La mente tra affettività e alienazione. La soluzione psicoterapeutica. di Laura Grignola

di Laura Grignola

Al metodo psicoanalitico si associa sempre il concetto di pericolosità. Perché?
La rimozione –a mezza strada tra fisiologia e patologia- è una delle difese più utilizzate. Non pensare le cose fino in fondo, è questo che desideriamo. Sprofondare in un vortice di inconsapevolezza è l’ideale di ciascuno, dritto verso una fantasia di reinfetazione che annulla la volontà ed esaspera l’onnipotenza. Oppure un’evacuazione di pensieri e parole – che si tratti di luoghi comuni o di teorie scientifiche – che parlino intorno alle cose e ai fatti e non delle cose o dei fatti, i quali sono sempre intrisi di sentimento, gravati di fantasia, di desiderio, di emozione.
Ed è questo sentimento che vogliamo rimuovere.
Avere il coraggio di avvicinarsi al discorso della malattia mentale, sfiorare le radici del sapere psicologico, significa paura. Paura di non farcela, paura di ciò che non si conosce, paura di quella che è la più grande tentazione dell’essere umano, cioè lasciarsi andare e non pensare, non riflettere, smettere di essere al centro della propria mente, smettere di gestire i propri pensieri, smettere di organizzare conoscenza, smettere di produrre conoscenza, abbandonarsi all’azione, impazzire!
Impazzire. Lavorare ad uncinetto sulla propria mente, raccogliere pazientemente ogni filo di senso e deviarlo dal suo corso, e poi riprenderlo conducendolo abilmente ad intrecciarsi, a complessizzarsi, a raccogliersi in mille forme e disegni, e poi dargli un nuovo corso ancora, una nuova direzione, un nuovo disegno. Ma quel filo di senso che si dipana lentamente, che cerca nuove vie sinaptiche, che si allontana sempre più da quell’ input cenestesico da cui era partito, ora plasmato, ora cesellato, ora irretito in forme sofisticate o in grovigli sfilacciati e tortuosi, produce conoscenza o cammina a rovescio preceduto da un segno meno? Ci illumina o si insinua velenoso sotto il livello della coscienza a produrre immagini diaboliche e distorte?
È questo il dubbio amletico, l’essere o il non essere di ciascuno di noi. Ci muoviamo nella scienza o ci agitiamo inutilmente in una dimensione di follia? Diaballo. Le nostre parole ci raccontano, ci interpretano o sono specchi deformanti che producono mostri inquietanti? Sono simboli o diaboli?
La saggezza popolare, l’ironia, le barzellette, le storielle sagaci, i modi di dire (sei matto?), i gulag dei regimi totalitari, ci parlano da sempre di questo tarlo dell’essere umano. Chi siamo? Siamo folli o saggi e illuminati? Da questo dubbio intollerabile l’essere umano prende rapidamente le distanze. Basta semplificare la complessità del reale, basta avvilupparsi in slogan facili e assertivi. Politica, scienza, arte … tutti cedono alla tentazione delle ontologiche certezze … Ma tutte queste certezze, questa incontenibile voglia di certezze è solo la reazione al dubbio che pesa su di noi, al dubbio che incombe e ci schiaccia. Il dubbio che tutte le nostre mirabili costruzioni e il nostro sapere poggino tutti su un vuoto di senso. E chi si occupa della mente è condannato ad un percorso che costeggia la kantiana isola della razionalità e è lambito in ogni momento dalle acque oscure ed infide del divenire.
Ma quindi qual è la cura per questo dubbio che annienta? Come smettere di sfogliare compulsivamente la margherita dell’incertezza?
L’Altro potrebbe essere la soluzione. Quell’Altro da cui siamo nati, quell’Altro che c’è sempre stato, quell’Altro in cui affondano le nostre radici, quell’Altro che ci ha nutrito e accudito, quell’Altro che ci ha rispecchiato, che ci ha interpretato, che ci ha presentificato. Lo sguardo dell’Altro potrebbe fondare la nostra esistenza, la nostra identità. Lo sguardo dell’Altro potrebbe farci esistere e potrebbe rispondere finalmente al quesito circa il nostro stato mentale.
Ma anche qui le cose si complicano. Lo sguardo dell’Altro non è privo di insidie. Può fondare oppure può giudicare, può distruggere con la stessa intensità di un’orribile medusa. Nella misura in cui l’Altro ci può rassicurare, l’Altro ci può anche fagocitare, ci può rendere dipendenti e tenere in sua balìa.
La nuova paura è che il mondo dell’Altro sia un precipizio di vertigine inabitabile, che l’Altro possa entrare nel nostro mondo con la violenza di un uragano a distruggere tutte le idee, tutti i pensieri, le certezze, le convinzioni, di cui siamo fatti dentro. E così ci abituiamo al ritmo sincopato della nostra ambivalenza tra il prenderci per mano e il respingerci per allontanare la tentazione della dipendenza. Qualsiasi proposito è inutile. Il ritmo sincopato è il ritmo a cui siamo “destinati dal nostro destino” di una mente capace di accendersi fino ad illuminare l’infinito ma che è costretta a spegnersi subito dopo per un limite assegnato di energia vitale.
Ma se quindi l’essere umano nella sua ineliminabile oscillazione tra autonomia e dipendenza non riesce a trovare una risposta al suo inquietante quesito fondamentale circa la propria sanità o la propria follia e non può quindi fidarsi né di sé né dell’altro, quale può essere la soluzione?
In realtà la soluzione sta sempre nella riflessione, in una ricerca che non collassi sul pregiudizio o sul già noto, che si spinga oltre le Colonne D’Ercole, nei climi rarefatti del noumeno, lungo la linea perfetta della propria ontogenesi, che tenga conto di tutto ciò che è in grado di vedere oggi e che sarà in grado di vedere domani alla luce di un passato che trafigge il tempo dell’essere e delle generazioni.
Una ricerca che tenga conto di tutto ciò che c’è nel piatto: della paura, della dipendenza, dell’onnipotenza, della rabbia, del disprezzo, della sottomissione, della negazione, della colpa, della distanza che ci separa dalla nostra immagine ideale, del fatto che l’Altro non può fondarci e nemmeno annientarci, di tutto il bene e di tutto il male che incontriamo in ogni nano secondo del nostro tempo.
Di una ricerca che non si stanchi mai di avvicendarsi su e giù lungo il filo di senso da cui è partita, che non si stanchi mai di ripercorrere le sue stesse configurazioni intellettuali, alla conquista di quei pochi coinemi che stanno alla base del desiderio e che muovono l’ esistere.
Ci sono persone che non solo questa fatica devono farla per sé, ma scelgono anche di aiutare gli altri a cimentarsi in analoga impresa attraverso una relazione terapeutica complessa che inevitabilmente cavalca sia le forze distruttive rispetto al legame, sia le spinte verso l’integrazione che attraversano l’essere umano.
La mente, un embrione ancora interamente indifferenziato ma già potenzialmente delineato, può essere raggiunto dal pensiero che come una radiografia riesce ad interpretarlo prima ancora che si sia dispiegato. Il lavoro terapeutico può accogliere giorno dopo giorno parti del Sé indifferenziate, come potrebbe fare un Io paziente, provocando il lento dispiegarsi delle sue potenzialità fino all’interezza del suo sviluppo.
Quando l’embrione è ancora un embrione non vuole essere raggiunto da qualsivoglia emozione perché nella sua indifferenziazione non è in grado di gestirla. Cercherà di deviarla, di evacuarla fuori di sé. Ma se un’altra mente arriverà a pensarlo e a riconoscerlo nella sua fragilità, nella sua impotenza e nella sua forza prospettica, l’embrione si trasformerà in un apparato per pensare un pensiero autenticamente emotivo.
Nello scandagliare quell’embrione informe per ricavarne dati per la decodifica il rischio è comunque quello di essere respinti con la violenza di uno tzunami o anche ignorati e non visti in senso assoluto.
A volte le parole comuni non bastano, l’ordine abituale del discorso non raggiunge la profondità necessaria. Per rappresentarci il mondo indifferenziato e primitivo di questo embrione, per capirne il funzionamento e intercettarlo in qualche modo può essere necessario fare ricorso a modelli concettuali propri di altri ambiti conoscitivi come la fisiologia delle sensazioni, la biologia degli organismi, la fisica, i modelli matematici o delle geometrie non euclidee, ecc. … Oppure dobbiamo metterci in ascolto, cogliere la configurazione della sua comunicazione, dedurre i registri di linguaggio usati e rispondere utilizzando registri analoghi.
Tutto ciò non è semplice, richiede pazienza infinita, richiede intelligenza ma soprattutto creatività.
Si preferisce quindi semplificare la complessità dell’approccio terapeutico rifugiandosi nel porto sicuro delle tecniche, delle prescrizioni; si preferisce pensare all’ineluttabilità della patologia piuttosto che pensare che ciascun paziente ha bisogno che il proprio terapeuta abbia il coraggio di battere insieme a lui un sentiero in parte inesplorato. Di fronte alla gravosità del compito al giorno d’oggi ci si rifugia dietro alle etiologie organiche e si confonde la mente con il cervello, due realtà certamente isomorfiche, ma anche con influenze reciproche (come dimostrano gli studi neurofisiologici) e non semplicemente unidirezionali.
Per semplificare le difficoltà dell’approccio terapeutico e della formazione, si pensa alla malattia mentale come ad una patologia che deve essere considerata senza speranza, cronica e irrisolvibile. A questo punto non occorrono più terapeuti, non si formano più terapeuti ma badanti. O come dice Simona Argentieri, tra poco non ci sarà più nessuno in grado di curare la malattia mentale.
In conclusione non dimentichiamo che ciò che è richiesto ad un terapeuta è un insight che trascenda la relazione con un particolare paziente, che può andare a riguardare problemi irrisolti del terapeuta, come problemi più ampi nel campo dell’arte, della letteratura, del sociale. E’ richiesto una sorta di atto contemplativo, fatto di amore, passione metafisica e attenzione scientifica. Ed è richiesto infine quel riconoscimento di Sé e dell’Altro che è comunque immanente a qualsiasi relazione, anche a quelle affettive e alle relazioni d’amore.
Purtroppo la tendenza sociale attuale (ministeriale) è quella di optare per la genesi organica del disturbo psichico con un’ovvia ricaduta sulle scelte terapeutiche (farmacologica, anche per i bambini) e sulle scelte formative (l’eclissi della necessità del riconoscimento di sé [analisi individuale] e il riconoscimento dell’Altro standardizzato nella proposta di semplici griglie interpretative). E quindi la scelta è per gli psicologi badanti.
Del resto anche per quel che concerne le relazioni in generale e le relazioni d’amore in particolare la tendenza non è certo la coscienza di Sé e il paziente riconoscimento dell’altro, ma la dimensione -narcisistica e masochistica insieme- dell’affermazione di Sè ad ogni costo quale schermo all’angoscia esistenziale del vuoto e dell’indifferenziato e la conseguente perdita del desiderio e della tensione verso l’altro.
Freud disse che la psicoanalisi in fondo era una terapia attraverso l’amore. Il rischio è quello di un futuro senza psicoterapeuti, senza desiderio e senza capacità affettiva.

Eccovi
bambini cattivi
eccovi accucciati qui
sul pavimento a schegge della scuola
come giovani belve
con gli occhi inflessibili
e il corpo che scatta
pronto
a ogni scricchiolio
eccovi
a spaccare le uova
di uccello piccolo
per non accarezzare l’infinito,
per sbirciare
che dentro non c’è
che il vuoto
e prenderlo a pugni
fracassarlo il vuoto
raggirato
proibito
a voi così pieni
sazi così inzuppati.
Eccolo
caro vuoto
lampante e insensato
passiamocelo da mano
a mano stringiamolo
cospirando con il sudore,
si chiama io si chiama
tu, ci chiama ad un appello
senza cognomi
e non ha metafore
ma scrive una poesia gigante
una testa lanciata a 200 all’ora
in avanti
in avanti
verso il non conosciuto
a dorso di asino
e di matita:
” La poesia è conoscenza e passione”
ha detto uno di voi
uno di otto anni.

(Chandra Livia Candiani)