La negoziazione attorno alle immagini, e il “tempo perduto”
di Ruggero Pierantoni
fonte Scuola di Psicoterapia Comparata
Per molte decadi di didattica che venne, spregiatamente, definita “idealista” e “crociana” da molti che non avevano letto una riga di Benedetto Croce, la “Storia dell’Arte” si concentrò …
Per molte decadi di didattica che venne, spregiatamente, definita “idealista” e “crociana” da molti che non avevano letto una riga di Benedetto Croce, la “Storia dell’Arte” si concentrò davvero su dati che nulla avevano in comune con le altre “storie”. Solo qualche debole intersezione con personaggi storici per definizione, come i vari Papi, i Medici, le famiglie classiche degli Estensi, dei Piccolomini, i Montefeltro, sullo sfondo qualche rara battaglia scenografica, vaghe indicazioni di Stati in formazione e in declino, questo era tutto quello che si intravedeva attraverso le fittissime pagine di osservazioni estetiche, accorate invocazioni alla ispirazione, e qualche albero genealogico di “famiglie di artisti”. A sollievo del povero Croce possiamo considerare un classico assoluto di questo tipo , l’immensa ” Histoire de l’Art : Depuis les premiers temps chrétiens jusqu’a nos jours” di Andrè Michel ,pubblicata a Parigi nel 1909. Praticamente non si trovano in tutta l’opera indicazioni sulle tecnologie, la vita comune, le scoperte scientifiche, le guerre di religione, gli sviluppi delle lingue europee e infinite altre cose. Croce aveva, però, ancora da venire.
“La Storia Sociale dell’Arte ” che Arnold Hauser pubblica nel 1951 ha cambiato radicalmente il panorama ma solo da due decenni si è imposta globalmente la “New Art History”. Seguendo questo nuovo filone comincia ad essere difficile ricostruire chi fosse Michelangelo e cosa esattamente fece, chi fossero i Carracci, se Giotto fosse, in definitiva, un buon pittore oppure no. Mentre finiamo per conoscere nel dettaglio più fine l’andamento del prezzo del panno alla Borsa di Anversa, come e con quale modalità il porto di Bruges si andò interrando, quale fosse la posizione sociale delle prostitute nella Parigi della Comune e come il Sud della Russia, con lo sviluppo impetuoso di Odessa venisse a influenzare definitivamente il mercato del grano in Europa con ripercussioni sulle esportazioni di grano dagli Stati Uniti.
Il collegamento tra questa immensa mole di informazioni metereologiche, tecnologiche, mediche, finanziarie e le vere e proprie “opere” si è andato offuscando ed esse, ancora una volta, sono sfuggite alla nostra presa di contemporanei ma anche di creature necessariamente ed inutilmente memori di un passato che non sappiamo più da dove abbia inizio.
Naturalmente queste brevi pagine non possono in nessun modo neppure tentare di saldare questo intervallo che si allarga sempre più ma potrebbero almeno servire a far soffermare i pochissimi lettori sulle strane avventure che si sono svolte tra le immagini e la società. Quello che qui mi interessa è sottolineare la natura , quasi intrinseca, di “contratto” che l’immagine ha sempre rappresentato per l’uomo. La forma essenzialmente laconica ma esplicita del biglietto del cinema riassume con assoluta sintesi la questione. Il biglietto testimonia un contratto neanche tanto simbolico o implicito tra colui che l’ha acquistato e quella che è divenuta una struttura straordinariamente complessa che gli permette di assistere allo spettacolo. Si è scambiato denaro per immagini.
Questo vuole dire, in estrema semplicità, che quelle immagini possedevano un valore. Il paragone con l’acquisto al mercato di verdure crude o carne cruda, o al ristorante di verdure cotte e di carne cotta sembra assai simile. E’ un po’ più difficile stabilire se andare al cinema è come andare al mercato o al ristorante. In prima approssimazione i musei potrebbero essere paragonati ai mercati e il cinema al ristorante: al museo le immagini si presentano sostanzialmente nude, non ” processate”, mentre al cinema esse pervengono dopo una complessa “cottura” che le rende adeguate ad un consumo vincolato più strettamente al tempo della ingestione.
Potrebbe essere utile distinguere immediatamente questi contratti di consumo da quelli di produzione. Questi ultimi sono stati forse i primi segnali nelle storie dell’arte canoniche dell’esistenza di mondi paralleli a quelli dell’arte “tout court”. Le ricerche archivistiche hanno mostrato la meticolosità giuridica e l’assoluta attenzione al denaro e alle clausole di produzione e di esecuzione di questi contratti tra gli artisti e gli ordini religiosi, i nobili, i regnanti ed i singoli privati. I grammi di cobalto necessari al manto delle Madonne, il numero delle foglie d’oro per i fondi, le ore di lavoro per gli affreschi, i vari accordi per l’alimentazione e l’alloggio delle maestranze tutto è stato definito in modo estremamente esatto e la mancata ottemperanza a questi contratti ha in non pochi casi portato gli artisti in gravi crisi di disperazione e di rinuncia a futuri impegni. Il bellissimo ” Nati sotto Saturno” di Rudolph e Margot Wittkower del 1963 illustra molte di queste crisi dove il mondo privato dell’artista si infrange contro quello altamente strutturato del denaro e della società che acquista le sue opere. Questo processo di intersezione tra “mercato” e “bottega” è stato indagato con dettaglio da Michael Baxandall nel suo ” Pittura ed Esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento”, 1972, e in particolare nel primo capitolo dell’opera ” Le condizioni del mercato”. Si nota che i contratti non intervengano solo sul piano puramente materiale del dipingere ma sul contenuto, sulla composizione, sulla tipologia delle figurazioni e quindi condizionino in modo estremamente dettagliato il risultato complessivo dell’opera. L’analisi delle sette tipologie della Madonna Annunziata, con tutto il loro carico di significati teologici è uno dei contributi più specifici di Baxandall a questo problema.
Ma il nostro “contratto” intende indirizzarsi al rapporto tra fruitore dell’opera e i suoi veri e propri “proprietari” e non i suoi creatori od esecutori. Ma occorrerà sempre tenere presente, per noi sullo sfondo, il complesso negoziato che ha dato luogo all’opera prima che essa potesse essere oggetto di una ulteriore negoziazione con il “pubblico”. L’esistenza di questo pubblico deve essere considerata con attenzione per il caso, difficilissimo e sostanzialmente irrisolubile della pittura parietale paleolitica sino a tutto il Maddaleniano. Si può ragionevolmente ipotizzare che l’esecuzione materiale di moltissime immagini, ma anche la loro “fruizione” deve essersi ridotta a pochissime persone o, in alcuni casi, solo al loro diretto creatore. Una delle teorie più accreditate sul significato e sulla funzione della pittura paleolitica suggerisce un vero e proprio contratto : ” se io dipingo un cervo, domani lo catturerò”. Mentre è chiaro che uno degli attori è il disegnatore stesso, l’altro termine non è chiaro ma non può non coincidere con il creatore stesso in ultima analisi. E’ possibile che alla base ci sia una profonda convinzione che una forza esterna, una entità ulteriore, una idea di divinità o altro sia presente nella contrattazione.
Ma l’uomo che dipinge è del tutto solo quindi la contrattazione è profonda, interna, conscia o no ma possibilmente non condivisa con troppe altre persone. Ciò certamente non vale per le figurazioni rupestri più tarde, il Levante Spagnolo , l’arte del Sahara profondo o le infinite immagini graffite nel Deserto del Neghev dove il risultato dell’opera del pittore era e restava sotto gli occhi di tutti illustrato com’era agli ingressi degli “abris” ossia dei rifugi dei pastori o nelle poco profonde caverne dove avevano ricetto le greggi e le piccole mandrie dei bovini. Ma in questo caso la natura profonda di “contratto” : “se io faccio questo, tu mi dai quello” non è evidente e, probabilmente, è del tutto assente. Piuttosto queste figurazioni suggeriscono una altra idea, sempre di tipo “sociale” ma di tipo diverso e non basate sulla condizione “”Se…allora” quanto piuttosto del tipo “io … certifico che io possiedo questo e quello”. Per incontrare un caso analogo, anche se assai lontano e, a prima vista non congruo, ricordo una delle caratteristiche della primitiva pittura americana. In modo assai schematico si possono indicare i primi decenni del Settecento come gli inizi, i veri primordiali inizi della pittura che si può definire correttamente americana. Essa nasce con una serie di ritratti e “figure e paesaggio” che sono state analizzate con estremo dettaglio da James Thomas Flexner nella sua ” History of American Painting”, 1947, in particolare nel primo volume “First Flowers of Our Wilderness ( The Colonial Period).
In molti casi in cui una coppia o una famiglia è presentata contro un paesaggio questo ultimo in realtà è una nitida e probabilmente fedelissima mappa catastale. In poche parole l’immagine equivale alla affermazione : Io……. possiedo questa famiglia, questa villa e questo terreno sino alla cortina degli alberi”. Il Capitolo “sette” del libro di Flexner esamina in dettaglio tutte le tipologie della pittura americana del periodo prima della Guerra Civile e se ne trae la conclusione che praticamente ogni soggetto rappresentato aveva un suo “valore figurale” intrinseco. Possedere una immagine di dama in un parco con fontana vagamente francese implicava conoscenza di un mondo europeo da molti ammirato e desiderato, una veduta topografica di città o, ancora meglio, di un porto con tutte le sue merci una attenzione alla realtà del momento, un interesse specifico per gli affari, una competenza finanziaria, bimbi che giocano in un giardino o tramonti sensibilità alle “cose belle” e così via.
E, molto ragionevolmente si è ravvisato nell’arte borghese d’Olanda che ha una qualche attinenza, assieme a quella più specificatamente inglese del Settecento, alla nascente arte americana lo stesso valore di “contratto visivo”. La ricca natura morta che il borghese di Anversa e poi di Amsterdam esibisce nella sua sala da pranzo indica espressamente dovizia, sicurezza economica, agio educato e civile. Mentre, nello spazio meno pubblico della sua casa la presenza delle ” Vanitas”, con i loro teschi politi, gli specchi ammonitori e i gioielli dispersi, rassicurava il loro proprietario delle sue buone intenzioni e della sua perfetta coscienza che “tutto è vanità” e che i beni sono una fase transeunte della sua esistenza terrena.Non è per confondere il lettore o la lettrice con inutili voli avanti e indietro nel tempo ma è ben noto che praticamente tutta la figurazione egizia tombale rappresenta una elencazione di diritto alla proprietà e un “contratto con l’infinito”. Non esistono certo ormai più dubbi al proposito: le immagini sono elenchi, precisi registri di proprietà, manuali di attività da protrarsi nell’eternità e pur sempre nell’ambito dello spazio della privata possessione goduta eternamente all’ombra del Faraone, possessore unico di tutto ciò che esiste.
La estrema precisione nei dettagli, l’abolizione di ogni inganno prospettico, la rappresentazione dell’atto più significativo, più pregnante di una azione, la scarsa resa del tratto individuale e caratteristico tutto indica la presenza di una intenzionalità “generalizzatrice” che rammenta il linguaggio legale.
L’argomento dell’arte sacra cristiana e delle sue varie stagioni da quella proto-cristiana delle origini ,al periodo bizantino, allo sviluppo bloccato nell’Europa dell’Est delle modalità espressive bizantine per circa sette secoli si può trattare secondo lo stesso parametro. E’ evidente che le immagini sacre hanno sempre rappresentato un tramite, una interfaccia materiale tra il fedele e la divinità e, quindi la loro forma stessa, i loro colori, i loro dettagli tutto implica una presa di contatto tra l’uomo e il dio e stabilisce una forma di rapporto che, almeno dalla parte umana, ha le caratteristiche di un contratto molto definito : ” se io faccio questo, mi aspetto che tu faccia quest’altro”, oppure ” Se vuoi che io ti adori fammi questo” e altre forme più o meno stringenti di contratto.
Quella più precisa e più materializzata è il commercio delle immagini e delle materie “sante” o “santificate” attraverso la procedura per contatto. Una fiaschetta di acqua normale o di olio naturale se messa in contatto, anche solo in vista, di una ampolla contenente acqua santa o olio santo ne assume le virtù divine e quindi, a livello umano di consumo terapeutiche o apotropaiche. Questo processo che divenne sostanzialmente industriale nei secolo sesto e settimo nell’Impero Bizantino fu alla base delle due grandi crisi iconoclaste. Se seguiamo l’analisi stringente che B.Haussig ne fa nel suo ” Bizantine Civilization” del 1978 scopriamo che le vere radici della spinta iconoclasta risiedevano nella necessità di fare risalire il circolante a livelli fisiologici dai valori estremamente bassi a cui era giunto a causa della tesaurizzazione del denaro che aveva avuto luogo nei monasteri e in particolare nei luoghi dove si praticava il processo della moltiplicazione del sacro. E questi luoghi, in particolare santuari, possedevano il “copyright” di alcune icone di indubbio potere miracoloso ed erano sede dei cloni infiniti di tali immagini. In questo caso l’accesso alla immagine sacra era vincolato ad una serie di “impegni” da parte del pellegrino che si traducevano in spese di alloggio o , molto più semplicemente, esborso diretto di denaro. Procedura non dissimile nella sua sostanza a quella del pagamento in contanti ai sacerdoti di Apollo in Delphi e in altri luoghi destinati all’interfacciamento diretto, o indiretto, con il divino.
Luoghi come Pompei ,la Pompei moderna o Padova o altre località come la Mecca sono luoghi di negoziazione diretta o indiretta con il divino che passano, per le nostre culture per immagini mentre nel caso dell’Islam l’immagine è stata cancellata e viene profondamente interiorizzata.
E’ facile estendere questa lettura a molte culture e vedere nelle immagini una forma nettamente “visibile” di contratto di acquisto di un qualche bene ma non è opportuno accumulare esempi e piuttosto considerare brevemente la questione delle mostre per tenere in conto un fenomeno economico molto noto in questi tempi. Come esempio prendiamo quasi a caso un numero di “FMR” dell’agosto 1991: vi troviamo indicate 261 mostre in solo nove paesi e siamo a circa 11 anni da oggi. La situazione adesso, nel 2001, la possiamo considerare raddoppiata ed è una stima conservativa. Il fenomeno della “mostra” è così complesso e intricato da non potersi neppure sfiorare qui poiché troppi sono i parametri che lo determinano e, soprattutto, troppo complesse e del tutto non lineari sono le relazioni che legano tra loro tutti questi parametri. Nella sua forma più elementare una mostra consiste in una movimentazione di opere che, in genere, permangono immobili in luoghi fissi. Questa movimentazione determina un guadagno poiché le immagini, durante la loro “vita immobile” in Musei non producono denaro in modo efficiente a causa di una forma di saturazione della risposta allo stimolo da parte del pubblico.
La loro ripresentazione in luoghi differenti e spesso assai lontani rappresenta un nuovo stimolo locale cui corrisponde una risposta ambientale che assume spesso la configurazione di una movimentazione di pubblico pagante. Effetti collaterali sono la disseminazione in sequenza dei “cataloghi”, altra forma più ridotta ma più perdurante del contratto di acquisto d’immagine. In effetti il visitatore acquista il diritto a vedere degli originali mentre l’acquirente del catalogo quello di vedere delle copie selezionate e ordinate secondo un certo criterio. In questo caso il rapporto uno ad uno tra il visitatore e l’opera come veniva istituito nel santuario, nella chiesa, nella tomba, nella sede primaria del potere viene a dissolversi in una serie di “incontri” complessivi, generali e generici con “gli impressionisti”, ” il neoclassico”, “gli americani”, ” i Celti” e simili configurazioni di stimoli visivi.
Ciò che il visitatore acquista è soprattutto prestigio sociale, cui si accompagnano apprendimento diretto, esperienza visiva e aumento di competenza specifica. Ma non può sfuggire la similitudine della visita alla “mostra” con la visione di un film. In entrambe le circostanze noi scambiamo soldi per immagini : ossia usciamo con le mani vuote da un luogo dove alcuni oggetti permangono immobili in attesa di ritornare la loro luogo di origine. E’ evidente che la filosofia della mostra sta nel concetto di ” originale”: una mostra di ottime riproduzioni sensorialmente non distinguibili dagli “originali” non sarebbe certo visitata come quella che li espone. Questa interessante “clausola” del contratto è assai sorprendente poiché con la sofisticazione delle copie e dei falsi che il mercato dissemina in giro il numero di persone in grado di valutare se il dipinto che stanno osservando è un originale o una copia o , peggio, un falso, è assai ridotto. Al cinema non si assiste all’originale poiché il film stesso, nella sua intrinseca natura, è una copia ed è del tutto paragonabile al catalogo della mostra. Ma esistono delle ragioni serie per andare ad una mostra di “originali”: il nostro mondo è composto ormai solo di immagini di immagini e il numero di “originali” in circolazione è assai ridotto. L’originale presenta una caratteristica irrepetibile: è vecchio.
Non esiste il clone del tempo. La mostra, la visita al luogo archeologico, la scalata dell’antica torre, il percorso nella tomba antichissima hanno il pregio, unico e sembra non simulabile, del tempo che vi è trascorso sopra.
Noi ci affastelliamo agli ingressi delle mostre, tocchiamo le antiche pietre, ci sediamo di fronte a colonne corrose solo per contemplare il tempo che non è più. Crediamo di farlo per assaporare la bellezza della colonna, l’ombra del capitello, il profilo della statua, la pennellata sconvolta dal genio. Ma in realtà inseguiamo il nostro tempo perduto. Tutto il resto è copia.
Relazione per il Convegno Cura o manipolazione. Il potere della comunicazione tra tecnica ed etica,Genova, Museo S. Agostino, sabato 6 ottobre 2001 ( n.d.r. )