Identità

di Laura Grignola
fonte Scuola di Psicoterapia Comparata
Sono contenta di poter introdurre questo Convegno di carattere interdisciplinare parlando di un concetto che si presta così tanto ad essere letto da più vertici. Se Wilhelm von Humboldt …

 

Sono contenta di poter introdurre questo Convegno di carattere interdisciplinare parlando di un concetto che si presta così tanto ad essere letto da più vertici. Se Wilhelm von Humboldt aveva ragione a dire che l’essere umano si avvolge nel proprio linguaggio come il baco da seta nel suo bozzolo, un congresso interdisciplinare non può non essere anche inquietante. Weltanschauung diverse non si integrano così facilmente e tale integrazione implica un grosso e faticoso lavoro. E’ vero che siamo tutti disponibili ad affermare che nessun approccio è esaustivo e sufficiente, ma perché un’integrazione sia possibile bisogna che ci sia qualcuno che abbia voglia di sconfinare nei territori altrui per giungere a vivere, a soffrire, a incarnare questa interdisciplinarietà. E non è facile muoversi con destrezza nelle costellazioni concettuali che non ci sono familiari, in quanto esulano dalla nostra quotidianità professionale.

Il concetto di identità del soggetto lo possiamo esaminare, studiare, descrivere dal punto di vista delle proprietà fisiche attraverso le categorie concettuali della biologia e della neurologia. Ma possiamo anche considerarlo cognitivamente dalla prospettiva delle funzioni mentali, psicoanaliticamente dal vertice delle qualità e della strutturazione della mente, oppure ancora in termini di valori etici o politici. Qualsiasi tentativo riduzionista è impraticabile e porterebbe alla perdita della polivalenza del concetto.

In un’epoca così interdisciplinare, multimediale, multietnica, globalizzante, le questioni di filosofia della mente non sono più trascurabili, anche per uno psicoterapeuta, per uno psicoanalista. Ricercare una fondazione metateorica delle proprie posizioni diventa essenziale, diventa uno sforzo necessario, una possibilità di confronto e di dialogo. In ultima analisi perfino una possibilità di sopravvivere come disciplina. Perciò questo mio piccolo lavoro non può prescindere da considerazioni di carattere epistemologico.

Naturalmente scegliere un vertice di studio piuttosto che l’altro non è certo indipendente dalle scelte filosofiche di fondo. Ad esempio, scegliere una posizione riduzionista in filosofia della mente, e quindi scegliere la naturalizzazione della psicologia, significa essere coerenti con un paradigma filosofico ispirato al positivismo logico, in cui la fisica teorica costituisce il modello di spiegazione privilegiato. E queste scelte filosofiche anch’esse non sono casuali. Non nascono solo da eventi occasionali. Affondano le radici nella nostra emotività, nella nostra organizzazione emotiva profonda e quindi sono molto più determinate di quanto non vogliamo ammettere. Quindi non siamo poi tanto disponibili ad assumere altre prospettive. Ciò non toglie che queste istanze interdisciplinari siano utili.

Ad esempio, ci sono questioni che riguardano l’identità del soggetto, che appaiono fondamentali nella costruzione del vertice filosofico-morale, quali quelli di responsabilità e di integrità. Ma la concezione filosofico-morale e filosofico-politica dell’identità e quindi del soggetto, appare troppo astratta e sradicata dal contesto. Un concetto di identità che coincida con l’insieme delle scelte del soggetto, a prescindere dalla chiarificazione dei percorsi che hanno portato il soggetto a queste scelte, è criticabile. [ 1 ] Introdurre una lettura psicoanalitica di questo soggetto etico significherebbe complessizzare positivamente il concetto stesso, restituendogli la plasticità e il volume di una dimensione empirica capace di integrarsi con gli aspetti teorici, invece di appiattirsi in semplice irrazionalità. Del resto ricercare una fondazione metateorica, riflettere sulle origini delle proprie convinzioni e della propria configurazione scientifica è qualcosa di prezioso anche per la psicoanalisi, per poter mantenere il senso della propria identità e ricontestualizzarsi in un mondo, in un contesto sociale totalmente diverso da quello della sua nascita.

L’integrazione tra la psicoanalisi e le altre discipline è dunque particolarmente efficace. Ma, dal dopoguerra in poi, ad intervalli regolari, si è parlato di obsolescenza della psicoanalisi. Perché questo? Attacco ideologico o effettiva discrepanza di condizioni socioculturali?

Ai primordi della psicoanalisi la società non era culturalmente avanzata come la nostra. La psicoanalisi, con il suo impeto trasformativo, si embrica perfettamente nella sua epoca, assiste al dissolversi dell’impero asburgico, alla nascita degli stati nazionali europei, al passaggio dalla fisica di Newton a quella di Einstein e Heisemberg. Nata dalla neurologia clinica, parte dai dati della psicopatologia per trasformarsi in un modello di funzionamento della mente e quindi in riflessione dell’uomo su di sé e sulla propria esistenza, giungendo ad occupare una parte centrale nella cultura contemporanea. Ma all’inizio del terzo millennio il mondo è ulteriormente cambiato ed è davvero molto diverso da quello di Freud. Ci troviamo di fronte ad enormi mutamenti nella struttura politica, economica, sociale; il sapere scientifico si è sviluppato in maniera eccezionale, ha comportato vere e proprie rivoluzioni culturali tra cui anche modificazioni nel senso di identità di uomini e donne e nel loro modo di rapportarsi. Sono diversi i pazienti e sono diversi gli psicoterapeuti. Sono cambiate le speranze, le paure, la sensibilità, il tipo di lotte. E comunque la psicoanalisi non ha trascurato tutte queste trasformazioni.

I primi a teorizzare l’obsolescenza della psicoanalisi furono Adorno e Marcuse. Dissero che essendo in atto un processo sociale volto a distruggere l’autonomia personale attraverso il controllo esercitato sull’individuo stesso dalla società, questo fatto avrebbe reso obsoleto il conflitto intrapsichico tra le pulsioni e il principio di realtà. Non avremmo cioè più potuto immaginare il conflitto edipico come mediatore dei processi di crescita dell’Io. [ 2 ]

Attualmente il quadro sociologico non è più dominato dall’immagine di un individuo conformista, incapace di autonomia e tutto determinato dal sociale ma, se mai, dal concetto di incremento della individualità attraverso una moltiplicazione interna di identità. La tesi è ora quella di una personalità postmoderna in grado di avvalersi di tante identità; compare cioè all’orizzonte l’ideale di una sorta di “ soggetto multiplo ”. Ma, ancora una volta, si afferma che i nuovi sviluppi sociali implicano la caduta del programma teorico della psicoanalisi. Tale crollo, non più provocato dalla presunta e prevista mancanza di autonomia del soggetto totalmente imprigionato nelle determinanti sociali, sarebbe ora implicito nell’intento normalizzante di una psicoanalisi che ha a cuore il concetto di salute mentale e che si pone come finalità quella di portare il soggetto alla capacità di affrontare la realtà.

Ma in questa nostra epoca post-moderna, l’immagine di identità e di sviluppo dell’Io promossa dalla psicoanalisi, è davvero incompatibile con la pluralizzazione intrapsichica del soggetto? In fondo la psicoanalisi con i suoi nuovi sviluppi della teoria delle relazioni oggettuali e con i suoi orientamenti relazionali non ci propone un Io che raggiunge gli stadi di sviluppo più elevati, lasciandosi indietro quelli più primitivi. Propone se mai un Io nel quale ciascun livello di integrazione della realtà viene a costituire la matrice di una nuova organizzazione superiore.

Come del resto ho già accennato prima, non si può dire che la nostra organizzazione sociale non sia cambiata e può essere anche ragionevole immaginare che se Freud vivesse attualmente lavorerebbe in modo diverso. All’epoca di Freud, dopo la caduta degli ideali religiosi, l’unica possibilità di difesa rispetto al nichilismo era la scienza. Una scienza vissuta quindi positivamente, come possibilità di interpretazione valida della realtà, come possibilità di restituire all’essere umano –dopo la prospettiva antropocentrica della religione- la giusta collocazione spazio-temporale, sullo sfondo delle ere geologiche e sullo sfondo dell’evoluzione e delle trasformazioni della vita animale.

La nostra epoca postscientista, invece, non ci riserva più tutte quelle rassicurazioni scientifiche che costituivano una costellazione di punti di repere, un quadro di riferimento su cui fondare le proprie certezze esistenziali. I successi scientifici si portano dietro delle conseguenze disastrose che rischiano di condurci all’autoeliminazione. I sogni per il nostro futuro si strutturano ai confini dell’incubo delle armi nucleari, dei rifiuti tossici, dei rischi delle modificazioni genetiche. La scienza non ci dà più una posizione di forza e di privilegio. Si riaffaccia il problema del nichilismo.

Dice Sacharov:

“Altre civiltà, forse più riuscite, possono esistere un numero infinito di volte sulle pagine precedenti e successive del libro dell’Universo. Eppure non dobbiamo minimizzare i nostri sacri sforzi nel mondo dove, come deboli bagliori nel buio, siamo emersi per un momento dal nulla dell’incoscienza nell’esperienza materiale. Dobbiamo rendere buone le richieste della ragione e creare una vita degna di noi stessi e degli obiettivi che riusciamo a percepire soltanto fiocamente.” [ 3 ]
Dice Timothy Ferris:
“Non potremo mai conoscere nei dettagli l’universo; è semplicemente troppo grande e troppo vario. Se possedessimo un atlante della nostra galassia che dedicasse non più di una pagina ad ogni sistema solare della Via Lattea (cosicché il Sole e i suoi pianeti sarebbero ammassati su un’unica pagina), quell’ atlante occuperebbe più di 10 milioni di volumi di diecimila pagine ciascuno. Ci vorrebbe una biblioteca grande come quella di Harvard per ospitare l’atlante, e soltanto per sfogliarlo, al ritmo di una pagina al secondo. ci vorrebbero oltre diecimila anni. Aggiungiamo i dettagli della cartografia planetaria, la potenziale biologia extraterrestre, le sottigliezze dei principi scientifici implicati e le dimensioni storiche del cambiamento, e diventa chiaro che non saremo mai in grado di imparare più di un minuscolo frammento della storia anche solo della nostra galassia, e ve ne sono altri cento miliardi.” [ 4 ]
In altre parole la scienza ci ha svelato i nostri limiti. La conoscenza non è più un percorso verso la verità: ha una dimensione soggettiva ed è una costruzione legata ad un determinato contesto culturale. Se Freud, sostenuto dall’impalcatura scientifica dell’epoca, poteva immaginare una tecnica che portasse il paziente ad un totale inserimento sociale, al giorno d’oggi non abbiamo più questa aspirazione anche perché la maggior parte dei nostri pazienti è socialmente adattata e priva di sintomi eclatanti; il loro problema è, se mai, proprio l’adattamento eccessivo, l’incapacità di attingere alla propria creatività per acquisire un’identità autentica e personale. La mancanza di riferimenti invece di dare la libertà, determina. Il bisogno di ancorarsi a delle certezze rischia di portare a posizioni preconcette ed ideologiche, a stereotipi, a negazioni difensive, agli slogan, alle semplificazioni della complessità proprie di quello che Bollas definisce il pensiero fascista, a posizioni in qualche modo pseudosimboliche, quindi diaboliche.

Se Freud scriveva in Analisi terminabile e interminabile (1937) che lo scopo della psicoanalisi è “ che il paziente non soffra più dei sintomi e abbia superato sia le sue angosce sia le sue inibizioni […]”, oggi parliamo piuttosto di contenimento, di rispecchiamento, di holding; non pensiamo tanto di correggere l’impostazione infantile della mente ma di stimolarla, di espanderla, pensiamo di contribuire alla costruzione di un senso di identità appunto più autentico, creativo, vitale.

Ed eccoci a riparlare di identità. Senza questi cenni di carattere epistemologico, il termine “identità” rischia di portarci in terreni metafisici, sia per quel che concerne il concetto di identità personale, sia per quel che riguarda il concetto di identità collettiva, sociale o culturale.

Il termine “identità” compare sporadicamente negli scritti freudiani (92 volte, credo) e soprattutto il concetto di “identità” non svolge un ruolo determinante all’interno del suo pensiero. Solo nel “Progetto per una psicologia ” esso viene trattato in maniera sistematica, ma in una veste squisitamente tecnica, clinica. Né dal punto di vista topico, né libidico il concetto di identità è essenziale per la filogenesi o l’ontogenesi del soggetto. Freud usa un concetto simile ma diverso che è quello di “identificazione”.

In realtà Freud mira ad una destrutturazione del concetto egologico cartesiano. Freud parla di archeologia del soggetto, presuppone già, cioè, la capacità di ricostruire processi di formazione del soggetto che dipendono da dinamiche Io-gruppo-ambiente. Cioè per Freud la natura del soggetto non è un dato ma un problema, non è una posizione da individuare ma una costruzione da proporre. Cerca, in altre parole, di evitare il rischio di una escursione molto ampia dal polo della tirannia, costituita da un soggetto esaustivamente dato a prescindere da ogni portato teorico -un soggetto dato prima che pensato- al polo dell’anarchia che vede possibile qualsiasi costruzione realizzativa. In altre parole ancora, Freud cerca di evitare il rischio di veder coincidere il concetto di identità soggettiva con il semplice riconoscimento dell’esito di relazioni oggettuali significative.

Vediamo adesso di accennare- facendo riferimento al pensiero di Gaddini- a come la psicoanalisi attuale affronta il problema dell’identità attraverso quella che possiamo definire l’ipotesi descrittiva della nascita del Sé, cioè di “quell’ area della mente che funziona prima della struttura, indipendentemente da quella che sarà la struttura, ma che condizionerà la struttura”. [ 5 ] E, parlando del Sé, vorrei ricordare anche Bion e la sua scoperta che l’intero gruppo -che in realtà funziona a livelli molto primitivi- può comportarsi come un Sé e che a questi livelli primitivi il sociale precede l’individuale. Per Bion, dice Gaddini,
“l’individuo nasce da qualche cosa che possiamo definire primitivamente sociale, deve poi diventare individuo e come individuo deve poi tornare al sociale . Naturalmente quest’ ultima è la tappa più difficile da raggiungere”. [ 6 ]

“La psicoanalisi considera l’attività mentale come la funzione più altamente differenziata del corpo, talmente differenziata da richiedere un suo proprio metodo di indagine, atto cioè a studiare i suoi fenomeni come sono, indipendentemente dai presupposti biologici che li sottendono.” [ 7 ]
Freud aveva intuito che i modelli funzionali che stava cercando di descrivere in termini fisiologici potevano esistere come modelli di funzionamento mentale paralleli ai modelli fisiologici. Intuì anche che era un errore cercare di studiare quei modelli funzionali in termini fisiologici, ma che occorreva diventare capaci di studiarli e di descriverli per se stessi, ovvero in termini psicologici. La psicoanalisi considera il corpo e la mente sotto l’aspetto di un continuum funzionale, che procede –rispetto alla differenziazione mentale- dal corpo alla mente, ma che la psicoanalisi studia dalla mente verso il corpo. [ 8 ] Dunque un funzionamento corpo-mente concomitante e complesso e -se è vero che il cervello è contenuto nella scatola cranica- la mente, come il sistema nervoso, sta dovunque nel corpo, o meglio nell’organismo, inteso come un continuum funzionale. Infatti determinati modelli sono presenti sia nel funzionamento fisico, sia in quello mentale. Il modello mentale dell’”introiezione”, ad esempio, è parallelo a quello fisico dell’”incorporazione” (Glover, 1949). Naturalmente il significato mentale dell’introiezione si differenzia totalmente da quello dell’incorporazione. E questo ci consente di dedurre che lo stesso modello mentale di base è un modello parallelo ma differenziato, rispetto a quello corporeo e che quindi una funzione mentale differenziata dal corpo esiste già.

In che modo un modello funzionale fisico viene convertito in un modello parallelo psichico?

Continuando ad utilizzare la teorizzazione di Gaddini possiamo dire che nell’ontogenesi
“lo sviluppo della mente è un processo graduale nella direzione dal corpo alla mente, una sorta di emergenza dal corpo, che coincide con la graduale acquisizione mentale del Sé corporeo”. [ 9 ]
Questo apprendimento del funzionamento corporeo riguarda già la vita fetale, nella quale esiste, fin dal terzo mese di gestazione, una cospicua attività sia motoria che sensoriale. I primi modelli di apprendimento mentale delle funzioni fisiologiche possono essere fatti risalire a questo periodo della vita intrauterina. L’intensificarsi degli stimoli durante il processo della nascita e durante la situazione perinatale promuoveranno un’attività mentale crescente. Naturalmente “non possiamo immaginare l’instaurarsi di un modello mentale parallelo prima che la memoria di un modello fisiologico si sia stabilita.” [ 10 ] La memoria potrebbe cioè costituire la chiave di volta di questo sorgere della mente dal corpo.

C’è una discrepanza tra il funzionamento fisiologico e quello mentale, dice Gaddini. Alla nascita il neonato è fisicamente un individuo completo e separato dalla madre. Mentalmente no. La nascita a livello mentale, cioè il momento in cui il neonato apprenderà traumaticamente di essere separato dal corpo e dal seno della madre, di essere separato dal mondo esterno, si verificherà intorno al sesto mese di vita. Fino a quel momento l’organismo, inteso come corpo e mente, sarà tutto teso ad apprendere il proprio funzionamento. L’esperienza di sé acquisirà un senso mentale specifico quale prodotto della mente. L’esperienza di sé diventa, nella mente, “creata ” da sé.
“Il modello mentale dell’imitazione primitiva, parallelo di questo modello biologico ( ‘imitare per percepire’ ) è ‘ imitare per essere’ ( Gaddini 1969), e serve nell’organismo infantile per ‘essere’ ciò di cui manca… Fino a quando il bambino non è in grado di distinguere un ‘oggetto’ a cui affidarsi nel mondo esterno, distinto e separato da sé, la mente infantile è tesa a sopperire autonomamente ai ‘ bisogni’ dell’organismo (per bisogno intendo qui l’esperienza mentale di qualcosa che viene fisicamente a mancare). Il bambino mericista ‘imita’, in questo senso primitivo, l’esperienza alimentare venuta a mancare, ‘alimentandosi da sé’ fino a riprodurre l’esperienza fisica della pienezza”. [ 11 ]
Facevamo prima riferimento alla vita intrauterina. Si può dire che il limite, il confine che il feto fisiologicamente apprende, è anche il confine di sé. Lo spazio circoscritto del grembo materno diventa il limite di sé. Ma naturalmente siamo ancora lontani dalla possibilità di una prima immagine mentale del Sé, con uno spazio interno racchiuso in un confine che lo separa da uno spazio esterno sconfinato. In un certo senso potremmo anche dire che la proiezione mentale dell’esperienza corporea del sacco amniotico che avvolge il neonato è la prima embrionale esperienza verso la costruzione del Sé, verso quindi il proprio senso di identità.

Naturalmente questo è solo un piccolo accenno alla teorizzazione psicoanalitica attuale da cui si può procedere per trattare questo tema dell’identità. Ma vorrei concludere con un’osservazione ancora di carattere “epistemologico-psicoanalitico”.

Di fronte ad ogni progresso teorico clinico della psicoanalisi si attualizza il rifiuto e la denigrazione, come già Freud aveva preconizzato quando accennava all’effetto del progresso psicoanalitico sulla società. Il sapere psicoanalitico non può non provocare resistenza. Nel corso di una analisi siamo abituati a riconoscere le resistenze del paziente e ad inventarci modi per affrontarle. Il sapere psicoanalitico è destinato a svelare aspetti intimi dell’organizzazione mentale del soggetto portando alla luce il segreto che sta dietro ad ogni sintomo, fisico o mentale che sia. Il peso della frustrazione può essere intollerabile. In fondo la rimozione è una forma di difesa indispensabile per la mente dell’uomo. La comprensione del senso delle nostre motivazioni o del nostro disagio sposta su nuove postazioni il bisogno di nasconderci la verità su di noi. La patologia, sia mentale che fisica, non può quindi non cambiare.

Vorrei concludere con una citazione di Freud:
“Per quanto potenti possano essere gli affetti e gli interessi degli uomini, il fatto intellettuale è pur sempre anch’esso una potenza, non tale in verità da farsi valere a tutta prima, ma proprio per ciò con tanta maggiore certezza alla fine. Le verità più taglienti sono finalmente ascoltate e riconosciute, quando gli interessi da esse lesi e gli affetti da esse risvegliati si sono placati. Sinora le cose sono sempre andate in questo modo e le verità indesiderate che noi psicoanalisti abbiamo da dire al mondo subiranno la stessa sorte. Ma non succederà tanto presto; dobbiamo saper aspettare.” [ 12 ]
Note

( 1 ) Axel HONNETH, Teoria delle relazioni oggettuali e identità postmoderna. Sulla presunta obsolescenza della psicoanalisi, in Psiche, Anno X, n. 1, Il Saggiatore, Roma 2002.

( 2 ) Theodor W. ADORNO, Sociology and Psychology, New Left Review, 46 (1967), 67-80

( 3 ) cit. in Stephen A. MITCHELL, Speranza e timore in psicoanalisi, Bollati Boringhieri Ed., Torino 1995

( 4 ) ibidem

( 5 ) Eugenio GADDINI, Intorno ad una terapia psicoanalitica del Sé. Riflessioni, in Scritti, Raffaello Cortina Ed., Milano 1989, pag 435

( 6 ) ibidem

( 7 ) E. GADDINI, Note sul problema mente-corpo, in Opere, Cortina Ed., Milano 1989, pag 470

( 8 ) ibidem

( 9 ) ibidem, pag 472

( 10 ) ibidem, pag 473

( 11 ) ibidem, pag 477

( 12 ) Sigmund FREUD, Le prospettive future della terapia psicoanalitica, (1910) in OSF, vol VI, Boringhieri Ed., Torino 1979, pag.203

Relazione presentata al primo festival “Il cormorano” ( n.d.r. )