Rubrica a cura di Fabio Lupis
<< I miei libri somigliano più ad opere di immaginazione che a trattati di patologia>> – S.Freud
Il sostanziale legame fra linguaggio, psicanalisi e letteratura è da sempre qualcosa di ben noto, quasi una reazione chimica, naturale, fra tre domini dell’Umano che sembrano nascere dalla stessa necessità : quella di raccontare, interpretare e sognare la propria storia, la storia degli altri e la storia del mondo. Fu Borges, in fondo, a definire la letteratura come “nient’altro che un sogno guidato ( “un rêve guidé” ) e si sprecano, a partire dalla prima metà del Novecento, gli esempi di autori che hanno fatto della psicanalisi, della psicoterapia e del celebre lettino un protagonista diretto e indiretto delle loro opere.
La psicanalisi è detta la “terapia della parola”, a sottintendere l’affermazione che, in fondo, le parole sono vive, concrete, importanti. Le parole curano e parlare è una forma di guarigione.
Letteratura, linguaggio e psicoterapia offrono saperi fra loro prossimi: se vogliamo pensare che la teoria psicanalitica sia una riformulazione di concetti già esistenti nell’essere umano fin dalla prima scintilla di coscienza, e che gli uomini fra di loro abbiano sempre parlato, possiamo anche affermare che quegli stessi processi un tempo descritti da poeti, filosofi e cantori non siano così diversi da ciò che il rigore della tecnica psicoterapeutica oggi cerca di portare alla luce con un linguaggio diverso e diversi strumenti.
Questa rubrica segue questo particolare filo rosso, allo scopo di confrontare, partendo da una parola specifica, aspetti teorici di clinici classici e moderni con l’infinita fonte di spunti che opere scritte da tutto il mondo possono fornici su chi siamo e su come funzioniamo. Non vi è qui pretesa di portare avanti analisi del testo approfondite, o di fare critica letteraria, né di fingersi linguisti: l’intento è quello di giocare. Cercheremo di giocare, appunto, con le parole, che sono ciò che dà forma alle idee, confrontandole con la realtà( “parola” viene dal greco παραβολή, similitudine, comparazione), perché forse proprio lasciandoci attraversare da quelle parole che ci colpiscono possiamo leggere anche un po’ di noi stessi, trovare un nuovo modo per dire qualcosa di noi che già sapevamo, ma senza saperlo.