di Giovanna Capello
Cosa faremo da grandi? La bellezza della domanda che ci pone questo giovane cantautore toscano, Lucio Corsi, sta proprio nel non richiedere alcuna risposta, a saturare l’interrogativo con pretese certezze. Un interrogativo che evidentemente ci riguarda tutti, non solo da adolescenti: penso sia molto bello sentire che “neppure da vecchi sappiamo cosa faremo da grandi” – significa restituirci una quota di pensiero, di funzionamento mentale adolescente, come vi dicevo all’inizio di questa giornata di lavoro, trascorsa insieme.
Ma vorrei riportarvi alle parole e alle immagini della canzone – un insieme stravagante di suggestioni solo apparentemente semplici e un po’ naif … ma non facciamoci trarre in inganno dalla delicatezza stralunata di questo giovane artista …
Cosa succede sulla riva del mare? Lucio Corsi ci dice che avviene un baratto: le onde depositano conchiglie che lasciano agli uomini, per ricevere in cambio le orme umane, impresse sulla sabbia bagnata. Particolare è la sostanza dell’Orma: come scrive Alessandro Baricco in Oceano mare, tu pensi di lasciare un segno preciso e ordinato, ma domani la marea, generando movimento, scompiglierà tutto e lo cancellerà, in attesa del formarsi di nuove impronte, nuovi segni. Cito Baricco: “se c’è un luogo, al mondo,in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui: non è più terra, non è ancora mare. E’ tempo. Tempo che passa. E basta.” (Oceano mare, A.Baricco, 1993) Credo che questa sia una toccante definizione del movimento adolescente, che scompiglia assetti precedenti, generando – certo – incertezza, ma aprendo a possibili, infinite opportunità future. In linea con questo, l’ironica interpretazione dell’Orma, di Erri de Luca: “E’ bello non lasciare tracce immobili. Se penso che i passi dei primi astronauti sulla luna hanno lasciato orme che stanno ancora lì per mancanza di vento e di pioggia, benedico i miei che si ricoprono. La traccia indelebile dello scarpone di Armstrong è un chiodo fisso, per me: vorrei andare lassù con una scopa a cancellarla.” (Sulle tracce di Nives, E.DeLuca, 2005)
Nella capacità di muoversi, fare e disfare, aprirsi alla sorpresa (“Surprise” è il nome della chitarra pescata in mare), ritroviamo il nostro desiderio di adulti di poter ancora attingere a queste risorse dell’adolescenza, di ripescarle dentro di noi. Certo, può sopravvivere spesso una quota di invidia e rimpianto per quella cristallina arroganza, nutrita dell’incrollabile narcisismo adolescente, ma in questo momento sto pensando soprattutto alla capacità di una chitarra muta di trasformarsi in suono, perché i pescatori – gli adulti, quando si tengono troppo stretta la loro “adultità” – da soli non la sanno suonare. Bella, nel suo colore verde smeraldo, ma muta e quindi inutile: un forziere ancora necessariamente chiuso e indecifrabile, come lo sono le conchiglie. Fino a che non verrà aperto dall’incontro con il ragazzo. Solo allora la conchiglia si fa orma, segno musicale in movimento, che – come tale – può essere condiviso e generare nel ragazzo e nel pescatore – nel paziente adolescente e nel terapeuta – ulteriori trasformazioni.
Proviamo a pensare alle ultime immagini del video musicale come a una delle trasformazioni possibili che avvengono in seduta … il pescatore è diventato ora l’uomo dalle orecchie d’oro: orecchie capaci di un ascolto diverso e di accoglienza nuova per l’ospite inaspettato, dall’identità bizzarra perché in costruzione, ma un’identità colorata e potenzialmente vitale. Che ha però bisogno di qualcuno – il pescatore-terapeuta – che recuperi il suo strumento in mare, glielo restituisca e gli permetta di riprendere a suonarlo. Potrebbe dispiacere un poco identificarci nei panni del rude pescatore, dall’aria non proprio geniale … davvero dobbiamo richiedere a noi stessi una notevole tolleranza della frustrazione narcisistica, nel veder messa in discussione, dall’adolescente, la nostra identità professionale.
Ma a me piace molto immaginare di ritrovarmi trasformata da un paio di orecchie d’oro, alle prese – riprendendo le parole di Deridda, che avevo citato a inizio giornata – con un considerevole e necessario “smottamento della mia presunta identità, che era solo apparentemente rocciosa e stabile”.
L’adolescente sfida, e obbliga chi è disponibile ad accogliere la sfida a trasformarsi, dotandosi talvolta di sorprendenti e rivoluzionarie orecchie d’oro: vi ho detto che mi piace pensarmi con orecchie nuove, che sentono in modo mai immaginato prima: perché nell’incontro con l’adolescente c’è qualcosa di concreto, davvero, in quello che da più autori è stato definito come un “uso fisico dello spazio della stanza d’analisi e anche del corpo dell’analista” … insomma, un’intimità tangibile, anche se il contatto fisico è limitato o nullo. Come accade con il paziente bambino – ma anche più di quanto accada con il paziente bambino – con l’adolescente si percepisce davvero quanto tutto avvenga in presa diretta: l’odore residuo della canna fumata prima di varcare il portone, le zaffate di sudore di chi è arrivato di corsa, lo skateboard o il casco stretti fieramente al fianco, il brano musicale del momento che ti viene sparato a volume massimo in seduta, la cronaca vivida dei patimenti in atto dovuti alla prima mestruazione, gli audio e le foto instagrammate che arrivano a raffica nella stanza … tutto avviene, appunto, in tempo reale, e la stanza si riempie di suoni e odori, che sembra di toccare …
E’ in questo modo, a partire da qui, che l’adolescente scuote e scardina le nostre certezze identitarie. Quando lavoriamo con un paziente bambino, per farvi un esempio, la scatola dei giochi rappresenta uno straordinario mediatore narrativo: se la storia inventata nel gioco racconta uno scontro tra il bambino-drago-sputa- fiamme e me, che vengo chiamata a giocare la parte del vigile del fuoco, io mi sento comunque in qualche misura tutelata dal gioco rappresentato: ho tempo – poco, certo – ma comunque tempo per sognare una storia. Con il bambino ci muoviamo in un’area di gioco, in un’area di sogno che si presta a venir rinarrato. Con l’adolescente, le fiamme, il fuoco, gli estintori sono invece giocati in presa diretta, e la pelle la sentiamo scottata in corso di svolgimento dell’incontro: insomma, nessuna possibilità di giocarcela in differita. Penso a Tito, che dice alla terapeuta che la sua stanza gli ricorda la cucina della nonna; penso a Leo, che alla terapeuta dice che a Ingegneria ci sono materie inchiavabili, mentre sarebbe così bello continuare a studiare psicologia come accadeva al Liceo di Scienze Umane: ma è una materia così inutile, mentre le materie aride di Ingegneria gli apriranno una via di fuga … Ecco: una terapeuta trascinata da Tito, in un attimo, a percepirsi come nonna; e una terapeuta che con Leo si sente, contemporaneamente, desiderabile ma inservibile, per i piani di fuga …
Vorrei riportarvi, allora, le parole di Mary Brady, psicoanalista americana del Centro Psicoanalitico di S.Francisco, quando scrive: “Nell’analisi degli adolescenti, il corpo (il mio e quello del paziente) è più direttamente coinvolto che con gli adulti o con i bambini. Transfert e controtransfert erotici possono essere particolarmente carichi, data l’intensità delle sensazioni corporee emergenti nell’adolescente e data la sua normale immaturità evolutiva (…) Non è facile per l’analista parlare di sentimenti che l’adolescente forse ha appena cominciato a chiamare col loro nome. Di fatto la sessualità emergente, con i sentimenti che riattiva in noi da quei tempi lontani, non è poca cosa da metabolizzare. E tuttavia, con rare eccezioni, il campo del transfert e del controtransfert erotico nel trattamento degli adolescenti è in gran parte ignorato dalla letteratura psicoanalitica.” (“Coinvolgimenti analitici con gli adolescenti”, M.Brady, 2018)
Ricordo il caso di Brian, 12 anni – raccontato da M.Brady – quando, incontrando la sua terapeuta dopo l’interruzione per le vacanze estive, le dice, stupito: “Ma è sempre stata così bassa?” Un ragazzino, durante l’estate, può crescere anche di 20 cm., e il suo corpo, per tanti versi nuovo, porta una percezione nuova di sé e del corpo dell’analista. Corpo esposto, quest’ultimo, nel suo non essere – banalmente – cresciuto nel corso di un’estate. Ma corpo che reca il segno, e che rivive – perché lo comprende in sé – il suo essere stato, in un tempo lontano, a sua volta un corpo/psiche in metamorfosi.
Quindi, sappiamo che nell’incontro con l’adolescente noi non mettiamo in campo solo il nostro impegno e la nostra responsabilità, ma anche la rivisitazione, necessaria, della nostra pubertà e della nostra adolescenza. L’adolescente vuole sentire che noi possiamo far fronte non solo alla sua, ma soprattutto alla nostra mente adolescente mobilitata. Interessandoci a lui, siamo chiamati a rinnovare il nostro interesse per una storia che ci appartiene, e in cui torniamo a impattare, nel qui ed ora della stanza d’analisi. Allora, le orecchie d’oro che improvvisamente ci accorgiamo di possedere, non sono protesi, ma parti costitutive di noi, esattamente – come ci ha spiegato altrove Bion – costitutiva del nostro esistere adulto è la nostra mente neonata.
E sono contenta di aver parlato a lungo, avvicinandoci alla fine della nostra giornata insieme, di orecchie che aprono conchiglie e forzieri, e accettano di prestare ascolto a orme in continuo mutamento. Perché siamo partiti da un film che ci ha obbligato a contattare il deserto e l’orrore di una vita sorda e muta, che accomuna tragicamente adolescenti e adulti, mentre siamo arrivati, per fortuna – nell’ultima sequenza del video musicale – all’immagine dei pescatori che, con piacere, delicatezza e rispetto, tengono in braccia il ragazzo. Ma la chitarra rimane nelle sue mani: sua, com’è giusto che accada.