di Carlo Sini, filosofo
Il primo tu sono io. A un certo punto infatti mi do del tu. Dico per esempio a me stesso qualcosa come: “Non se ne danno per intesi, ma tu continua a strillare e vedrai che anche questa volta qualcosa accade”.
E così l’io e il tu nascono insieme, sostanzialmente perché sono figure e formazioni “sociali” (non necessariamente socievoli). Cosa sarei io senza di voi? Voi mi avete parlato, voi mi avete assegnato un nome, mi avete incoraggiato a dire la mia; ma, beninteso, come voi avevate già stabilito e consentito, nella vostra lingua e secondo i vostri criteri. D’altra parte, il medesimo è accaduto a ognuno di voi. Ognuno ha scoperto di essere un tu e di parlare come un tu per gli altri e così ha potuto avere anche se stesso, nella forma del tu interiorizzato, appunto. Ha potuto dirsi, o almeno chiedersi, cosa poteva sapere, cosa doveva fare, cosa poteva sperare.
Siamo figure del linguaggio, si potrebbe dire: ‘io’, ‘tu’, ‘voi’, ‘loro’. Così si articola il soggetto, il ‘noi’, nell’atto di parola, che appunto è tale solo se è doppio: dice dell’altro dicendo a sé; è così che ha, o che è, entrambi, cioè l’altro e il sé, nella figura dell’io e del tu.
Questo però non è tutto. Se dici a qualcuno che il suo io è un fenomeno sociale e una figura del linguaggio come minimo si offende. Che ne sarebbe allora del soggetto inalienabile e della sacralità della persona? E della peculiarità di ogni individuo consistente nella sua irripetibile “originalità”? Certo, si tratta sempre di un’originalità molto relativa e circoscritta. Relativa, per esempio, al suo tempo. Non si può dire o pensare qualsiasi cosa in qualsiasi tempo, notava Foucault. Il Faraone non può apostrofare la sua sposa (che poi è sua sorella) con le parole: “Ma quanto sei nevrotica!”. Queste parole non le ha, non può farsene un’idea o farne un’idea e non può assegnarle al tu, ovvero anche all’io che ognuno è. Non può neppure pensarsi come un peccatore in attesa di redentori e di redenzioni. Naturalmente anche per noi vale la reciproca, in quanto ci è inibito pensare come il Faraone, sebbene capiti che qualche miliardario americano provveda alla sua ibernazione post mortem (con la speranza che le crisi finanziarie non mandino in fumo, cioè in cenere, il suo progetto).
Insomma, quel che dice l’io del tu, così come quel che l’io apprende dal tu, è ogni volta accidentale e transitorio. Possiamo scommettere che non c’è pensiero in me (o in voi) e che non c’è parola tra noi che non apparirà strana e quasi incomprensibile alle orecchie di un’umanità futura. In che consisterebbe allora quella pretesa originalità dell’io e sostanzialità della persona che tu rivendichi?
Che non consista nei suoi “contenuti” lo possiamo forse convenire. Le idee, come si dice, quelle alle quali mi sento legato, me le hai trasmesse sempre tu, o qualche tu. Al più ciò che mi concerne è la combinazione di certe idee tra quelle nel mio tempo disponibili; ma anche in questo esercizio scopriamo spesso un molto diffuso conformismo e limiti evidenti. Gli esseri umani non poso evitare di influenzarsi a vicenda, diceva Peirce, perché la verità è “pubblica”. E così procedono tutti insieme: rivendicano rissosamente la loro “specialità” o qualche sfumatura di essa, ma, tranne casi rari, si somigliano assai più che non desiderino. Basterebbe del resto far caso alle loro ridicole mode e fogge di acconciatura e di vestiario, di cui peraltro vanno così fieri e solleciti, anche quando fingono di disinteressarsene.
La peculiarità profonda di ogni persona, di ogni soggetto, non apparterrebbe dunque ai “contenuti” dei suoi pensieri presi in sé, perché questi contenuti appartengono piuttosto a un contesto sociale e comunitario in continuo movimento, come i colori di moda, appunto: quest’anno va il verde, il prossimo andrà il rosa. Ma allora, quando ti dai del tu, e dai del tu, chi parla e a chi parli? E, per esempio, qui chi scrive e per chi? Domande opportune. Osservale bene, non avere fretta, lasciale depositare nel fondo del tuo io e del tuo tu. Forse emergerà allora qualcosa di non visto prima, perché assai difficile da nominare e quasi impossibile da dire. Kant, per esempio, l‘aveva visto. Dopo aver enunciato la famosa questione dell’ “io penso”, Kant andò ancora più a fondo e chiese: ma chi pensa in questo “io penso”? e rispose francamente: “Esso pensa!”. L’ultimo fondo dell’io, si potrebbe dire, è anonimo, non è né un io, né un tu. Non tanto “io penso”, quanto piuttosto “si” pensa, nel mio io e nel mio tu. Ma di che si tratta?
Qui suggerire di ricordarci di Maurice Blanchot. Al fondo di quel dialogo che ognuno di noi è con gli altri e con se stesso, al crocevia dell’occasione e del destino, emerge la figura sfingea del desiderio, cui fa da alter ego il terrore della morte. Te l’ho detto e te lo ripeto: continua a strillare, continua a parlare; non sei solo, vedrai, qualcuno o qualcosa risponderà.