’lo spazio di gioco lo dovete creare’.
Evidentemente nelle esperienze primitive qualche frattura di troppo, qualche discontinuità inelaborata, qualche inaffidabilità indigeribile hanno lasciato le loro tracce e il piccolo IO SONO non è affatto certo né di essere con continuità, né di poter lasciare qualcosa di sé nel mondo esterno, né di poter trovare qualcosa di buono da scoprire e di cui servirsi, che sia
proprio lì a sua portata per soddisfare la sua spinta vitale all’ espansione e alla scoperta. Il compito non è banale, ma in fondo se fosse troppo scontato non sarebbe interessante! Dobbiamo ‘insieme’ trovare, momento per momento, un punto di incontro, una mediazione, una parola, che restituisca allo spaventato mondo emotivo del paziente, un approdo … ‘mi ha visto’ ‘mi vedo’ ….
Solo così e gradualmente la stanza che ci ‘ospita’ potrà diventare ‘luogo’ vivo di proiezioni e di scambi, potrà offrire, come un palcoscenico, spazio per rappresentare un ‘gioco’ che è gioco- danza dove le due menti sempre devono cercare il passo, il ritmo, la vicinanza che non intrude ma non abbandona, danza dell’avvicinamento, del racconto e anche, certamente non secondaria, danza del saluto.
Questo è il ‘primo passo ’: abbiamo costruito una capacità di continuare a costruire le premesse del gioco … seduta dopo seduta. Nulla è monotono: siamo dentro un paradosso uno dei tanti – per incontrarci, per crescere, per preparare e vivere il cambiamento abbiamo bisogno di ritualità e novità, servono sia ritmi prevedibili e ripetitivi sia scoperte che stimolino raccordi, prospettive, costruzioni non ancora pensate. Presenze note e affidabili, garanti della stabilità, rendono possibile il movimento delle due menti audaci, disponibili a catturare l’impercettibile nuovo che si affaccia sulla scena.
‘Stare vivo, stare bene, stare sveglio ’… un’altra provocazione in queste tre icone. Se l’invito è costruire esperienze di gioco che definiscano il soggettivo all’interno del relazionale e che continuamente intreccino reciproche sensazioni per produrre pensieri non ancora pensati, non è ovviamente possibile stare vivi, bene e svegli da soli mentre l’altro soffre!
Ecco allora un’altra traccia molto chiara pur nel suo essere ‘insatura’.
Ecco quale è il nostro compito di terapeuti: invitare l’altro con passione e rispetto, delicatezza e determinazione, umanità e conoscenza, a trovare insieme a noi il suo modo di stare a proprio agio nel suo mondo.
Questo è un punto molto delicato dal quale per tutto il tempo del nostro essere terapeuti, sempre dobbiamo lasciarci interrogare: cosa serve a questo nostro paziente? cosa pensiamo di potergli offrire? Siamo disponibili emotivamente a patire, a spaventarci, a rischiare i confini della follia, della confusione per risalire poi pian piano ad una organizzazione della mente che riattivi processi di crescita secondo le linee insite nella storia dell’altro? Altro che abbiamo sfiorato, che ci lambisce, che ci scava e modifica ma che non possederemo mai e che dovremo essere capaci di lasciar andare proprio quando finalmente si starà bene assieme
Se abbiamo curiosità, spazio, tempo –e un po’ di follia “saremmo così mortalmente noiosi se fossimo solo sani!” … allora possiamo confidare che la nostra strumentazione ci aiuterà nel viaggio e che le esperienze vissute grazie e con quel paziente, rappresenteranno un buon bagaglio di saggezza e scoperte.
Se tutto andrà per il suo verso, con naturalezza, anche l’Altro scoprirà un suo ‘centro’, potrà ESSERE e FARE, in una dinamica alchimia di maschile e femminile che sempre si compongono e scompongono consentendoci quella sintesi che ci rende proprio quello che siamo, che fa sì che finalmente ci troviamo e riconosciamo: un IO-SONO che passato per le tempeste dell’onnipotenza, saldo nel suo riconoscersi, può facilmente rinunciare ‘ a fare da ruota o da timone ed è contento di essere una rotella per collaborare fattivamente con gli altri’. Questa io penso che sia l’essenza dello STARE.
Vorrei usare le parole di una scrittrice –Michela Murgia- per raccontare lo stupore, la commossa meraviglia che contattiamo quando davvero due menti riescono assieme a trovare una strada per uscire da un guado minaccioso e possono raccontarla In una terra dove il silenzio
è ancora il dialetto più parlato,
le parole sono luoghi,
più dei luoghi stessi
e generano mondi.-
M.Murgia
Non sempre in verità il silenzio è non-vita, deserto, omertà e fuga. Nello STARE in ascolto, poco alla volta scopriamo tanti modi che il silenzio ha per ‘parlare’ e così, un po’ come madri devote che intuiscono nel piangere delle proprie creature bisogni diversi e nel riconoscerli li aiutano a trovarsi, facciamo insieme esperienza che nulla è mai uguale al simile, che ogni momento è diverso e ‘dscreto’, e che in questa discontinuità del movimento possiamo trovare una ciclicità che ci permette di riconoscere una continuità di esistenza. IO-SONO è vivo perché può cambiare senza perdersi, può riconoscersi nella pluralità delle sue manifestazioni come UNO e si potrà sentire vero perché in relazione con un ‘dentro’ e un fuori, non contrapposti e nemici ma partecipi di una vicenda comune.
Ancora ‘STARE…. Bene, vivo, sveglio ‘ … una sorta di mantra che libera la mente da tentazioni virtuosistiche prive di vicinanza e contatto con l’umanità sofferente e congelata che in noi e nell’altro aspetta di essere incontrata, lenita, messa in condizioni di ‘dispiegarsi’… . Per trovare quel IO-SONO che può sentirsi esistente e vero incontreremo anche: pauroso/impaurito, odioso/odiante, disprezzato/disprezzante, questo farà barcollare il nostro buon intento di stare nella situazione? Di portare rimedio anche solo per non essere fuggiti? Stare farà crescere entrambi, scappare, spostarsi un po’ più in là, porterà a fingere un soccorso che diventa ‘superiore compassione’ e ci situa in una dimensione altra in cui non essere raggiunti, toccati, cambiati dalla ‘furia’ delle emozioni:
….Chi ama solo una metà
Non ti ama a metà
Ma per nulla
Ti vuole ritagliare a misura
Amputare
Mutilare ….
- Fried
Queste le parole di un poeta. Di poesia abbiamo bisogno, è profondo distillato di movimenti di un’umanità alla ricerca di sé stessa che nel cercarsi si inventa e si scopre. In fondo è una affascinante descrizione di un viaggio di ricerca e di narrazione di sé e forse davvero ‘la meta di tutto il nostro viaggiare è ritornare al punto da cui siamo partiti e ‘conoscere il luogo’ per la prima volta… ‘.
Ma ritorniamo ancora a Winnicott che con il suo modo apparentemente piano e semplice di affrontare i temi della vita, delle relazioni, del crescere nel mondo, costantemente mette sul nostro percorso tracce che sollecitano ad una ‘appropriazione’ che non sia mai imitativa e passivamente ripetitiva.
La sua personalità, con luci ed ombre, è ovviamente irripetibile e quindi qualunque ‘lezione’ lasci una traccia in noi, per diventare fertile terreno deve poter essere assimilata: un buon nutrimento che ci ha procurato piacere, a cui ritorniamo, ma che darà prova di essere stato ‘sufficientemente buono’ solo se ci spingerà a pensare con la nostra mente e non a limitarci ad ubbidire al dettato.
‘lo stimolo per il lavoro sta nella lacuna’, ‘l’incubo dello scienziato è l’idea di una conoscenza completa’, anche queste affermazioni si situano sulla linea della responsabilità a cui siamo costantemente chiamati: allora stare svegli e vivi vuol anche dire rischiare il pensiero. Aver avuto la fortuna, la curiosità e la fermezza di una lunga frequentazione del pensiero dei progenitori, per poter, nutriti e appartenuti, muovere i propri passi verso pensieri nuovi.
Io credo che questo sia un invito presente in ogni ‘mente pensante’: ‘scambiamo nutrimento, non imitate ma sperimentate per trovare la strada’.
Winnicott ci porta verso la semplicità di un accessibile esperienza di vita oltre che terapeutica in cui ‘avvengono cose sorprendenti ma non in modo straordinario’. In fondo essere vivi, sentirsi esistenti e reali è cosa semplice e conquista ineffabile.
Vorrei chiudere con le parole di una fiaba:
‘Cosa è reale?’ , chiese il coniglio un giorno… ‘ significa avere qualcosa che ti ronza dentro e una chiavetta per la carica?’
‘Reale non è come sei fatto ‘, disse il cavallo. ‘ E’ una cosa che ti succede. Quando un bambino ti ama per tanto, tanto tempo, e non si limita a giocare conte, ma ti ama veramente, allora tu diventi reale.’
‘Fa male?’ chiese il coniglio.
‘Qualche volta’, rispose il cavallo, perché lui diceva sempre la verità, ‘ ma quando sei reale non ti importa se fa male ’ .
‘Succede tutto insieme, come quando ti rompi’, chiese, ‘o un po’ per volta?’. ‘ Non succede in una sola volta’, disse il cavallo. ‘ Ci diventi, e occorre molto tempo… ma una volta che sei diventato reale , non puoi diventare di nuovo irreale. Dura per sempre’
Marjorie Williams, il coniglio di velluto