di Florinda Cambria, docente di filosofia
“Forza, fatti coraggio, non avere paura…”. Quante volte, da bambini, ci siamo sentiti ripetere questa frase, questo incoraggiamento a superare la paura con un atto di coraggio? L’invito muoveva dal presupposto che avere coraggio significasse negare la paura e assumere un atteggiamento – per così dire – virile di fronte alla realtà o ai fanta-smi. Per i maschietti, infatti, la frase poteva spesso essere accompagnata da un implicito o esplicito: “Non fare la femminuccia…”, dove “fare la femminuccia” significava essere deboli e arresi, bisognosi di protezione e affidati alla forza dei grandi. Avere paura, in-somma, era un femmineo e infantile segno di debolezza, un segno da cancellare, così da accedere al mondo degli adulti: uomini coraggiosi e donne possibilmente non troppo piagnucolose.
Il “coraggio di aver paura” è, rispetto a quello stereotipo di forza, una espressione contraddittoria, che vorrei qui assumere nel suo senso più radicale. Non, dunque, nella forma di una ammissione preliminare al farsi coraggio (“Non negarlo: hai paura! Ammettilo, così poi ti farai coraggio”), ma nella forma di una compiuta coincidenza tra esperienza della paura ed esperienza del coraggio, dove il coraggio smetta di essere in-teso come superamento della paura e acquisti il significato inedito di una permanenza e di un affondo nella paura. Per chiarire cosa io intenda con tale coincidenza, come essa abbia a che fare con esperienze costitutive della nostra consapevolezza di umani e come, infine, possa suggerire posture etiche nuove rispetto alla nostra quotidiana relazione con l’alterità, mi servirò di spunti tratti dalla filosofia di Hegel, e dalle riflessioni di Freud e di Sartre.
Il primo problema è infatti di stabilire con precisione cosa si debba intendere per paura. Vi sono due principali modalità di manifestazione della paura: una prima moda-lità – per così dire – locale, in cui la paura è un timore determinato, legato a un oggetto specifico; una seconda modalità riguarda invece l’esperienza di una paura che non si ri-ferisce a questo o a quell’oggetto determinato, ma prende le fibre e si insinua nei mean-dri del nostro sentire, facendo tremare le radici stesse del nostro essere al mondo. Que-sto secondo genere di paura è ciò che Hegel, in un illuminante passaggio della Fenome-nologia dello Spirito, chiama “paura assoluta” e che, in senso generalissimo, possiamo qui intendere come paura della morte: non timore di perdere, di vedere negato qualcosa di preciso, ma timore diffuso, fluido, privo di oggetto specifico; timore di vedere negata la vita stessa; paura della negazione pura, del puro dileguare, dell’assoluto dileguarsi di tutte le determinazioni.
Come è noto, questa descrizione della paura assoluta è cruciale in quel passaggio della Fenomenologia dello Spirito nel quale l’autocoscienza si appresta a esperire la dia-lettica servo-signore. Scusandomi per la superficialità con la quale mi esprimerò, riprendo rapidamente l’antefatto, allo scopo di fare luce sulla emergenza della paura assoluta e sulla sua centralità nel cammino della coscienza, ossia di quella attività che costituisce l’umano nella sua relazione con il mondo degli oggetti. Momento cruciale di tale cammino è quello in cui la coscienza, ormai consapevole di essere una attività e di avere in questo la propria differenza rispetto alla statica datità del mondo degli oggetti, fa esperienza di tale differenza. Occorre infatti che la coscienza viva concretamente ed effettivamente il proprio essere in azione e la propria irriducibilità al mondo degli og-getti. Solo così la sua consapevolezza di essere coscienza umana perderà il carattere di una astratta affermazione e diventerà esperienza vissuta; solo così la coscienza diventerà concretamente una autocoscienza umana e la sua attività sarà, non solo astrattamente di-chiarata, ma anche realizzata sul piano degli effetti. È proprio su questo piano che l’esperienza della paura, della paura assoluta, riveste un ruolo cruciale.
L’autocoscienza, infatti, per fare esperienza concreta del proprio esser tale, ha bisogno di ottenere il riconoscimento della propria non-cosalità da qualcosa che le sia esterno: per diventare propriamente umani, in altre parole, è necessario essere ricono-sciuti nella propria differenza e irriducibilità al mondo delle cose. Solo che tale ricono-scimento necessario non può venire all’autocoscienza da un oggetto: nessun sasso, nes-sun albero potrà riconoscermi come umano; solo un altro umano lo potrà fare. Ecco dunque il problema: per poter diventare umana sul piano dell’effettuale, l’autocoscienza ha bisogno che un’altra autocoscienza le riconosca il suo essere soggetto e non oggetto; ma tale bisogno è reciproco, dal che deriva la drammaticità dell’incontro inaugurale tra esseri umani consapevoli della propria umanità. L’incontro infatti non potrà che essere uno scontro: ciascuna delle autocoscienze lotterà per ottenere dall’altra il riconoscimento della propria specificità di soggetto, ossia della propria attività di contro alla passività del mondo esterno. Questo però comporta che una delle due autocoscienze accetti di ri-durre se stessa al livello degli oggetti: che accetti cioè di assegnare all’altra lo statuto di essere attivo e a se stessa solo lo statuto di essere passivo, cosa tra le cose.
Come è noto, la lotta per il riconoscimento è descritta da Hegel nel modo di una lotta che si confronta con il rischio di morte. Le due autocoscienze bisognose di ricono-scimento dovranno infatti mettere in gioco la loro stessa vita individuale, dovranno e-sporsi al rischio dell’annientamento: se io sono un umano, allora tu sei una cosa e verrai annientato come umano; se invece tu sei l’umano, allora io mi annienterò come umano e mi ridurrò allo stato della bruta cosalità. La lotta tra autocoscienze è così anzitutto una lotta a morte. Ben presto, però, le autocoscienze raffinano la loro modalità di lotta: l’annientamento dell’altro, la sua riduzione a cosa inerte, la sua morte effettiva, finisce infatti per mancare l’obiettivo per il quale la lotta si era inaugurata, ossia il riconosci-mento. Un morto diventa come un sasso e non può più dirmi che io sono vivo e vivo come essere umano. Cosicché il delicato equilibrio del riconoscimento si raggiunge solo quando la lotta è sì lotta a morte, ma in una forma che potremmo dire “rituale”: si mette cioè in gioco la vita individuale, ma solo fino al punto limite in cui una delle due auto-coscienze si arrenda. Chi si arrenderà prima, chi si fermerà per primo di fronte al rischio di essere effettivamente ucciso, cioè privato della propria vita individuale, chi avrà più paura, insomma, si assoggetterà all’altra autocoscienza e le tributerà l’agognato ricono-scimento. La coscienza che avrà avuto paura di perdere la vita si assoggetterà all’altra, ammetterà di non essere pienamente umana. L’autocoscienza vincitrice, forte di questa resa, deterrà a pieno titolo lo statuto di umano e questo statuto sarà il senso profondo della sua valenza e della sua superiorità: l’autocoscienza vincitrice, che non ha avuto paura, diventerà l’aristocratico guerriero, le cui insegne saranno memento del coraggio dimostrato di fronte alla morte. Questi però sono solo i primi passi.
L’autocoscienza signorile, infatti, ha sì ottenuto il riconoscimento del proprio es-sere pienamente ed esclusivamente umano, ma questo riconoscimento da parte della co-scienza divenuta servile si rivelerà astratto. Con caparbietà, con pervicacia (questa è la parola usata da Hegel), il signore ha affermato se stesso grazie all’assoggettamento del servo, il quale si è riconosciuto umano a metà. Quest’ultimo lavorerà la materia usando il proprio corpo, si farà cosa tra le cose perché il signore possa conservare la pienezza formale del proprio essere attività umana. Al servo toccherà dunque la bruta materia in-forme, al signore la ridondanza della simbolica aristocratica: il titolo, il nome, la fama, il sangue.
Domandiamoci però: quale esperienza deve avere fatto il servo per accettare di essere ridotto al rango di bruta cosa, per accettare di diventare carne al servizio del si-gnore, per accettare di negare la propria umanità? La sua è stata una esperienza di paura. Ma di cosa, propriamente, ha avuto paura? Cosa ha visto nel momento in cui si è detto: “Va bene, sarò solo carne, sarò materia da lavoro, sarò solo una cosa tra le cose”? Che tipo di paura ha conosciuto, quale visione, quale intuizione ha avuto l’autocoscienza che ha accettato di essere materia bruta, lasciando all’altro l’onore della vittoria? Leggiamo dalle pagine della Fenomenologia dello spirito:
“Tale coscienza non è stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell’istante, bensì per l’intera sua essenza: essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. È stata così intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa vi era di fisso ha vacillato. Ma tale puro e universale movimento, tale assoluto fluidificarsi di ogni momento sussistente, è l’essenza semplice dell’autocoscienza, è l’assoluta negatività, il puro esser-per-sé che, dunque, è in quella coscienza. (…) La quale inoltre non è soltanto questa universale risoluzione in generale, poiché, nel servire, essa la compie effettivamente; quivi essa toglie in tutti i singoli momenti la sua adesione all’esserci naturale e, col lavoro, lo trasvaluta (…)”.
(G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 161-162).
Ciò che l’autocoscienza servile ha esperito è la paura assoluta, la “paura della morte, signora assoluta”. Questa paura, scrive Hegel, non è assimilabile all’ansia, perché l’ansia è paura per qualcosa di determinato, paura di vedere negato qualcosa, mentre la paura assoluta è angoscia, è una paura senza oggetto, una paura sciolta da qualunque rapporto con qualsivoglia determinazione. Ciò che la coscienza servile ha esperito è la paura della negazione pura, della negazione sciolta da qualsiasi vincolo, della negazione assoluta appunto. E cosa è, come dobbiamo intendere tale negazione assoluta? Essa è la negazione che porta al dileguare di qualsivoglia determinazione: non di questa o quella determinazione, non di questa o quella cosa determinata, ma di ogni determinazione possibile.
La paura assoluta che il servo ha visto in faccia è la paura del dileguare di qual-siasi forma, del fluidificarsi di ogni determinazione, la paura del rifluire di ogni forma, di ogni figura, di ogni confine nell’informe, nell’indeterminato, nel caos, nel magma del puro cosale esser là. La paura assoluta è l’esperienza del trionfo dell’indeterminato, l’esperienza del puro indifferenziato. È questo ciò che l’autocoscienza servile ha esperi-to: l’angoscia del nulla come negazione di ogni determinazione e di ogni forma. Essa dunque non ha tremato semplicemente perché ha visto in pericolo la propria esistenza individuale, il proprio esserci naturale. Ha tremato perché ha visto in faccia il puro inde-terminato, ha visto il venir meno di ogni possibile differenza, quindi di ogni individuali-tà, di ogni alterità e di ogni relazione.
Ora, esattamente in questi termini, nel senso cioè del fluidificarsi di qualunque forma, di qualunque consistenza separata, Freud si esprime in merito a quella che, negli anni più maturi della sua produzione, egli chiama “pulsione di morte”. Tale pulsione emerge in una direzione opposta e complementare alle spinte orientate verso il piacere, che Freud ha analizzato nei primi decenni del suo lavoro. La pulsione di morte non è in-fatti in una relazione dicotomica con la pulsione di piacere, ma è legata ad essa da un rapporto di complementarità: rapporto che, nel linguaggio freudiano, è riassunto nel bi-nomio Eros/Thanatos. Oltre che in altri luoghi, nei quali la questione è affrontata in termini assai più dettagliati, Freud fa riferimento alla pulsione di morte in una lettera che scrive nel 1932 ad Einstein, il quale lo interrogava con tono accorato sulle cause del reiterarsi delle guerre fra gli esseri umani. Con umiltà e cautela, Freud risponde evocan-do appunto la pulsione di morte. Egli scrive infatti:
“Noi crediamo all’esistenza di una tale pulsione (all’odio e alla distruzione). Con un po’ di speculazione ci siamo infatti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della mate-ria inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte (…). Per così dire, l’essere vivente in tanto protegge la propria vita in quanto ne distrugge una estra-nea”.
(S. Freud, Perché la guerra? Carteggio con Einstein (1932), in Opere complete, a cura di C.L.Musatti, Boringhieri, Torino 1977, vol XI, p. 297).
Sottolineerei anzitutto il fatto che, nel descrivere sinteticamente la pulsione di morte, Freud sembri evocare proprio quella paura assoluta che Hegel ha attribuito alla autocoscienza servile. La pulsione di morte è infatti spinta a ridurre la vita a materia i-nanimata, allo stato della indeterminazione cosale, stato che coincide con la totale flui-dificazione di cui abbiamo poco sopra parlato. L’esperienza di questa tensione verso l’informe, verso l’annullamento di ogni determinazione è esattamente l’esperienza dell’angoscia: quella paura indeterminata che è una paura dell’indeterminato; esperienza totale perché riguarda lo sprofondare di ogni possibilità di significazione, di ogni figura di senso.
In termini assai affini viene descritta da Sartre, in pagine memorabili, l’esperienza della angoscia provata da Roquetin, il protagonista del romanzo filosofico intitolato La nausea. È però interessante notare che, mentre Hegel parla della paura assoluta come del momento costitutivo, ossia della posta in gioco per la costruzione dell’umano; mentre Freud individua nella pulsione di morte una esperienza che continuamente si reitera nell’umano parallelamente alla pulsione di vita; Sartre invece individua in essa l’essenza stessa della esistenza. Esistere vuol dire fare esperienza dell’angoscia.
Roquetin si trova in un giardino pubblico e improvvisamente, guardandosi intor-no, è assalito da un’esperienza strana che lo stravolge e al tempo stesso lo illumina. Leggiamo la descrizione fornita da Sartre di tale esperienza:
“La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse e, con esse, il si-gnificato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto questo lampo di illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire esistere. (…) Se mi avessero domandato che cosa era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era im-provvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scom-parso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine, nude, d’una spaventosa e oscena nudità. Mi astenevo dal fare il minimo movimento ma non avevo bisogno di muovermi per vedere, tra gli alberi, le colonne azzurre e il lampa-dario del chiosco della musica. Tutti quegli oggetti… come dire? Mi infastidivano: avrei desiderato che esistessero in maniera meno forte, in un modo più secco, più astratto, con più ritegno. (…) Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione di esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente con-fuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto che io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: cia-scuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s’isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m’ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l’arbitrarietà: non avevano più mordente sulle cose. Di troppo il castagno, lì davanti a me, un po’ a sinistra. Ed io – fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pen-sieri – anch’io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo compren-devo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura, ho paura che questo mi prenda dietro alla testa e mi sollevi come un’onda)”.
(J.-P. Sartre, La nausea, a cura di B. Fonzi, Mondatori, Milano 1965, pp. 181-183, passim).
Ciò che rivela a Roquetin il senso della esistenza è dunque l’esperienza della pura esteriorità cosale, ciò che Sartre chiama “la materia stessa delle cose”: pura indeter-minazione della materia che suscita paura e, al tempo stesso, in quanto pulsione incoer-cibile, esercita segreta attrazione. A venir meno, nella esperienza fondamentale dell’esistenza è, scrive Sartre, “la diversità delle cose e la loro individualità”: esse per-dono la loro consistenza separata, le loro caratteristiche individuali, non sono nemmeno più nominabili, si fluidificano e fanno massa, scivolano nell’informe. L’esperienza dell’esistere ha qualcosa di mostruoso: la mostruosità dell’informe, una mostruosità che coincide con ciò di cui la hegeliana coscienza servile ha avuto paura assoluta e con ciò verso cui tende la freudiana pulsione di morte.
Domandiamoci ora: perché sia Hegel, sia Freud, sia Sartre individuano in quella esperienza il luogo costitutivo della esistenza umana? Perché il fluidificarsi di tutte le forme sarebbe anche il polo di una attrazione, di una seduzione, di una fascinazione ir-resistibili? Dopo il nostro breve percorso nelle parole degli autori che abbiamo scelto come guida, proviamo a rispondere a queste domande, nelle quali si nasconde il senso di quel coraggio di avere paura che ho evocato nel titolo della mia relazione.
Anzitutto, se l’esperienza della paura assoluta è il luogo costitutivo dell’umano, l’attrazione esercitata dal fluidificarsi di tutte le forme, cui la paura assoluta si riferisce, ha a che fare con una istanza di continua ricostituzione dell’umano medesimo. La pul-sione di morte, la tentazione o la visione dell’informe e dell’indeterminato che conti-nuamente strabocca dalle forme e le dissolve, comporta infatti la continua esigenza di ridare forma, di riconfigurare ogni volta l’informe e l’irrafigurabile. In tale esperienza reiterata consiste l’esistenza e, propriamente, l’esistenza umana.
La complementarità di pulsione di morte e pulsione di vita, di Thanatos ed Eros, sottolineata da Freud, suggerisce in fondo questo: che se vivere è organizzare, articolare, connettere forme, tali operazioni sono possibili solo in rapporto al loro contrario, ossia al disorganizzarsi, al disarticolarsi, al fluidificarsi di tutte le forme. Potremmo anche dire così: il coraggio di accogliere l’informe è condizione necessaria perché la vita possa prendere forme o, meglio, perché l’umano possa dar forma alla vita. L’accoglimento della morte “signora assoluta” è, in tal senso, il correlato fondamentale di ogni azione autocosciente, ossia di ogni azione pienamente umana. Azione autocosciente, infatti, è solo quella che è in grado di prendere in carico l’indeterminato per produrre consape-volmente determinazioni. E i modi fondamentali in cui tale produzione di determinazio-ni accade sono due: il linguaggio e il lavoro.
Linguaggio e lavoro sono le due condizioni e le due prassi che costituiscono l’umano come tale, sono la sua specificità rispetto a tutti gli esseri viventi. Dar nome e dar forma sono il medesimo gesto e coincidono nella prassi come lavoro. Lavorare infatti significa strappare la “materia delle cose” all’indeterminazione, significa porre e articolare differenze; ed è solo in questo operare che l’essere umano fa esperienza della propria peculiarità. L’esperienza dell’informe, la paura assoluta di fronte a essa è per-tanto la condizione di possibilità del lavoro in quanto dimensione costitutiva dell’umano.
Esattamente in questi termini, del resto, si svolge la dialettica servo-signore de-scritta nella Fenomenologia dello spirito: il signore, ottenuto il riconoscimento, afferma se stesso nella propria auto-nomia, nella propria non-dipendenza; è il servo, invece, che, sottomessosi al signore, dedicherà se stesso al lavoro. Egli, mediante il lavoro, darà forma all’informe e realizzerà sul piano dell’effettuale quella azione autocosciente che, per il signore, si è compiuta solo sul piano formale. Con le parole di Hegel:
“Il lavoro è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma dell’oggetto stesso, diventa qualcosa che permane. (…) Per tale riflessione sono necessari entrambi questi momenti: sia la paura e il servizio in generale, sia il formare. Senza la disciplina del servizio e dell’obbedienza, la paura resta al lato formale (…). Se la coscienza forma senza quella prima paura assoluta, essa è soltanto un vano senso proprio. (…) Se la coscienza non si è temprata alla paura assoluta, ma soltanto alla sua particolare ansietà, allora l’essenza negativa le è restata solo qualcosa di esteriore (…) e il senso proprio è pervicacia, libertà ancora irretita entro la schiavitù”.
(G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 162-164 passim)
Il lavoro, in quanto appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto e, in questo senso, esso è forma dell’oggetto: paura e servizio sono le condizioni del formare. E nella possibilità di dare forma, di determinare gli oggetti (di nominarli e di plasmarli) risiede la possibilità, per l’autocoscienza, di acquisire un senso proprio (una autocoscienza) non astratta, ma effettuale. Tale possibilità è realizzata dalla autocoscienza servile, non da quella signorile, poiché quest’ultima non ha esperito la paura assoluta: non ha perciò acquisito quel sapere della morte che, reso effettuale mediante il lavoro, diviene il sapere umano per antonomasia.
L’autocoscienza signorile, infatti, non ha tremato di paura assoluta, non ha cono-sciuto l’angoscia dell’informe; ha provato solo ansietà. Il suo coraggio è stato quello di mettere in gioco ciò che per essa era più prezioso: la sua vita determinata, la sua vita particolare. Non ha avuto paura di morire ma, in questo modo, ha avvalorato massima-mente la propria vita individuale. Essa è diventata il valore supremo attraverso il quale realizzare la propria auto-affermazione. Ciò significa però che l’autocoscienza signorile ha conosciuto, appunto, solo ansietà – paura per un oggetto determinato: la propria vita individuale. Essa ha così affermato se stessa solo in rapporto a una determinazione, fa-cendone il valore più alto, quanto di più prezioso potesse mettere a rischio. Ha avuto co-raggio, certamente: il coraggio di non aver paura. E così ha affermato se stesso, una au-toaffermazione che però si realizza solo come “vano senso proprio”, come pervicacia: caparbia affermazione di sé, che si realizza solo nelle vuote forme della simbolica ari-stocratica (come accennavo sopra). Il nome, la fama, il sangue, l’onore, la trasmissione delle proprietà: questi saranno i segni del suo essere umano, del suo essere – anzi – pro-priamente ‘uomo’.
È evidente infatti che su questi segni (segni della forza guerriera) si sono costrui-te le gerarchie di tutte le aristocrazie patriarcali, nelle quali il coraggio maschile è dive-nuto emblema della umanità tout court. Una umanità basata sulla conservazione del nome e dei possedimenti del padre nella discendenza: tentativo di sconfiggere l’ansietà, eternando nei segni esteriori quella esistenza individuale che, messa a rischio e disprez-zata nella lotta ancestrale, è divenuta l’emblema del valore più alto. Tutto questo, però, non è altro che caparbietà, “libertà ancora irretita entro la servitù”. Il signore, infatti, di-pende dal lavoro del servo e solo nel suo servizio, nel suo umile dar forma, trova la pro-pria possibilità di sussistenza.
Il signore non ha conosciuto la paura assoluta e per questo non può formare: non può cioè realizzare la propria essenza di umano altrimenti che mediante segni vuoti. Il servo invece si è piegato e si è messo a servizio: non del signore, come di primo acchito potrebbe sembrare, ma della vita medesima, la vita umana intesa non come vita indivi-duale, ma come accoglimento dell’informe e come lavoro sull’informe. Avendo cono-sciuto la paura assoluta, il servo ha avuto un coraggio diverso da quello del signore: ha avuto coraggio di avere paura. Egli, di fatto, non ha avvalorato la propria vita individua-le, non ne ha fatto il valore supremo, non l’ha assunta come il banco di prova della pro-pria umanità, non ne ha fatto il luogo della propria auto-affermazione. Il servo ha visto infatti il puro dileguare: non il proprio dileguare, ma il venir meno della possibilità stessa del dare forma. L’autocoscienza servile, potremmo dire, ha avuto un coraggio femminile: il coraggio di piegarsi per dare forma alla nuda materialità. Senza nome, senza onore, senza fama, senza alcun segno esteriore, essa ha accolto l’informe e ha preso a lavorarlo affinché la possibilità della azione umana si rideterminasse ogni volta di nuovo.
In questo modo l’autocoscienza servile rinuncia a quella auto-nomia, quella auto-determinazione, quella auto-nominazione che è, per il signore, il valore più alto. Questa rinuncia è però, ad un tempo, la più profonda affermazione del sapere umano. Nel servizio che dà forma, il servo comprende ed esperisce la propria etero-nomia: esperisce cioè il proprio essere affidato all’altro, alla alterità radicale. Egli infatti sa la paura dell’informe e dell’indeterminato: li ha conosciuti e compresi come la propria alterità fondamentale. L’umano sa di essere tale perché dà forma e per differenza dall’informe che reiteratamente travolge tutte le sue configurazioni. È questo ciò che l’autocoscienza servile sa; è questo sapere della eteronomia costitutiva dell’umano ciò che permette al servo, al suo coraggio femminile, di lavorare non per conservare se stesso, ma per strappare una figura di senso all’informe.
In tal modo, del resto, l’autocoscienza servile è autocoscienza eminentemente e concretamente umana. Essa ha compreso la costitutiva relazionalità in cui accade l’essere umano: entrambe le autocoscienze – si ricorderà – lottarono per ottenere il rico-noscimento dall’altro da sé. In questo bisogno di riconoscimento si mostrava già ciò che poi solo il servo vivrà sul piano effettuale: si mostrava cioè che l’essere umano si può determinare solo a partire dall’alterità. Il servo, mediante il lavoro, passa attraverso quella alterità nella sua manifestazione più radicale: la assoluta indeterminazione che sta di contro alla azione, all’operare dell’autocoscienza. L’informe che prende forma e che, senza pervicacia, senza vano senso di proprietà, il servo reiteratamente affida alle sue trasfigurazioni: questo è lo specchio nel quale l’autocoscienza esperisce il senso del proprio essere umano.
Il modo di esistenza cui la paura assoluta dispone è quello del lavoro che dà forma: questo e nient’altro è l’azione umana; questo è ciò che il servo ha salvato. Mentre il signore ha scelto come morire (morire con onore), il servo ha scelto come vivere: ha scelto Eros perché ha accolto Thanatos. L’accoglimento del sartriano “di troppo”, il coraggio di lasciare andare le proprie determinazioni individuali per plasmare forme e figure di senso, senza conservare se stesso e senza appropriarsene: questa è, in fondo, la sapienza ‘femminile’ di cui l’umano conserva il segreto. Un segreto che restituisce alla paura assoluta la sua funzione formativa e che dispone forse a un inedito modo di confi-gurare le nostre azioni consapevoli: affidandole alla loro costitutiva eteronomia, libe-randole da quella pervicacia che si è espressa e si esprime nei vuoti segni della proprietà.
Con parole di affilata luminosità, la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann ha evocato in poche righe quello che è forse il senso più profondo di questo umanissimo segreto: “Ma io – scrive la Bachmann – chi sono nel settembre dorato, se da me tolgo tutto ciò che gli altri hanno fatto di me?”. Parole che mi piace accostare a quelle, notis-sime, con cui Sartre evocava la specificità della esistenza umana: “Un uomo è ciò che egli fa di ciò che gli altri hanno fatto di lui”.