Imparare l’arte della psicoterapia è anche diventare capaci di ascoltare il ritmo del mondo, coglierne le conflittualità e la bellezza, riuscire a stare nei paradossi con mente aperta all’imprevisto e all’ignoto
Avvicinarsi ai misteri del nostro funzionamento interiore ha in sé qualcosa di potente e sacro, richiede passione, autenticità, integrità, pazienza, forza, lentezza, accudimento, dedizione…
L’elefante ci è sembrato un vivente che con il suo esistere ci aiuta a ricordare alcune fatiche e alcuni valori del nostro crescere nella capacità terapeutica. È animale sacro, antico potente pacifico, ma forte, animale che presta la sua imponenza alla comunità dei simili, tranquillo, ma non sottomesso.
In India è invocato quando è necessario rimuovere gli ostacoli che impediscono il compiersi di qualche realizzazione desiderata.
Anche questa evocazione ci ha attratto, pensando alla terapia psicoanalitica come una via per levare, in cui si attivano le risorse tecniche esclusivamente per sciogliere gli ostacoli che limitano la piena espressione della autenticità di ciascuno, nella convinzione che compito del terapeuta sia favorire l’espressione dell’unicità di ogni vivente e non imporre una propria forma di ‘salute’ preconcetta che dissacrerebbe il valore della nostra umanità.
Lavoro clinico, quindi, come lavoro del sacro, in cui le forme psichiche prodotte dalle ferite e dalle paure, lasciano piano, piano il posto ad una espressività più libera e giocosa.
Lavoro clinico come procedere lento e ritmico in territori vasti e a volte scarsamente popolati come quelli in cui gli elefanti marciano a lungo per trovare acqua e ristoro dalla calura oppressiva dei giorni.
Lavoro clinico come spazio in cui non si rimane mai soli, come non accade a questi splendidi pachidermi che si aspettano e si proteggono, nella marcia e nelle difficoltà, mostrando una solidarietà a volte maggiore di quella che riusciamo a mettere in campo noi esseri umani.
Lavoro clinico come riedizione moderna di qualcosa di molto antico, ancestrale, che pesca nelle profondità dell’animo umano attraverso la capacità di evocare e praticare modalità di usare la mente conosciute e rispettate più nel passato che oggi.
Ai nostri tempi, infatti, il delirio di onnipotenza generato dallo sviluppo tecnologico chiede un tributo oneroso: una abitudine diffusa ad ogni livello del quotidiano per cui di un intero viene presa solo la parte che può essere usata in scambi mercenari.
Il resto, devitalizzato e ridotto a scarto, viene abbandonato ad un destino di solitudine ed incuria.
È stato così per gli elefanti uccisi o mutilati per le loro zanne. È doloroso, ma necessario, chiedersi come vengono trattate le parti della nostra costituzione interiore che non entrano nella logica del profitto.
Inoltre noi clinici confrontati con il dolore dei viventi e con una ‘cassetta degli attrezzi’ teorica, tecnica, ma necessariamente emotiva e umana, impegnati a stare nella tensione tra dolore e bellezza, non dobbiamo correre il rischio di sacrificare la sacralità dell’uomo nella sua interezza, abbagliati da qualche preziosa teoria che dia lustro al sapere che definisce e rassicura ma che dimentichi la complessità dei viventi e la loro libertà di determinarsi.
nota a margine
Una recente ricerca condotta in Kenya ha scoperto che gli elefanti si chiamano l’un l’altro utilizzando richiami distintivi, simili ai nomi propri che utilizziamo noi umani. Tuttavia, si tratta di suoni impercettibili all’orecchio umano. La ricerca che è stata pubblicata in prestampa su bio Rxiv https:www.biorxiv.org/content/10.1101/2023.08.25.554872v1.abstract?%3Fcollection=i ha dimostrato che gli elefanti utilizzano dei “nomi” distintivi tra di loro, sebbene questi non siano percepibili dall’uomo.
Durante la terza conferenza online African Bioacoustics Community, l’ecologo Michael Pardo ha presentato i risultati di uno studio che rivela qualcosa di straordinario sulla comunicazione degli elefanti della savana africana (Loxodonta africana) nel Parco Nazionale di Amboseli. Gli elefanti comunicano tra di loro attraverso una vasta gamma di suoni, tra cui i bassi brontolii che non sono udibili dall’uomo e che possono viaggiare fino a sei chilometri di distanza. I ricercatori sono riusciti a registrare 625 di questi suoni e li hanno classificati in base al contesto in cui si verificano.
Con un’analisi svolta utilizzando l’intelligenza artificiale, i ricercatori hanno scoperto che circa un quinto di questi boati vengono utilizzati in modo specifico per rivolgersi a individui particolari, esattamente come utilizziamo noi i nomi degli altri. Per testare questa scoperta, i ricercatori hanno fatto ascoltare alcuni di questi suoni a 17 elefanti e hanno scoperto che alcuni di loro rispondevano più velocemente ad alcuni di essi. In pratica, riuscivano a riconoscere il loro nome.
Inoltre, si è anche scoperto che questi animali utilizzano spesso gli stessi suoni per comunicare con lo stesso individuo, indipendentemente dal ruolo sociale. Michele Pardo, specializzato in ecologia comportamentale, ha sottolineato l’importanza di questa scoperta, che rivela come il linguaggio utilizzato da altre specie abbia delle caratteristiche simili a quelle degli esseri umani.
Questa scoperta ha importanti implicazioni per la comprensione della cognizione e della vita sociale degli elefanti. Indica che questi animali non solo riconoscono i membri del proprio gruppo ma li identificano anche attraverso un sistema di comunicazione complesso. È un comportamento che richiede un elevato grado di intelligenza sociale e cognitiva, e suggerisce che gli elefanti hanno una comprensione più profonda del loro ambiente sociale rispetto a quanto precedentemente ipotizzato.
Di più: la capacità degli elefanti di usare “nomi” per gli altri membri del gruppo avvicina sorprendentemente il loro comportamento comunicativo a quello degli esseri umani. In passato si riteneva che solo gli umani avessero la capacità di assegnare e utilizzare nomi specifici. E, se gli elefanti chiamano per nome sé stessi e gli altri, pensano i ricercatori, è molto probabile che abbiano una forma di linguaggio nominale come la nostra.
Prospettive future
La scoperta apre nuove prospettive per la ricerca futura. Potrebbe, ad esempio, portare a una migliore comprensione di come gli elefanti prendono decisioni di gruppo, gestiscono le relazioni sociali e navigano nel loro ambiente. Inoltre, potrebbe avere implicazioni per la conservazione degli elefanti, fornendo nuovi strumenti per monitorare e proteggere questi animali straordinari.
Arricchisce la nostra conoscenza degli elefanti e ci spinge a superare le nostre attuali concezioni sulla comunicazione e l’intelligenza nel regno animale. Chissà, in un non lontano futuro (forse con l’aiuto dell’intelligenza artificiale) riusciremo anche a decifrare il linguaggio degli animali e a comunicare direttamente con loro. Magari per chiedere scusa.