Il gioco condiviso: creatività e psicoterapia

di Loriana D’Ari
Il bambino si sta ora approntando per lo stadio successivo, che è quello di ammettere una sovrap-posizione delle due aree di gioco, e di goderne. Dapprima, certo, è la madre che gioca col bambino. Ma essa sta piuttosto attenta a inserirsi nelle attività di gioco del bambino. Presto o tardi, tuttavia, essa introduce il suo proprio gioco, e trova che i bambini variano, a seconda della loro capacità di accettare o di rifiutare la introduzione di idee che non sono le loro. In questo modo la strada è a-perta per giocare insieme in un rapporto. (Winnicott 1971, trad. it. p. 94).

 

1. DAL GIOCO IN COMUNE ALL’EREDITÀ CULTURALE

Il bambino si sta ora approntando per lo stadio successivo, che è quello di ammettere una sovrap-posizione delle due aree di gioco, e di goderne. Dapprima, certo, è la madre che gioca col bambino. Ma essa sta piuttosto attenta a inserirsi nelle attività di gioco del bambino. Presto o tardi, tuttavia, essa introduce il suo proprio gioco, e trova che i bambini variano, a seconda della loro capacità di accettare o di rifiutare la introduzione di idee che non sono le loro. In questo modo la strada è a-perta per giocare insieme in un rapporto. (Winnicott 1971, trad. it. p. 94).
Giocare insieme di fantasia è condividere non (sol)tanto uno stesso spazio fisico e oggettivo, né quella particolare costellazione di fantasie che chiede di passare il con-fine e di cui il gioco si nutre, quanto piuttosto il vissuto stesso del bambino e la sua più riuscita creazione: la realtà che lui è in quello spazio vitale che dischiude con le sue mani vivendolo, mentre il mondo esterno si allontana; una conquista ancora troppo vulnerabile ed esposta alla violenza e all’intrusione per poterla condividere con chiunque:
Vi è nei casi di precoce venir meno dell’attendibilità dell’ambiente un altro possibile pericolo, cioè che questo spazio potenziale può riempirsi di ciò che vi viene intromesso da persona diversa dal bambino. Sembra che qualunque cosa si trovi in questo spazio che proviene da qualcun altro è ma-teriale persecutorio ed il bambino non ha modo di respingerlo. (Ibid. p. 175).
Ci sono senz’altro momenti in cui bambini anche molto piccoli si divertono insieme, ma in realtà ognuno gioca la propria fantasia tessendo semplici trame narrative che corrono magari vicinissime, ma sempre su binari paralleli. E quando poi viene il tem-po del gioco sociale i bambini si concedono ancora un breve periodo di prova, e in-tanto apprendono la lezione della reciprocità nell’alternanza dei turni e nello scam-bio complementare dei ruoli, ma sempre in assenza di qualsiasi elemento di finzione immaginaria condivisa:
Nel gioco sociale di fantasia, infatti, entrambi i partecipanti seguono un copione, introducono con-tenuti simbolici e si rendono conto che l’altro recita una parte. (…) Nel gioco sociale puro e sempli-ce, tuttavia, i bambini non comunicano il significato delle loro azioni, benché possano fare a turno e scambiarsi i ruoli. Nel gioco sociale di fantasia si aggiunge quindi un elemento importante: la comprensione che l’altro recita una parte nel quadro di una semplice struttura narrativa. (Singer D. G., Singer J. L. 1990, trad. it. p. 89).
Solo allora veramente condividono la stessa illusione, partendo ognuno dai propri bisogni e desideri e con mezzi/fini personali, e se hanno scelto d’incontrarsi a questo punto un buon motivo ci sarà, anche se non lo conoscono; forse c’è un’emozione senza parole che li accomuna e li rende simili, pur così diversi l’uno dall’altro, e alla fine ciascuno le conferirà il significato che stava cercando, e che è stato trovato, cre-ato. Ma forse ancor prima il bambino impara a sovrapporre il suo gioco a quello dell’adulto che si prende cura di lui, e in tal caso essi condividono il vissuto, lo stru-mento e l’obiettivo di crescere insieme:
Nel gioco il bambino si comporta sempre in modo superiore alla sua età media, al di sopra del suo comportamento quotidiano; nel gioco è come se lui fosse un palmo più alto di se stesso. Come nel fuoco di una lente d’ingrandimento, il gioco contiene tutte le tendenze evolutive in una forma con-densata ed è in sé una fonte principale di sviluppo. (Vygotskij 1978, trad. it. p. 150).
La zona di sviluppo prossimale di un bambino è quell’area compresa tra il suo attua-le livello di sviluppo determinato dal problem-solving autonomo, e il suo livello po-tenziale attualizzato in collaborazione con un adulto, o con coetanei più capaci, sempre che il compito proposto al bambino non gli si riveli scontato, né eccessiva-mente impegnativo; e di certo su questo punto Winnicott e Vygotskij si sarebbero trovati d’accordo:
La seconda necessità è, per coloro che si occupano di bambini di tutte le età, di essere pronti a por-re ciascun bambino in rapporto con gli elementi appropriati dell’eredità culturale a seconda della capacità del singolo bambino e della sua età emozionale, e della fase di sviluppo. (Winnicott 1971, trad. it. p. 188).
Perché nessuno può mai trovare alcun significato nelle cose del mondo che la sua mente non abbia già in qualche modo anticipato, e così anche il bambino accoglierà ciò che gli è offerto solo fino al punto in cui è in grado di presentirlo, d’immaginarlo come parte di un gioco. Questa è la sola strategia vincente, l’unico approccio vera-mente sensato al patrimonio culturale condiviso dalla famiglia, e poi dal gruppo so-ciale e forse dall’umanità intera: tutto va immaginato, trovato/creato e vissuto e an-cora trasformato, infine rimesso in circolazione con una qualità propria della prima volta, del rinnovamento e della scoperta.
In un certo senso allora ogni forma di conoscenza è pura illusione, ed è vera in quan-to tale, perché non esce dal dominio della possibilità e non sopporta la dittatura del controllo razionale, e non si lascia addomesticare dal soggetto cui preesiste, né dall’oggetto in sé con cui non ha relazione. Perché la conoscenza è compromesso, è negoziato in quello spazio terzo che allenta la morsa del principio di realtà per tutti quelli che vi credono, e non può essere messo in dubbio da nessuno.
Quest’area intermedia di esperienza, di cui non ci si deve chiedere se appartenga alla realtà interna o esterna (condivisa), costituisce la maggior parte dell’esperienza del bambino, e per tutta la vita viene mantenuta nella intensa esperienza che appartiene alle arti, alla religione, al vivere immagi-nativo ed al lavoro creativo scientifico. (Ibid. p. 43).
Conoscere un oggetto è farne esperienza, sentirlo vivere del ritmo vitale del proprio respiro, all’unisono con l’emozione che noi siamo prima di battezzarla col pensiero; non c’è altro modo all’infuori di questo, e tutto il resto non viene assorbito né dige-rito, ma espulso soltanto. Questo significa che possiamo conoscere soltanto ciò che ci emoziona, proprio a partire da quella tonalità affettiva originaria e indifferenziata che resta al di qua dell’elemento ?, l’O che ci precede come vuoto di determinazioni, come cosa in sé:
Un uomo mentre parlava di un’esperienza emotiva in cui era coinvolto profondamente, cominciò a balbettare malamente, via via che la memoria di quell’esperienza gli diventava più viva. (…) stava cercando di contenere le proprie emozioni nell’ambito di una forma di parole (…) Le parole che a-vrebbero dovuto rappresentare il significato che l’uomo voleva esprimessero furono frammentate dalle forze emotive alle quali egli desiderava dare soltanto un’espressione verbale. (Bion 1970, trad. it. pp. 129/130).
Winnicott l’avrebbe chiamato Informe, e cioè il caos prima di qualsiasi realizzazione, la fonte all’origine di tutte le successive trasformazioni, il Simbolo come matrice ori-ginaria di ogni genere di rapporto, compreso quello esperienziale/conoscitivo.
C’è dunque un elemento essenziale che fonda il processo stesso di conoscenza in ogni sua forma, e che non ha bisogno di essere messo in comune perché già nasce condiviso all’interno di un tessuto relazionale:
Il processo del pensiero, per Bion, non è un problema dell’individuo isolato, avulso dal contesto re-lazionale, bensì dipende dalle interazioni, relazioni e rappresentazioni di sé e degli altri.(…) Utiliz-zando la teoria kantiana, Bion fa cominciare il processo della rappresentazione proprio a partire dalle emozioni, che definisce elementi ? o cosa-in-sé, cioè sensazioni, percezioni. Tali elementi sono elementi grezzi, percetti, emozioni slegate e quindi prive di un significato definito, in quanto avulse da una trama integrata di pensiero. (Casadio 2004, p. 100).
Un insieme di individui può essere un campo interpersonale, ma non è un gruppo fi-no a quando non intervenga un assunto di base o affetto condiviso a ristrutturarlo, amalgamandolo in una nuova entità capace di una propria elaborazione emotiva, in un nuovo soggetto transpersonale, “un luogo in cui prendono forma fantasie ancora indeterminate, uno speciale spazio o contenitore relazionale e mentale in cui si rea-lizzano trasformazioni emotive e processi di pensiero” (Neri 1995, p.15). Così ogni contesto gruppale condivide l’urgenza di descrivere la stessa realtà intersoggettiva al fine di poterla meglio comprendere e utilizzare, come anche un insieme di vissuti ribelli legati ad azioni concrete, da gestire e da far crescere; e tuttavia fino a questo punto non vi è sovrapposizione, quanto piuttosto comunanza di situazioni e condi-zioni di partenza.
Il viaggio comincia quando nasce una cultura di gruppo intesa come insieme di si-stemi di elaborazione del senso, come sua semiosfera (Lotman 1985):
Ogni nuovo contributo di un singolo, tanto derivato dall’apporto di una nuova immagine, che di una nuova trama narrativa oppure di una modalità di essere-con-l’altro (procedurale, tacita), va a
incidere sull’intera semiosfera e la modifica nelle sue interazioni tra le parti (…). Con la formulazio-ne di nuove ‘procedure’, di nuove modalità di relazione di essere-con-l’altro (..) nascono nuove im-magini e la formulazione di trame narrative viene a modificare, a rendere dinamica la semiosfera di un gruppo, la cultura di appartenenza che non è mai statica, ma sempre in continuo processo di-namico di creazione di nuovi ‘discorsi’ e connessioni tra formati differenti e irriducibili. (Casadio 2004, p. 76).
Ogni società ha la sua semiosfera, intessuta di segni-simboli e rituali condivisi a co-stituire un patrimonio di conoscenze comuni in continuo divenire, la propria eredità culturale che ogni membro creativo può modificare e far evolvere, trasformare me-diante un’azione o un’immagine che rappresenta il suo contributo originale, in una tensione dialettica tra tradizione e innovazione che dischiude ampi spazi di libertà per individuo, spazi di transizione:
Nel fare uso della parola cultura io penso alla tradizione che si eredita. Penso a qualcosa che è par-te del patrimonio comune dell’umanità, a cui i singoli e i gruppi di individui possono contribuire, e da cui tutti noi possiamo attingere se abbiamo un posto dove mettere ciò che troviamo.(…) Mi in-teressa tuttavia, come argomento collaterale, che in ciascun campo culturale non è possibile esse-re originale eccetto che sulla base della tradizione. (Winnicott 1971, trad. it. p. 171).
Per un verso, ogni sorta di contributo al patrimonio culturale condiviso da parte del soggetto acquista il valore di un dono offerto all’intera umanità, qualcosa che tende ora all’intersoggettività, che si allontana da lui per assumere un’esistenza quasi-indipendente; questo è il versante “obiettivo” della sua opera, al quale egli dovrà in qualche modo rinunciare:
Il bisogno di produrre alla fine un’opera d’arte, che deve essere prodotta nel mondo esterno e da cui ci si deve separare, spesso causa un’intensa sofferenza. (…) Insieme al conseguimento e al trion-fo del finire, c’è sempre un processo molto doloroso di separazione. Un importante aspetto della riparazione consiste nel lasciar andare l’oggetto. E un altro aspetto riparativo è naturalmente il dono al mondo della propria opera da parte dell’artista. (Segal 1991, trad. it. p. 115).
Nonostante sia chiaro a tutti che l’opera in questione è e resterà sempre parte di quel singolo artista che l’ha concepita.
Ma prima di tutto, a fondare la possibilità della conoscenza in ogni sua forma c’è un processo transizionale di tipo preverbale, che lega insieme vissuti e domini esperien-ziali/conoscitivi in immagini impregnate di emozioni condivise, metafore embrionali capaci di rappresentare il fuori di ogni realtà sociale (Foucault 1986), tutto ciò che non è attualmente dicibile, di cui ancora non si può parlare:
I processi simbolici prototipici del sistema non verbale svolgono questa funzione integrativa e nor-mativa. I moduli PDP (in parallelo), che non possono collegarsi direttamente l’uno all’altro possono essere collegati indirettamente nel sistema non verbale mediante l’associazione a immagini speci-fiche e al loro verificarsi in momenti specifici. (…) I moduli non verbali/non simbolici elaborano le informazioni sistematicamente, ciascuna nel suo formato specifico, senza attenzione, intenzione e direzione verso un obiettivo specifico. I collegamenti multipli con le immagini discrete – formato non verbale m a simbolico – consentono il collegamento indiretto di questi moduli tra loro e con i
loro sistemi di elaborazione simbolica. Ciò costituisce anche l’ingresso di questi modelli non verbali nella vita cosciente. La verbalizzazione, a livelli diversi, segue da ciò e con ciò interagisce. (Bucci 1990, p. 162).
L’immagine è transito sensibile e immediato da ? ad ?, ponte gettato tra il vissuto esperienziale e la sua rappresentazione simbolica, traduzione e integrazione di azio-ni/emozioni oscure e slegate in storie pregne di significato.
L’arte e la musica, il cinema e la letteratura, e così ogni altra forma di conoscenza ed esperienza culturale comunicano per immagini del sogno e del mito, realizzate da un artista/mistico capace di far vibrare a lungo in sé l’emozione condivisa dal contesto sociale, far risuonare la domanda collettiva sull’identità e sul senso della vita stessa per poi rimetterla in circolazione in forma nuova, accessibile per chiunque. Come una madre per tutti i suoi figli.
Ma l’evolversi della conoscenza è segnato non da semplici immagini isolate fini a se stesse, quanto piuttosto dal loro precipitare congiunto in vere e proprie metafore di riferimento che, come rappresentanti di un’unica classe proposizionale a comune tonalità affettiva (Matte Blanco, 1975), come fatti scelti (Bion, 1962) a racchiudere potenziali definizioni di sé e del mondo, reintroducono la dimensione dell’informe, insinuando il dubbio sul passato e la speranza nel futuro:
L’arte ‘mette in disordine la vita, i poeti dell’umanità ristabiliscono ogni volta il caos’ come diceva Karl Kraus, e quindi per loro natura si oppongono ad una teoria precostituita delle cose, alla narra-zione schematica della scienza o della società, per proporre aperture, nuove possibilità, altre piste da seguire. L’arte ci riporta a un’esperienza sensibile e ci mostra come ogni conoscenza sia un mo-dello, un’ipotesi, un’immagine che ha un valore limitato e un campo definito e che non possiamo estendere come una descrizione oggettiva del mondo. (Casadio 2004, p. 230).
Queste metafore del cosmo che ispirano dapprima avanguardie artistiche e teorie filosofiche, per poi trasformarsi in paradigmi di ricerca che spalancano nuovi campi di indagine scientifica, saranno infine accolte e assimilate all’interno del tessuto so-ciale, usate e abusate fino a svuotarsi di significato come parole ripetute troppo a lungo, metafore morte prive di nuove referenze. Ma a quel punto avranno piena-mente assolto la loro funzione trasformativa.
L’esperienza culturale è un fenomeno transizionale che si esprime simbolicamente per immagini nude, o tradotte in parole e razionalizzate in teorie astratte, ma pur sempre in grado d’innescare una reazione a catena di infinite trasformazio-ni/innovazioni essenzialmente creative; essa si nutre di immagini che veicolano af-fetti nell’interfaccia tra mondi interni di credenze e fantasie (dei singoli, dei gruppi) e realtà esterna condivisa, di icone emergenti come neostrutture capaci di rappresen-tare la relazione degli individui tra loro e con il mondo esterno.
Ma c’è per tutti un’altra possibilità, perché a suo modo l’esperienza della Fede è anch’essa illusione condivisa che sorge dalla rottura del paradiso fusionale origina-rio, dal sentimento del vuoto e della perdita, ed è proprio di questo richiamo all’Assoluto che si alimenta la tensione umana verso la trascendenza; d’altra parte,
l’aderire a una dottrina religiosa può avere valore transizionale solo se nell’ambito di questa tensione il credente ritaglia un suo spazio di libertà, nel senso di un’appropriazione personale del repertorio di segni-simboli religiosi istituzionalizza-ti: fino al punto cioè in cui gli è concesso d’infondere il suo significato nelle azioni ri-tuali che compie, nel pane e nel vino condivisi, nelle sue preghiere. Solo così questo Dio è il mio Dio, quando ha il volto che gli ho dato nell’atto di crearlo, pur essendo lo stesso per tutti coloro che vi credono da millenni, ciascuno nella sua maniera che non può e non deve essere quella di un altro:
Dell’oggetto transizionale si può dire che vi sia una intesa tra noi e il bambino sul fatto che noi non porremo mai la domanda: “Hai concepito tu questo o si è presentato a te dal di fuori?” Il fatto im-portante è che non ci si aspetta nessuna decisione su questo punto. La domanda non va formulata. (Winnicott 1971, trad. it. p. 40).
Per Ana Maria Rizzuto, analista di training e supervisore al Psychoanalitic Institute of New England di Boston, Dio è un oggetto transizionale creato sul modello delle e-sperienze relazionali primarie, ma con in più la prerogativa propria dell’immagine mentale di restare accessibile pur nell’assenza: “E’ questa sua caratteristica di essere sempre a disposizione per ricevere amore, gelido disprezzo, maltrattamenti, paura, odio e qualsiasi altra emozione umana che conferisce all’oggetto Dio il suo valore psichico”. (Rizzuto 1979, trad. it. p. 180).
Come la madre dei primi tempi, l’orsacchiotto o il compagno immaginario.
Ma non sempre accade che l’esperienza religiosa abbia una valenza strutturante l’identità e l’autonomia del soggetto:
(…) Anche la religiosità, quando perde le sue valenze di oggetto transizionale, può incontrare, ad esempio, la deformazione feticistica: gli oggetti religiosi si riducono a talismani, i personaggi reli-giosi diventano degli idoli, i riti religiosi scadono a rituali ossessivo-compulsivi, la fede si corrompe in dogma o ideologia, la relazione religiosa è dominata dalla paura, dall’obbedienza passiva, dal moralismo. Per parte sua, la deviazione autistica dell’esperienza religiosa è riscontrabile in molte-plici manifestazioni: dal rifiuto della mediazione comunitaria con accentuazione dello spontanei-smo emozionale, alle allucinazioni proiettive, magari sotto forma di “visioni”, o deliri di identifica-zione con la divinità o di possessione diabolica, fino a fenomeni di grande rilevanza sociale, come i fondamentalismi e gli integrismi di diverso livello. (Aletti 1996, p. 33).
Del resto proprio questa è la funzione assolta dal simbolo religioso, di tendere all’unione con la trascendenza e l’Assoluto mantenendo salda la differenza tra O ed ogni possibile K mediata di O, tra Sé e non Sé, tra Io e Dio:
Il simbolo non è solo la mistica trasformazione del sapere (K) in quel misterioso, imperscrutabile “O” (Bion), che sta per l’ultima, assoluta realtà (Dio). Si ha successivamente una nuova trasforma-zione di O in K, in una sensibile, ma ora mediata, possibilità di esperienza emozionale. Il segno-simbolo, con la sua proprietà irriducibile, indica quell’Altro che è presente solo nella modalità dell’assenza e che nello stesso tempo funge da container il cui contenuto (contained) favorisce la fiducia nel possibile collegamento con questa assoluta realtà e attualità (“faith in O”). (Stickler 1996, p. 17)

2. LA RELAZIONE TERAPEUTICA

La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di porta-re il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace. (Winnicott 1971, trad. it. p. 79).
In fondo la psicoterapia non è che un’altra forma altamente raffinata di gioco condi-viso, un rapporto di prova in grado di dischiudere nuovi gradi di libertà per l’individuo, così come la cura è nient’altro che l’esito auspicabile, fortemente cerca-to e voluto, di questo processo: ma l’essenziale è pur sempre il gioco in quanto tale, senza ulteriori complicazioni.
Il gioco è in se stesso terapeutico, perché tesse legami di senso tra spazio e tempo, realtà e fantasia, separazione e unione, perché esclude la dissociazione favorendo la comunicazione, lo scambio e il progetto, almeno per chi può permettersi il lusso di restare sospeso come un cavo in tensione tra sé e il mondo. Questo non è da tutti e non è cosa da poco, pur essendo naturalmente possibile per ciascuno; e tuttavia una persona sana e matura può vivere la maggior parte del tempo sull’orlo dell’abisso senza saperlo, salutando ogni volta con gioia quel suo temporaneo smarrirsi per ciò che di nuovo può portare, rischiando di mettere in gioco tutto in un colpo solo, compreso se stesso:
Sulla base della presenza di un simile stato, può essere tollerato senza ingiustificato disagio un li-vello molto elevato e crescente di assestamento interno e di scambio psichico. Può proseguire una continua autoanalisi, un ciclo di ritorno alla non integrazione e all’integrazione (..), e questi proces-si diventano coscienti solo di quando in quando, allorché viene raggiunta una certa soglia. (Little 1990b, trad. it. p. 135).
Qualsiasi cosa qui va rimessa in discussione, ma non la fiducia che fonda il sentimen-to di realtà, perché nulla esiste per l’individuo che non sa di essere reale; così quan-do il vero Sé è sepolto sotto spessi strati di menzogne, congelato nell’attesa di esser riscoperto e riportato alla luce, nemmeno la psicoterapia è una soluzione praticabi-le, ma è necessario un ritorno a quel tempo della doppia dipendenza in cui il falli-mento ebbe luogo, per poter fornire l’adeguato sostegno atteso dall’Io infantile tra-dito e dissociato:
Una teoria dello sviluppo dell’essere umano deve comprendere l’idea che è sano e normale per l’individuo poter difendere il Sé contro una carenza specifica dell’ambiente congelando la situazio-ne di carenza. A ciò si accompagna un’ipotesi inconscia (che può trasformarsi in una speranza con-scia): si presenterà, ad un’epoca successiva, l’occasione d’una nuova esperienza in cui la situazione di carenza verrà sgelata e rivissuta dall’individuo regredito in un ambiente in grado di offrire un adattamento adeguato. La teoria qui avanzata è quella della regressione facente parte d’un pro-cesso di guarigione. (Winnicott 1958, trad. it. p. 336).
Solo a queste condizioni altamente specializzate il processo dello sviluppo emozio-nale può ricominciare a fluire, così che partendo da qui ogni esperienza vissuta dal vero Sé sarà un’esperienza creativa: da questo momento il paziente può incomincia-re a giocare, ma l’inizio di questo gioco è una questione del tutto personale, da spe-rimentare nell’atmosfera ovattata della solitudine e del segreto, in uno spazio po-tenziale ancora essenzialmente privato e non condiviso.
Per l’occasione, l’analista resta sullo sfondo a raccogliere ogni più piccolo dettaglio di questa comunicazione preterintenzionale, affinché non vada perduta la sponta-neità del gesto ancora non organizzato, folle, intensamente reale; a questo livello anche l’interpretazione più azzeccata risulta intempestiva e priva di fondamento, perché la relazione oggettuale è stata neutralizzata, la realtà della coppia al lavoro temporaneamente sospesa, quella del terapeuta opportunamente inglobata nell’insieme dello scenario analitico, in margine all’esperienza creativa, nella veste di silenzioso custode del segreto. Per il paziente, è il tempo dell’essere e niente altro:
(..) Uno dei miei debiti nei confronti di Winnicott consiste nel fatto che egli mi ha insegnato a per-mettere al paziente, in quanto persona, di utilizzare la propria personale capacità di “restare ozio-so”. Se ne ha bisogno, egli deve poterlo fare anche durante la seduta analitica, senza avvertire una silenziosa ma pressante richiesta di riempire il silenzio fornendo continuamente materiale, o tor-mentarsi perché non è capace di associare liberamente. Il linguaggio umano e il rapporto interper-sonale sono creativi se una persona si esprime per mettersi in rapporto sia con se stessa che con l’altro e così realizzarsi a vantaggio di sé e dell’altro. Affinché ciò avvenga, la capacità di “restare in ozio”, serenamente soli in presenza dell’altro, è una premessa indispensabile. (Khan 1983, trad. it. p. 204).
E’ l’epifania del vero Sé, lo stato del prima in cui nient’altro esiste all’infuori dell’autoesperienza al punto zero, là dove non è ancora tempo per l’analista di palesare la sua presenza in altro modo che quello del respiro; così il paziente sa che entrambi vivono e sentono, testimoni l’uno della vitalità dell’altro, e per il momento tanto basta, anche se non è una condizione che possa protrarsi a tempo indeterminato. Non è nemmeno uno stato di cose, è un passaggio:
Qual è il valore che questa condizione può avere per noi? La risposta è un paradosso: un grande va-lore, e nessun valore. E’ un nutrimento per l’Io, una condizione preparatoria. Costituisce un sub-strato energetico per la maggior parte dei nostri sforzi creativi, e creando uno stato psicologico di non-integrazione e animazione sospesa (che è l’opposto del funzionamento mentale organizzato) permette quell’embriogenesi di esperienze interiori che distingue la vera creatività dalla produttivi-tà ossessiva. (Ibid., p. 201.).
Ma non è che a questo punto ciascun paziente possa condividere il suo gioco con quello del terapeuta, e non è nemmeno detto che lo voglia realmente, o che se la senta, perché l’area di sovrapposizione è pur sempre la stessa della separazione e dell’assenza, mentre giocare in solitudine con l’analista sullo sfondo a reggere la si-tuazione nel tempo è infinitamente più semplice, meno rischioso.
E tuttavia non può bastare, perché giocare insieme nel rapporto terapeutico implica l’accettazione della possibilità negativa di questo rapporto, come anche la capacità del paziente di collocare l’analista al di fuori dell’area dell’onnipotenza, nella realtà esterna condivisa; questo significa che qualsiasi fenomeno può essere utilizzato in maniera creativa, purché si mostri all’altezza di sopravvivere agli infiniti tentativi di distruzione inconscia operata in fantasia, senza scomparire per ritorsione o per ven-detta:
Molti dei nostri pazienti vengono con questo problema già risolto – essi possono usare gli oggetti e possono usare noi stessi e possono usare l’analisi, così come hanno usato i loro genitori, i loro fra-telli e le loro case. Tuttavia, vi sono molti pazienti, i quali hanno bisogno che noi siamo in grado di dare loro la capacità di usarci. Questo per loro è il compito analitico. Nell’andare incontro alle ne-cessità di tali pazienti, (..) un sottofondo di distruzione inconscia dell’analisi viene avviato: o noi vi sopravviviamo, oppure verremo ancora coinvolti in un’altra analisi interminabile. (Winnicott 1971, trad. it. p. 163).
Ormai la comunicazione a fondo cieco silenziosa per sempre non è più sufficiente, e d’altro canto la distanza sottesa al comunicare esplicito con la realtà assolutamente esterna, assolutamente altra, non può far danzare il nucleo del Sé abbastanza vicino al cuore delle cose da sentirsi reale; d’altro canto, il primo bisogno del Sé centrale potenzialmente creativo resta quello di non compromettersi, né contaminarsi nel freddo contatto col mondo degli oggetti obiettivamente percepiti:
Secondo me, nella persona sana c’è un nucleo della personalità che corrisponde al vero Sé della personalità scissa; questo nucleo non comunica mai col mondo degli oggetti percepiti e il singolo individuo sa che esso non deve mai essere in comunicazione con la realtà esterna o influenzato da questa. (…) Sebbene le persone sane comunichino e godano di questo comunicare, è pur vero l’altro fatto, ossia che ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto. (Winnicott 1965b, trad. it. p. 241).
La distanza ideale è quella dell’illusione, per cui il vero Sé comunica con le cose del mondo solo fino al punto in cui può sentirle sue proprie creazioni, e tuttavia dotate di fattualità e di esistenza autonoma anche al di fuori di lui, nella realtà esterna con-divisa:
Dobbiamo essere capaci di definire in termini positivi l’uso sano della non-comunicazione nella fondazione del senso del reale. Per far ciò può essere necessario riferirsi alla vita culturale dell’uomo, che è l’equivalente adulto dei fenomeni transizionali della prima infanzia e che è qual-cosa nella cui area la comunicazione avviene indipendentemente dal fatto che l’oggetto sia sogget-tivo o percepito obiettivamente. (Ibid. p. 238).
Che è poi l’area di sovrapposizione del gioco in comune nella relazione terapeutica. Date queste premesse, stabilita quella distanza minima che consente di entrare in relazione come individui separati, ciascuno con la propria costellazione di fantasie da proiettare entro gli stessi parametri del setting, l’analista si appresta ad allestire uno spazio libero da conflitti e sgombro della sua effettiva presenza fisica, in cui sia
possibile incontrarsi per creare insieme un vissuto d’illusione come brano di espe-rienza condivisa:
Mi rappresento questo processo come se due linee venissero da direzioni opposte, suscettibili di avvicinarsi l’una all’altra. Se si sovrappongono, vi è un momento di illusione, un brano di esperienza che il bambino può prendere sia come sua allucinazione sia come una cosa che appartiene alla re-altà esterna. (Winnicott 1958, trad. it. p. 184).
E’ lo spazio analitico in cui paziente e terapeuta giocano insieme, nel quale comuni-cano simbolicamente per immagini e affetti condivisi, l’uno con l’altro e ognuno con se stesso, avendo cura di tradurre questo patrimonio di vissuti che li unisce e separa a un tempo in parole cariche di significato, parole che curano:
Il linguaggio nella situazione analitica fabbrica in gran parte e trasforma le esperienze, e ciò vale sia per il paziente che per l’analista. E’ più che un veicolo del ricordo o del significato. E’ anche più che un porsi in relazione. E’ una vera esperienza che nasce dall’illusione, dalla fantasia e dal vissu-to. Come tale, è un prodotto artificiale la cui fabbricazione esige delle capacità dell’Io molto com-plesse in entrambe le parti interessate. (Khan 1974, trad. it. p. 257).
Ma per tutti coloro che come il bambino o il paziente grave, non potendo contare su tale forza dell’Io, tendono a trasgredire il tabù della motilità nello scenario analitico, esistono altre possibili vie per creare una maniera transizionale di comunicare all’interno di una relazione. E del resto anche Winnicott, mediante la sua “tecnica dello scarabocchio”, aveva già provveduto a fornire al piccolo paziente uno spazio potenziale del foglio, di cui entrambi potessero servirsi sia come area privata di se-parazione, sia come spazio intermedio condivisibile in cui interagire al servizio del gioco e della comunicazione simbolica.
Come lui anche Marion Milner, messa improvvisamente di fronte al disperato biso-gno di condivisione di Susan, affermava:
Guardai dapprima questo puro ammasso di disegni, pensando al suo disperato bisogno di contatto costante con un frammento di realtà esterna, che fosse “altro” e che corrispondesse tuttavia com-piutamente a ciò che veniva da lei stessa. (…) Mi sembrava anche che Susan, con i suoi disegni, co-struisse continuamente un ponte tra noi due, una base per comunicare, poiché pensavo che tutti i suoi disegni avevano potenzialmente un significato; anche se non ne capivo allora che una piccola parte, avevo almeno tentato di ricollegarli a ciò che nel corso degli anni era accaduto tra di noi. (Milner 1969, trad. it. p. 339).
In tempi più recenti, la “terapia configurante” di G. Benedetti si propone di agire sull’interiorità del paziente psicotico mediante esperienze figurative, icone elaborate in un’atmosfera di collaborazione reciproca e quindi rilette alla luce del transfert in atto nell’hic et nunc della situazione terapeutica; il fine dichiarato di questa nuova variante di terapia espressiva è la produzione di configurazioni armoniche in un con-testo interattivo, in grado di influenzare positivamente il processo di categorizzazio-ne dell’esperienza futura del paziente.
Nel descrivere un dipinto di una paziente schizofrenica, il contributo di Benedetti si riallaccia espressamente al concetto di “oggetto transizionale”:
(..) La paziente proietta se stessa e il terapeuta nell’immagine di un essere umano che si arrampica su di un albero per scrutare il sorgere del sole. (…) La figura umana che si arrampica sull’albero è quel che io definisco oggetto transizionale, un fantasma che si origina nella mente del paziente dalla sovrapposizione di parti del paziente e di parti del terapeuta. (…). La creatività sta nell’incontro e la figurazione dell’oggetto transizionale, fonte di grande ispirazione nel paziente e nel terapeuta. E’ proprio tale ispirazione comune a dare ai due partecipanti della figurazione il vis-suto di trovarsi in un punto nodale dell’esistenza. (Benedetti 1992, p. 34).
Questo punto nodale dell’esistenza di entrambi scaturisce dallo spazio/tempo del paradosso, in cui essi si scoprono insieme uniti e separati da un gesto, un’immagine, una parola.