Il fiore del male

di Laura Grignola
fonte Il Cormorano, numero 1, anno V
Dall’illusione di una scienza salvifica e saturante, capace di riempire di senso onnipotente l’esistenza dell’uomo, garantendogli sicurezza e benessere, siamo passati alla delusione …

 

Dall’illusione di una scienza salvifica e saturante, capace di riempire di senso onnipotente l’esistenza dell’uomo, garantendogli sicurezza e benessere, siamo passati alla delusione perché, nella sua proliferante espansione, la scienza non ci riverbera più significati per la nostra esistenza, categorie di valori e di pensiero che ci permettano di ordinare la nostra conoscenza e di finalizzarla al benessere e al progresso.

Ci troviamo di fronte ad una scienza che si fa sorprendere sempre più succube e asservita agli interessi di mercato, sempre più dedita all’acquisizione di un potere economico, quale Minotauro a cui sacrificare, giorno dopo giorno spontaneità, bisogni reali, creatività.

Nel tentativo di afferrare più esperienze possibili e di raggiungere qualche certezza spingiamo il film della nostra vita ad una velocità sempre maggiore, con l’unico effetto di una spolverata di comicità sui nostri dolorosi e tragici tentativi di esistere.

Senza più convinzioni religiose, o scientifiche, o etico-politiche, ciò che ci rimane è il nichilismo? Oppure abbiamo qualche soluzione diversa?

In realtà la psicoanalisi con la sua impostazione epistemologica attuale e la sua metodologia clinica suggerisce soluzioni diverse che non afferiscono né al pensiero nichilista, né all’ottimismo enfatico della tradizione giudaico-cristiana.

Nella costellazione concettuale psicoanalitica termini quali diavolo, male, distruttività, follia, narcisismo trovano una loro contestualizzazione articolandosi dinamicamente non solo tra loro ma anche con concetti che potremmo considerare di segno opposto.

Partendo dall’etimologia provo a tracciare un itinerario che ci aiuti a capire il rapporto che c’è tra diavolo e funzionamento mentale.

La mente nasce come istanza organizzatrice dell’esperienza corporea, ha il compito di tradurre in senso simbolico l’esperienza stessa dopo averla segnata linguisticamente e marcata con una colorazione emotiva derivante dalla relazione con l’ambiente-madre. In questo lavoro di trascrizione la mente può procedere di simbolo in simbolo, può accettare di comprendere lo stimolo proveniente dalla realtà e il suo significato affettivo, oppure può disunire dato di realtà dal suo significato emotivo o focalmente o come rinuncia totale alla specifica funzione simbolopoietica. Vediamo quindi sulla scena mentale il diabolo come forza disgregatrice e il simbolo come spinta all’integrazione. Quindi il male viene ad identificarsi con il diabolo e cioè con il potere anticonoscitivo che tende a distruggere i nessi tra esperienza e significato emotivo. Nel pensiero, cioè, le strutture logiche si contrappongono diabolicamente alle strutture affettive allo scopo di rimuoverle, di rimuovere gli affetti primordiali la cui integrazione nei processi conoscitivi è in realtà essenziale. Se tali affetti primordiali non giungono mai alla coscienza, possiamo sfuggire la frustrante impasse dell’esclusione edipica e la sua necessaria, faticosa elaborazione. Ma l’interruzione dei nessi e la rinuncia alla funzione simbolica porta alla follia. La follia è dunque sempre diabolica e la cultura può esserlo altrettanto.

A questo proposito, nella prima Critica, Kant si preoccupa per la purezza della ragione e contemporaneamente e paradossalmente riconosce l’interesse per tutto ciò che esula da tale purezza.

“Noi abbiamo fin qui (…) percorso il territorio dell’intelletto puro (…) e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. E’ la terra della verità, circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci prossimi a liquefarsi danno ad ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure alle quali non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo” (p.243).
Quindi anche in Kant troviamo la tentazione diabolica di preservare la purezza della ragione isolandola da tutto ciò che per il suo incessante divenire non può essere inscritto in leggi ben definite. Da una parte l’isola della verità dai confini immutabili, dall’altra l’oceano tempestoso e irresistibile dell’apparenza che solo la metafora può percorrere, facendosi strada tra nebbie e ghiacci prossimi a dissolversi.

La strada della psicoanalisi, nel suo faticoso percorso in seno alla cultura al fine di restituirle significati affettivi, è anch’essa disseminata di diaboli pronti a tentarla e a pervertirla.

La tentazione, la tentazione diabolica, è sempre quella di costruire un modello di scienza definitoria che ci liberi dall’obbligazione a perseguire dialetticamente e continuativamente il senso della nostra esperienza psico-fisica. Il seme della follia è dunque proprio questa non accettazione dell’angoscia che l’incerta navigazione nell’oceano tempestoso comporta. La genesi del male, il senso del patto faustiano, è proprio la ricerca di una sorta di facilitazione esistenziale, è la richiesta, implicita e non riconosciuta, di rimanere nella protezione del grembo materno e di evitare la fatica di vivere. Proprio perché non riconosciuta, anzi negata, questa richiesta di facilitazione esistenziale viene agita continuamente, si insinua pericolosamente in ogni ambito, dalla vita pratica alla teorizzazione scientifica. Il progresso ci deve aiutare, la medicina, gli psicofarmaci, le tecniche psicoterapeutiche, i servizi sociali… L’unico luogo dove non vogliamo essere aiutati e di cui neghiamo di aver bisogno è proprio la stanza d’analisi, l’unico luogo dove questa esigenza è istituzionalizzata, riconosciuta, legittimata anche se pro tempore.

Come dicevamo, anche sul piano scientifico ritroviamo la stessa incapacità di riflessione introspettiva, la stessa intolleranza per la fatica e la pazienza che una riflessione continuamente in fieri comporta, la stessa insofferenza per l’immagine di una scienza che rinuncia alla sua purezza e si lascia contaminare e lambire dall’oceano del divenire, in contrasto con l’intero corpo del sapere scientifico e in particolare della biologia. L’impostazione epistemica della psicoanalisi ha come suo epifenomeno la cura della malattia mentale e costituisce in sé anche l’antidoto nei confronti della perversione scientista che liberatasi proditoriamente dalla zavorra delle emozioni, costruisce il suo mondo artificiale con la stessa velocità esplosivamente destruente e parassitaria di un agglomerato canceroso.

Ma prima di continuare su questo tema epistemologico mi pare importante dire che cosa è l’attività mentale e come essa abbia bisogno di suoi specifici parametri interpretativi che non sono quelli della fisica e della biologia in senso stretto, perché è proprio in questa specificità del mentale che si colloca il disturbo mentale. Se vogliamo addentrarci nell’ambito della psicopatologia e vogliamo pensare a possibilità trasformative da situare nella nostra pratica clinica, non possiamo prescindere da questi specifici parametri.

Per esempio, se nella rappresentazione mentale dello spazio non abbiamo difficoltà ad affermare che per un punto passano infinite linee, nel momento in cui cerchiamo di tracciare queste linee su di un foglio ne possiamo realizzare solo un numero finito.

Qualsiasi dato mentale, nel momento in cui si cerca di rappresentarlo attraverso il pensiero verbale, viene limitato dal pensiero stesso.

Nel momento in cui il pensiero libera l’intuizione, “…ci si trova di fronte al conflitto tra lasciare inespressa l’intuizione e l’esprimerla”(Bion).

Lo spazio mentale, non conoscibile nella sua essenza, può essere rappresentato da pensieri. L’elemento restrittivo della rappresentazione può diventare un ostacolo. Se non so accettare la frustrazione che tale restrizione mi arreca, devo rinunciare al sollievo costituito dalla potenzialità simbolica del pensiero stesso e devo rinunciare anche alla trasformazione del materiale preverbale. Non potrò quindi riflettere sull’esperienza e giungere ad una adeguata analisi del reale.

Se io ho rinunciato a pensare in termini geometrici, se nella mia mente non esiste l’equipaggiamento che mi permetterebbe di cartografare la realizzazione mentale dello spazio, quando mi trovo di fronte ad una esperienza alla quale reagisco con una identificazione proiettiva, accade allora che la proiezione avvenga in uno spazio mentale per la cui rappresentazione non esistono immagini visive possibili: non quella del solido dalle molte sfaccettature, non quella
“della figura multidimensionale multilineare le cui linee si intersecano in un punto. La realizzazione mentale dello spazio è perciò sentita come un’immensità così grande da non poter essere rappresentata neppure per mezzo dello spazio astronomico in quanto non può essere rappresentata affatto” (Bion pag 19-20).
L’emozione si dissolverà in una immensità sconfinata.

Di fronte a questa vastità la paura è così immensa e indicibile che non potrà essere tradotta in esperienza, pensiero, riflessione ma potrà essere saturata solo dall’onniscenza, da un pensiero psicotico che produrrà non la faticosa analisi del reale ma il delirio, l’equazione simbolica. Dovendo affrontare un dolore troppo grande e una turbolenza emotiva intollerabile, la mente non sarà in grado di trattenere dentro di sé l’esperienza per trasformarla in riflessione e conoscenza; potrà solo reagire non soffrendo il dolore, evacuandolo, e colmando il conseguente vuoto di pensiero con la produzione di certezze e di significati pseudo simbolici atti a sedare questa turbolenza e a bloccare il divenire del senso simbolico. E questo avviene sia sul piano individuale, sia sul piano della coppia, sia a livello del gruppo, indifferentemente e parallelamente.

E’ la paura di questo contatto con l’informe che porta la mente, a livello di pensiero patologico, a saturare in termini pseudo simbolici ciò che per divenire un simbolo avrebbe implicato la tolleranza di un quid di mistero e di insoluto.

Anche l’organizzazione del pensiero scientifico e di quello politico può cercare di proteggere la mente dal dolore della mancanza di certezze in cui, nella sua coazione epistemofilica, ricorsivamente la mente incappa. E può attuare questa protezione con l’affermazione apodittica di certezze scientifiche che non esistono, imbrigliando il pensiero in una rete di realizzazioni maniacali che fanno riferimento al mantenimento rassicurante di una posizione di potere; quindi fanno riferimento più alla parte onnipotente e narcisistica della personalità che a quella affettiva.

Perché la mente abbia il coraggio di essere ‘ricercatore errante delle proprie verità, non assolute ma significative per il breve spazio del qui e ora, deve poter avere molta rassicurazione e molta protezione. E non deve essere continuamente sollecitata in senso narcisistico e competitivo. Aprirsi alla verità senza pregiudizi non è facile. Bisogna procedere lentamente, senza fretta, dalla realtà sensuale verso quella psichica, bisogna attendere l’emergere di un pattern e poi intuirla, questa realtà mentale, questa verità. Bisogna apprendere dall’esperienza, osservare i fatti, per quanto possano apparire ripetitivi, fino a che una qualche configurazione incomincia ad affiorare. Ma essa
” può essere terrorizzante e rivelare brutalità, ingordigia, una distruttività demenziale e impulsi cannibalici e così il desiderio di continuare la ricerca viene gelato sin dall’inizi. Allora cancelliamo rapidamente la nostra consapevolezza e ci lasciamo di nuovo ricadere nel nostro autocompiacimento onnisciente. Bion ci ha incoraggiato ad abbandonare la comodità psicologica, ad avventurarci nello sconosciuto e a rischiare il terrore.” [Symington, Il pensiero clinico di Bion, Cortina Ed., Mi 98,p.200].
Perché la mente abbia il coraggio di affrontare tutto questo ha bisogno di molte cure, ha bisogno di una grande accoglienza, ha bisogno di relazionarsi a menti che abbiano sentito un’analoga esigenza di verità, un’identica esigenza di affrontare con coraggio e pazienza, dandosi il tempo necessario, una prova analoga a quella che si chiede al paziente o all’allievo.

In realtà nessuno può negare davvero l’esistenza di una mente al lavoro, ma comunemente si ritiene che non valga la pena scandagliarla, scannerizzarla, in quanto non si può giungere a dei dati certi. Quindi più che conoscerla si ritiene valga la pena controllarla. Controllarla attraverso l’esercizio di una qualche prassi ideologica che comporti l’adeguamento a rituali prestabiliti; controllarla con degli esercizi psicofisici, con delle terapie “psicagogiche” come le chiama qualcuno, con dei farmaci che sopprimano la colorazione emotiva dell’esperienza. Se conoscenza ci deve essere, allora possiamo essere tentati di fermare il divenire della mente, isolarla rispetto alla relazione, renderla inerte, astratta, ipostatizzarla. Allora è possibile congegnare delle tecniche per decriptare, misurare…

Ad esempio i reattivi psicodiagnostici, le valutazioni statistiche… Cioè tradurre in numeri, quantificare, definire, estrapolare dalla relazione, dal contesto, dalla storia, dal soggetto…

Questo negare l’esistenza di un mondo interno e di un’attività spesso inconscia ma nel tempo conoscibile, fa sempre capo a quel divieto di Giocasta ad indagare oltre e a promuovere l’epistemofilia così spontanea per la mente. E risponde anche al desiderio di evitare la tensione provocata dal fondare il proprio sapere non su delle prove matematiche rassicuranti ma sulla ricerca continua, sull’incertezza dell’imprevedibilità altrui, sul non sapere mai se ce la si può fare, sul non avere nessuno che sia davvero in grado di rassicurare. E’ la tensione dell’avventura in un mondo sconosciuto di cui ignoriamo anche i confini e che ci mette a repentaglio ad ogni passo.

In realtà proprio questa possibilità di rimanere nell’incertezza e nell’insaturo promuove i processi trasformativi dell’esperienza psicoterapeutica resi possibili dal fatto che -come dice Edelman- la memoria in un certo senso ricostruisce il ricordo alla luce delle esperienze successive. In altre parole, essa non consiste in una registrazione permanente situata nel cervello e isomorfa all’esperienza passata; al contrario è una ritrascrizione dinamica legata al contesto e stabilita per mezzo di categorie. Per questo può esserci psicoterapia: la mancanza di reverie nel rapporto con la madre, i traumi affettivi possono essere superati nella relazione con il terapeuta.

Ma tutto questo richiede molto tempo, molto tempo dedicato a quella zavorra emotiva di cui ci si vuol liberare. Società e famiglia ci offrono, con notevole sollecitudine, bisogna ammetterlo, un prontuario di comportamento e una griglia di valori che ci permettono di realizzare con una certa disinvoltura quella normopatia ideale che è poi il buon compromesso tra il sapere e il non-sapere, tra l’essere e il non-essere. Possiamo così facilmente diventare tutti scienziati ignoranti che vivono senza esistere. Ed è questo in fondo l’identikit emotivo dell’uomo del nostro secolo.

Tra incentivi e divieti la mente impara a difendersi, a strutturarsi sulla logica della scissione e delle microscissioni rinunciando cioè ad una visione binoculare e quindi ad un processo integrativo. Di frattura in frattura ci troviamo di fronte ad una mente che si preoccupa di nascondere le proprie istanze narcisistiche, il proprio progetto faustiano che ha come contropartita la solitudine e l’incapacità affettiva.

Del resto lo psicoanalista non può contare su una sorta di immunità diplomatica. Di fronte al dolore che temiamo di non saper tollerare ed elaborare, di fronte alle lacrime che temiamo di non saper piangere, paralizzati dal conflitto tra invidia e amore, di fronte alla tentazione di liberarci dal peso della riflessione dialettica attraverso un pensiero ontologicamente già tutto dato, l’istanza mafiosa può portarci tutti, psicoanalisti e non, ad una propaganda alternativa rispetto alla verità stessa. Può portarci tutti ad una attività pseudosimbolica perversa, allo scopo di idealizzare gli aspetti distruttivi della mente quali momenti di forza, rispetto a quelli affettivi confusi con dipendenza e debolezza. A sostenere, infine, la morte come preferibile alla vita.

Relazione introduttiva al secondo Festival del Cormorano ( n.d.r. )