di Irene Malaspina
Nell’introdurre l’intervento della dottoressa Argentieri, ho pensato di iniziare aiutando l’auditorium a familiarizzarsi con il suo pensiero. Compito non facile davvero in questo caso, in quanto la produzione scientifica della dottoressa è molto estesa e variegata, e conduce, di problematizzazione in chiarificazione, ad allargare gli orizzonti del nostro pensiero su temi che dalla clinica aprono il loro potenziale di riflessione ai fatti della vita di tutti i giorni. In questa esplorazione sono stata favorita, oltre che dalla lettura dei suoi libri, anche dall’avere potuto frequentare molti interventi e seminari, tenuti presso la nostra sede di formazione genovese, a cui la dottoressa è legata ormai da molti anni, da un vicolo di stima e di affetto, che oso dichiarare reciproco.
L’indagine sui fenomeni legati al pregiudizio, si inserisce a mio avviso, nella riflessione da lei portata avanti da tempo, sui temi della ambiguità e della malafede. In particolar modo mi sembra gravido di spunti di riflessione per la tematica in oggetto il suo testo dal titolo “Ambiguità”. La tesi centrale del libro, per come io l’ho intesa, parte dalla constatazione di come tutto il percorso di sviluppo della psiche si articoli attraverso l’espansione di una sempre maggiore capacità di stare in rapporto con l’altro. Questo richiamo alla relazione è proprio di tutti gli esseri umani e ci accompagna dalla nascita fino alla morte, con un analogo gradiente di problematicità. Infatti, se da una parte siamo spinti ad avvicinarci all’altro per sentirci meno soli, dall’altro incontrarlo davvero significa scoprire che chi ci sta difronte non siamo noi, e che quindi, nella nostra separatezza, potremmo davvero rimanere soli. Scopriamo, che, per così dire, la cura che cerchiamo per la nostra solitudine, ci espone a renderci conto della profondità e ubiquitarietà della stessa. Stare in relazione significa, infatti, scoprire che l’altro non solo non lo possiamo controllare, ma neppure metterlo al riparo da ciò che accade e che, quindi, di fatto, potremmo in ogni momento perderlo; scopriamo che la vita non ci appartiene, ma che siamo noi ad appartenere a lei; scopriamo che l’altro può morire e anche noi……Cito da un testo di Fassbinder un passaggio così incisivo, da risultare quasi tagliente: “il prerequisito per poter amare senza dominare l’altro è che il tuo corpo impari, dal momento in cui abbandona il ventre della madre, che può morire. Quando si accetta che la morte è parte della vita, non la si teme più e non si ha più paura di qualsiasi altra “fine”; ma fino a che si vive con la paura della morte, si reagisce in modo identico, rispetto alla possibile fine di ogni relazione e, come risultato, l’amore che pure esiste, viene pervertito”.
Dunque, essere in relazione ci salva nel vero senso della parola, ma ci espone anche al confronto con i nostri limiti, primo fra tutti, la nostra mortalità. In vero, questo contatto è così duro da elaborare, che, si rifrange nella responsabilità di fare i conti con tutte le sfaccettature delle differenze possibili, ognuna vissuta come un piccolo pezzo di uno stesso puzzle il cui disegno non si mostra mai per intero. Se da una parte questo diluisce l’impatto della consapevolezza della condizione di base con cui veniamo al mondo, dall’altra, quando questa elaborazione non riesce, ogni scarto con l’altro diventa tanto più odioso quanto più si cerca di fuggire da questa presa di coscienza. La difesa da questo contatto è ritornare a quel funzionamento mentale originario, in cui i confini tra sé e l’altro non si erano ancora stabiliti e ci si poteva illudere che ciò di cui si aveva bisogno potesse materializzarsi senza soluzione di continuità e tensione alcuna. Poco da stupirsi se una mente che si sforza di mantenere viva questa illusione, si senta minacciata dall’evidenza del contrario. Quando questo accade, tutto ciò che a costo di gravi alterazioni di pensiero potrà essere assimilato al sé, viene schiacciato ai poli della diversità, e il resto, in modo particolare ciò che viene da troppo lontano perché possa essere oscurato sotto il velo della confusione, viene investito dell’odio che la vita con il suo portato di imprevedibilità suscita.
In questa ottica il pregiudizio sarebbe il frutto di una distorsione cognitiva e affettiva in cui la necessità di eludere il dolore, porta la psiche a regredire ad un livello primitivo di funzionamento in cui vengono esaltate le similitudini tra il sé e i membri dei propri gruppi di appartenenza e nel contempo vengono ingigantite le diversità con i membri degli altri gruppi, che verranno investiti di affetti potenti sotto il segno della aggressività e del terrore.
Se accettiamo questo modo di guardare le cose come utile ad entrare nella comprensione del fenomeno, appare chiaro che parlare di lotta per l’uguaglianza sia ovvio sul piano giuridico, ma assai meno lineare su quello psicologico, poiché, come ho cercato di argomentare, la vera sfida per la mente non è riconoscere le similitudini, ma accettare le differenze. Essere grandi e goderne la libertà di scelta, significa per esempio accettare di perdere i privilegi che l’essere piccolo comporta, essere femmine, significa riconoscere e valorizzare la possibilità di fare esplorazioni in parte differenti da quelle che possono fare i maschi; venire da un certo luogo geografico significa scoprire che chi usa un altro linguaggio può mettere in forma pensieri su stati del sé inaccessibili a coloro i quali sono impregnati da un altra cultura. Se da una parte, dunque, è indubbio che questi scarti suscitino tensione, dall’altra, in una mente che li sa abitare, creano quel gradiente differenziale che mette in moto il pensiero, fino a stanare i presupposti impliciti che sono le macchie cieche del nostro sviluppo mentale.
Pre-giudizio inteso, allora, come un giudizio anticipato, pass-partout e difensivo rispetto alla possibilità di trarre una visione intuitiva da un’esperienza, quando essere ciò che siamo è sentito come troppo doloroso dalla mente. Mi viene in mente il titolo di uno dei più famosi testi di Bion, “Apprendere dall’ esperienza”, in cui viene indagato a fondo quanto sia difficile lasciare che davvero il mondo ci informi di sé attraverso la partecipazione viva al reale, senza cedere alla tentazione di sovraimporre a ciò che incontriamo mappe di de-codifica semplificate ed iper-inclusive per ridurre la fatica di pensare.
Se, quindi, questo pre-giudicare è la cifra di quanto sia possibile limitare e distorcere la qualità della presenza mentale, possiamo, con un cambio di vertice a centottanta gradi, vedere quale sia, invece, il potenziale d’uso della mente nei territori che stanno “prima della necessità di giudicare”, e, cioè, quando è ancora possibile non dover circoscrivere ciò che stiamo vivendo ad una presa di posizione -ad un giudizio appunto-, che guidi il nostro agire in una situazione data.
Questo cambio di vertice, mi permette di creare un collegamento tra ambiguo e ambiguità, per allargare il discorso e riportare la questione in seno all’ambito della nostra specificità professionale.
Se, infatti, è evidente che io sposi con convinzione l’idea che il pregiudizio sia il risultato di operazioni difensive della mente, che utilizzano la regressione all’ambiguo e all’indifferenziato come difesa dalla angoscia e dal dolore che ci procura l’incontro con l’altro; nello stesso tempo, in quanto clinica, utilizzo giornalmente l’ambiguità offerta dalla lingua, come strumento per sviluppare la mente. Come nella poesia e nell’arte, infatti, nella stanza di analisi la parola è usata meno spesso per definire e circoscrivere, di quanto non lo sia per evocare ed alludere, sfruttando la polisemia del linguaggio per allargare il senso soggettivo di ciò che viene vissuto, attraverso l’uso e lo sviluppo del pensiero immaginale.
Allora la domanda che ci possiamo porre è: in che condizioni l’ambiguità può essere considerata una risorsa e quando invece gli è propria solo una seduzione venefica e sedativa?
Per rispondere a questa domanda può essere interessante addentrarsi un poco in ciò che accade nella stanza di analisi, poiché le condizioni uniche ed irripetibili in cui paziente ed analista si incontrano, favoriscono l’esplorazione delle condizioni psichiche necessarie a conoscere l’altro nel rispetto dalla sua unicità. In tale contesto, infatti, attraverso due presupposti forti, assolutamente specifici e in qualche modo anche paradossali, si evita il rischio di quella perversione d’uso di cui parlava Fassbinder, imparando, così, in una esperienza incarnata, come stare in relazione in modo affettivo.
Il primo presupposto è che la relazione tra paziente e analista avviene ad un livello di intimità massimo, ma che nello stesso tempo lascia entrambi soli ad incontrare il mondo fuori dallo studio. Nella stanza di analisi, infatti, ci si trova ad mettersi in relazione con l’altro più profondamente di quanto sia possibile fare in qualsiasi altro contesto, con la consapevolezza condivisa che questo però non allevierà la solitudine di nessuno dei due, poiché, malgrado l’analista incontri il suo paziente per molti anni più volte la settimana, non assumerà mai un ruolo attivo nella sua vita reale: né quello di genitore, né quello di compagno, né quello di amico. Lo spazio di analisi, dunque, non garantendo mai la soddisfazione completa di nessun desiderio, permette l’accesso ad uno spazio intermedio tra sé e l’altro che rimane teso per tutto il tempo della cura tra la promessa della soddisfazione e l’impossibilità di realizzarla. Ed è proprio in questo spazio di forzata de-presa, che è possibile, partendo dalla ripetizioni ed elaborazione dei pattner di comportamento e rappresentazione disfunzionali, orientarsi verso una capacità sempre maggiore di stare nel mondo come processi in divenire, capaci di godere della partecipazione attiva e consapevole alla realtà di ogni singolo istante.
Per capire cosa significa questo, dobbiamo indagare il secondo presupposto forte che sta a monte della relazione analitica, che, strettamente interrelato al primo, ne costituisce il potenziale di cura: ovvero che nello spazio di analisi non ci si incontra per trovare la soluzione a qualche problema, ma solo per sviluppare consapevolezza circa ciò che siamo. Quello che chiediamo a noi e ai nostri pazienti, infatti, è di non preoccuparsi di fare alcunché, o di dire nulla di utile o sensato, di non concentrarsi su niente in particolare, ma di imparare a vagabondare assieme a noi sulle onde di risonanza che ciò che accade suscita istante per istante. Ben consapevole che questo non è quello che il paziente desidera o si aspetta quando giunge fino a noi gravato dal peso di un qualche problema, si scopre assieme negli anni che, quando ci si permette di allentare la presa sulla necessità di capire subito e capire in fretta, si impara a godere della quota in cui essere “esseri consapevoli” risulta davvero appassionante, ovvero il poter stare in nostra presenza come processi mentre accadiamo. Nella stanza di analisi, infatti, non avendo l’onere di dover fare nulla e non dovendo prendere nessuna decisione immediata, possiamo sollevarci dal compito di giudicare, di prendere una posizione, di sapere dove collocarci per poter intervenire efficacemente su qualche evento. Ed questo privilegio, dovuto ai presupposti dell’incontro, che ci permette di godere del contatto con la coscienza nel suo stato aurorale. Scopriamo così che la nostra mente profonda parla per immagini, ha una saggezza innata e si relaziona a noi per mezzo di reverie poetiche a volte di struggente bellezza. Impariamo a giocare con le parole e con le immagini, a sfruttare la polisemia della lingua, a parlare per allusione, a danzare intorno ai paradossi, ad aprirci ai territori dell’arte e della spiritualità, orientando l’essere verso il pieno sviluppo del potenziale umano. Significa mostrare a noi stessi e ai nostri pazienti che lavorare per tollerare la fatica del dubbio e dell’incertezza, fare lo sforzo di stare con le nostre ambivalenze abitando la sospensione del giudizio fino alla comparsa della intuizione, porta con sé un grande premio. Infatti questa capacità non solo ci permette di evitare di diventare violenti con l’altro, ma in vero ci apre alla bellezza che portiamo dentro e per suo tramite a quella del mondo.
Fare un viaggio analitico significa dunque lasciare che la mente si articoli e che si nutra in un luogo protetto. Significa fare crescere le condizioni in cui reggere l’impatto con la realtà, riducendo il rischio di ricorrere a massicce operazioni difensive, che decurtano, impoverendolo, il mondo che possiamo abitare. Significa fare una fatica assieme per il beneficio di entrambi.
Poi il paziente il mondo lo incontrerà fuori dalla stanza di analisi e noi non saremo con lui. Non potremmo consolarlo, né accudirlo e tanto meno proteggerlo dai colpi della sorte. Si muoverà tra ruoli e compiti in condizioni molto diverse da quelle che ha incontrato in nostra presenza. Lo farà secondo le sue inclinazioni e le sue particolarità. Lo farà in un modo che il suo analista non potrà mai davvero conoscere, né sostenere fino in fondo. La responsabilità di stare nel mondo come soggetti agenti, oltre che pensanti, spetta a ciascuno di noi e in questo noi analisti siamo alle prese con le fatiche e con i rischi di tutti gli altri.
Concludo tornando un momento al titolo che ho scelto per questo intervento in cui ho pittografato il “pre-giudizio” come un crinale che nello stesso tempo, mette in comunicazione e separa, due versanti:
su un fronte, laddove sia possibile sopportare la tensione di non sapere, senza cedere troppo in fretta e troppo massicciamente al bisogno di afferrare persone e concetti per capire e controllare, è possibile accedere all’affettività, all’arte e alla spiritualità
sull’altro, quando si rifugge dalla possibilità di incontrare i nostri simili e per loro tramite anche noi stessi, si cede alla violenza e si perde la possibilità di fare esperienza viva di essere “esseri umani”.
Lascio ora la parola alla dottoressa Argentieri con una poesia di Silvia Bre, che evoca con quella combinazione di potenza e leggerezza che è la sua cifra caratteristica, la sfida che ci appartiene come specie: quella di abitare questo crinale, istante dopo istante, non solo con responsabilità piena, con anche passione ad amore.
Se il nostro luogo è dove
il silenzioso guardarsi delle cose
ha bisogno di noi
dire non è sapere, è l’altra via,
tutta fatale, d’essere.
Questa la geografia.
Si sta così nel mondo
pensosi avventurieri dell’umano,
si è la forma
che si forma ciecamente
nel suo dire si sé
per vocazione.
Grazie