Nel delizioso libro di Valerie Perrin Cambiare l’acqua ai fiori, che è stato tra i primi posti nella classifica dei libri più letti nell’estate appena passata, viene riportata una frase iconica “La morte comincia quando nessuno può più sognare di te”. Da questa frase vorrei partire e a questa frase vorrei tornare per disegnare un viaggio a spirale che parli del sogno come via di conoscenza. Nel tratteggiare questo percorso vedremo come la psicoanalisi si sia spostata, per dirla con Ogden, da una posizione epistemologica ad una ontologica; da un’idea del conoscere dal di fuori, ad una del percepirsi nell’atto di diventare sé stessi. Ma andiamo per gradi.
“La morte comincia quando nessuno può più sognare di te”. La frase è uno tra gli epitaffi vergati sulle tombe del piccolo cimitero in Borgogna dove Violette, la protagonista del romanzo, fa la custode. La storia di Violette è quella di una donna che passa dalla morte psichica alla vita, esplorando le risonanze interiori che ogni giorno si propagano in lei abitando tra un cimitero ed un orto. Ragazza orfana, senza una esperienza di cura in cui mettere radici, si occupa di tombe e lutti altrui fino a che un uomo le insegna a dare l’acqua ai fiori e a scoprire cosa le accade nel concorrere al loro diventare quello che sono destinati ad essere. Violette aveva provato ad occuparsi della vita da sola, ma l’esperienza dell’odio e dell’invidia, avevano attaccato e distrutto questa possibilità.
L’esperienza della cura non la possiamo inventare, dobbiamo averla sperimentata per poterla offrire. Dobbiamo averla vissuta con qualcuno che è sopravvissuto alla nostra paura di essere, senza mai poter dirigere ciò che diventeremo. Solo così si può avere fede nella possibilità di sopravvivere agli agenti di morte che portiamo dentro.
Nell’imparare a prendersi cura, ella torna alla vita o, per meglio dire, conosce sé stessa come ente in costante divenire nell’atto dell’occuparsi di ciò che è vivo.
Ma quale è l’agente più potente di questo prendersi cura, oltre a quelli squisitamente materiali? Il sognare l’altro, il sognare assieme all’Altro la sua vita come processo e il suo futuro come costante divenire nella dimensione dell’imprevedibile.
Questo ingrediente sottile, invisibile e difficilmente descrivibile fa tutta la differenza. La differenza tra sopravvivere e sentire di poter diventare grandi nel processo della scoperta di sé stessi. All’inizio dell’ultimo libro di Odgen, uscito in Italia questo luglio, l’autore chiede ad un giovane paziente ricoverato in psichiatria cosa volesse fare da grande. Nel testo sottolinea quanto questa dimensione di percepirsi come dotati della possibilità di diventare sé stessi nel futuro sia fondamentale per la salute psichica.
Egli afferma, infatti, che, se manca questa protensione in avanti, non resta che il sintomo, espressione non tanto di resistenze o attacchi al legame, ma di un cortocircuito esistenziale che blocca la vita in assenza di una percezione di sé come abitato da una spinta verso il domani. Spinta che per essere percepita, richiede un testimone che attenda con trepidazione, ma senza idee prefabbricate, di scoprire cosa potremo diventare. Come dice Winnicott il nostro sé più personale è inconoscibile, ma è vitale sentire che l’altro è interessato costantemente a scoprire dove siamo nascosti, pur senza pretendere di stanarci. Questo che sembra un paradosso, è in realtà un atto d’amore disinteressato, radicato nella comprensione che il luogo dove abbiamo celato il nostro vero sé è irraggiungibile perché nel futuro.
Mentre scrivo queste parole, in contatto con la possibilità di fluire per via associativa ad opera della mente di sogno, mi raggiunge Pinocchio, che pur di essere un bambino vero, ha lasciato ogni affetto e tutta la sicurezza di casa sua, per andare alla ricerca di sé. Suo padre lo aveva disegnato perché fosse l’oggetto del suo desiderio. Da questo atto di egoismo, non poteva che venire al mondo un burattino di legno. Un essere non pensato per avere un desiderio proprio da sperimentare nel mondo, ma ordinato per rimanere a tenere compagnia ad un vecchio nello spirito, reso tale dalla rinuncia a vivere la sua vita come scoperta in prima persona. A questo carcere avrebbe condannato anche la sua creatura, se non fosse stato per quel fuoco che brucia dentro l’anima e manda in combustione l’intero sistema, se non ascoltato. E così, guidato dalla propria anima-turchina, si mette in viaggio, trovandosi ad incontrare tutti i suoi aspetti interiori: il terrorizzante e sadico Mangiafuoco, gli aspetti felini pronti a prostituirsi per ottenere dolcezza immediata e quelli claustrali rappresentati dal ventre della balena, in cui si può sopravvivere per sempre, senza però venire mai al mondo. La fine della storia è la possibilità di un’ incarnazione più profonda nel sentire del corpo, dove giace la bussola del nostro desiderio. Perché avvenga questo radicamento non basta essere stati partoriti, bisogna collaborare attivamente alla nostra nascita e prendersi dei rischi per cui si sia disposti a pagare di tasca propria.
“La morte comincia quando nessuno può più sognare di te“. Ma cosa significa “sognare” in questo contesto? Significa disporre la propria mente a ricevere l’altro senza voler agire su di lui in alcun modo; senza volerlo guidare, cambiare, farlo ragionare e neppure migliorarlo. Solo stare in presenza della presenza altrui e sentire cosa accade dentro lasciando andare la mente che vuole qualcosa da questo incontro. Accade che sorgono delle immagini, accade che si entra in uno spazio acquatico e misterioso assieme con l’altro. Uno spazio immaginale. Lo spazio del cuore, come direbbe Hillman. In questo luogo sottili energie tessono trame visionarie, che sospingono l’essere verso il suo potenziale di esplicitazione.
Sognare l’Altro con l’altro significa essere senza memoria e desiderio. Senza attaccamento a ciò che abbiamo sempre creduto di essere e senza il desiderio di un tornaconto per l’Io nell’offrire noi stessi al mondo. In Oriente si dice che il saggio va verso la sua meta senza intenzione. Solo così si è puri a sufficienza per incontrare il Sogno. Se siamo troppo pre-occupati di andare bene, non potremo procedere. Se siamo nello sforzo di non fare errori, resteremo sulla soglia. Se abbiamo paura di essere nessuno, non potremo diventare noi.
Questo luogo intermedio tra sé e l’altro, questo spazio lunare, misterioso e segreto, è un luogo che non può essere descritto, solo esperienziato come motore del divenire. È il luogo delle trasformazioni in O di Bion. Solo una mente innamorata, una mente estatica, immemore di sé, può varcare le soglie di questo santuario interiore.
“La morte comincia quando nessuno può più sognare di te”. Questo luogo segreto è uno spazio dove si accede solo se invitati da un altro. Per quanto si sia abili viaggiatori e coraggiosi naviganti dei propri mari interiori, non si varca quella soglia se non per tramite di un atto d’amore disinteressato, offerto gratuitamente.
Per diventare quell’Altro che ci abita, un altro ci deve aprire la porta del luogo sacro dove la metamorfosi accade. Per diventare noi stessi, dobbiamo perderci in luoghi non nostri, senza una mappa certa e punti segnati su di essa. Lo sa bene Ulisse che per tornare a casa, deve perdere la via molte volte e dimenticarsi di sé e del proprio proposito in più di un incontro. In una tra le molte prove che deve affrontare si troverà di fronte a Polifemo, magnifica icona dello sguardo dotato di un’unica prospettiva; il mostro con un solo occhio rappresenta, infatti, la visione che diventa monodimensionale quando è impoverita della mente di controllo portata a gestire solo ciò che già conosce, chiusa alla dialettica dei punti di vista e spaventata dall’ignoto. Il triste esito dell’attivarsi di questa limitazione nella prospettiva è che ciò che si incontra non che potrà che essere predato, intrappolato nelle proprie caverne e divorato in solitudine, senza che sia mai possibile un incontro trasformativo. Ulisse per sfuggire a tale attitudine interiore, dovrà accecare questo occhio e rimettersi in viaggio. Quando Polifemo chiederà al suo tormentatore quale sia il nome di colui che ha compiuto il misfatto, lui risponderà “Nessuno”. Perché il segreto del trovarsi è il perdersi a quello che già sappiamo di essere, per diventare quello che ancora non possiamo sapere di poter diventare. Nessuno può fare questo da solo. Ci sono pensieri, o meglio sogni, che si possono sognare solo in due. Sogni di viaggi e di scoperte, dove raggiungere la meta è meno importante di scoprire sé stessi negli incontri che si vanno facendo, sempre dimenticando ciò che eravamo, per dare spazio a quello che stiamo diventando nell’incontro con l’esperienza attimo dopo attimo.
Il lavoro dell’analista è dunque, in questa ottica, quello di offrire le condizioni per accedere a questo stato a confini allentati, dove possa essere sperimentata la sensazione di vitalità. Solo così, infatti, è possibile sganciarsi dalla ricerca del piacere immediato e dalla fuga reattiva al dolore come uniche possibilità di manovra e percepire che esiste qualcosa che vale di più del non essere perturbati ed è il sentire di esistere con un senso. L’operare dell’analista sarà, in prima battuta, una testimonianza in vivo del fatto che tale postura sognante non porta alla follia. In seguito, e per tutto il tempo, si occuperà di tenere aperta questa possibilità, intercettando tutte le difese messe in atto dalla mente di controllo che aborre l’idea di navigare a vista, senza mai poter essere certa di essere attrezzata a sufficienza per quello che sta per accadere.
È importante sapere che per via della logica antinomica che ci abita -il sé da una parte e l’io dall’altra-, non ci è dato di vivere una vita tranquilla e sentire di essere vivi nello stesso tempo. Ad ognuno di noi viene chiesta una scelta di campo: fare della nostra vita un’avventura alla scoperta di sé, oppure vivere nell’illusione del poter minimizzare le occasioni di fatica emotiva. Credo che se non abbiamo visto con i nostri occhi e percepito con il nostro cuore qualcuno per cui non vi è dubbio sia valsa la pena investire tutta la propria esistenza nel tentativo di essere vivi, non possa sorgere in noi l’ardire di fare altrettanto. La strada del senso è una via radicale, per cuori coraggiosi: cuori che sanno stare in agio nel mistero di ciò che siamo.
Per tornare all’incipit del testo, riporto il pensiero di Ogden che descrive il profondo cambiamento di paradigma che è intervenuto nella psicoanalisi a partire da Winnicott e maturato con Bion: quello del passare da una psicoanalisi epistemologica ad una ontologica. L’idea che guida il sentire della psicoanalisi contemporanea è, infatti, che il terapeuta non sia tanto attivo nel cogliere forme pensiero già costituite e riposte in qualche luogo della mente inconscia del suo paziente, ma operante nel creare le condizioni che rendano l’incontro con l’altro un luogo di co-creazione. In questo spazio intermedio, si può fare dell’esistenza un oggetto-soggettivo, ovvero una sequenza di attimi di senso dove si può sentire il significato personale che hanno gli eventi percepiti come chiavi per dispiegare ciò che siamo. Come nel Piccolo Principe, si scopre infatti che la propria rosa, uguale a tutte le altre rose, è per noi unica nella misura in cui ci siamo presi cura di lei e nel farlo abbiamo scoperto che esisteva il vento, i baobab, la vanità, la paura, gli artigli, la solitudine, il desiderio di scoprire. Per il piccolo viaggiatore interstellare l’epilogo non è stato felice. Speriamo che per quei figli delle stelle caduti nei nostri studi a mille miglia da qualsiasi abitazione umana e che chiamiamo pazienti perché a loro è richiesta una scelta di passione, sia possibile incontrare un terapeuta che sappia sognare di boa e di elefanti, di pecore nelle scatole, di rose e di baobab, e che non si interessi di geografia, che è molto utile quando si sorvola la terra per capire dove sganciare una bomba, ma meno se ci si domanda il perché valga la pena restare, invece che tornarsene sul proprio pianeta, oppure inabissarsi nel mare.
Non è un caso che abbia citato favole e miti nel parlare di sogno: essi condividono lo stesso linguaggio, lo stesso modo insaturo ed evocativo di chiamare il profondo sé in superficie a dialogare con gli eventi. L’analista altro non è che un cantastorie, un cantador, che sa tessere la via per entrare in questo reame magico in cui nulla è mai davvero accaduto, ma in cui in tutto ciò che incontriamo ci rende più reali. Provare a sciogliere questo paradosso significa perdere il bandolo della matassa e aggrovigliare il filo. La sintesi a cui punta la tensione tra questi opposti va percepita, intuita e sognata. Detto in altri termini, non può essere capita. Il capire (dal latino capio che vuole dire “afferrare”) uccide gli spiriti di questi luoghi, che, come le fate nel mondo di Peter Pan, muoiono tutte le volte che un bambino dice di non credere in loro perché non le ha mai viste.
Questo testo si intitola “il sogno come via di conoscenza”. Sognare quindi come stato della mente che rende possibile conoscere sé stessi come processi in divenire nell’incontro con l’altro, percependo il mondo come un trovato-creato, ovvero come qualcosa di personale e nello stesso tempo mai riducibile a ciò che già conosciamo.