Il rapporto fra etica e tecnica in Psicoterapia

di Antonina Nobile Fidanza
fonte Scuola di Psicoterapia Comparata
Vorrei partire dalla frase di Bion che abbiamo scritto sul retro del depliant: “L’individuo è sempre stato membro di un gruppo, anche quando questo suo far parte di un gruppo consiste …

 

Il rapporto fra etica e tecnica in Psicoterapia
di Antonina Nobile Fidanza

Vorrei partire dalla frase di Bion che abbiamo scritto sul retro del depliant: “L’individuo è sempre stato membro di un gruppo, anche quando questo suo far parte di un gruppo consiste nel comportarsi in modo tale da far credere di non appartenere a nessun gruppo” (Bion).

Il nostro lavoro di psicoterapeuti si svolge prevalentemente in un rapporto intimo e esclusivo con una persona, per cui è molto facile dimenticare nell’esercizio del proprio lavoro di far parte, in cerchi sempre più larghi, della nostra famiglia, del nostro entourage sociale, della nostra cultura, della nostra nazione, della nostra epoca storica da un lato, e dall’altro della nostra esperienza formativa, del gruppo professionale a cui aderiamo, della comunità degli psicologi istituzionali, della comunità sanitaria, della comunità scientifica nazionale ecc.

Tutte queste appartenenze si stratificano in noi a formare il nostro habitus comportamentale, di pensiero e di intuizione vedendo quest’ultima come il risultato delle influenze culturali assorbite direttamente o indirettamente fin dalla nascita.

Ci dice un professore di Torino:

“E’ difficile che possa sviluppare capacità relazionali (quelle che servono nell’esercizio della psicoterapia) chi passa il suo tempo a studiare teorie, nozioni e informazioni, con poco tempo per riflettere su di sè e sulle proprie motivazioni in modo sistematico.

E Winnicott rispetto ai modi della formazione ammonisce: “Nel periodo fra i 18 e i 25 anni [gli studenti] sono talmente occupati che si trovano a divenire uomini di mezza età senza aver avuto il tempo di diventare se stessi “(Winnicott, 1957)

Questo ci porta dritti al rapporto strettissimo tra filosofia e psicologia che da essa si è staccata circa 100 anni fa, specie per le applicazioni operative delle conoscenze psicologiche. La conoscenza della filosofia, non prevista nelle facoltà di psicologia, è un confronto essenziale perché quasi tutti i temi della psicologia sono stati già trattati dalla filosofia ed in particolare dall’etica che è la branca della filosofia “la scienza della condotta”, che si occupa del comportamento nelle due concezioni complementari quella che tratta dei fini e dei mezzi del comportamento umano deducendoli dalla natura dell’uomo e l’altra che studia i moventi delle azioni umane e i criteri in base ai quali queste vengono valutate.

Ad esempio il Trattato delle passioni di Cartesio, De homine di Hobbes, La critica della ragion pratica di Kant dovrebbero essere letti come trattati di psicologia D’altro canto molte delle opere di Freud sono autentiche riflessioni filosofiche” (Blandino, p.16).
Infatti nei media
“… oggi la psicoanalisi viene presentata come una reliquia prescientifica, che rappresenta l’atrofia del pensiero, [tuttavia] questi stessi giornali possono rivolgersi ad un’altra psicoanalisi (confondendo la tecnica ipnotica con la tecnica psicoanalitica) considerandola responsabile del clima di vilipendio con drammi familiari e cause per abusi, che opera sotto il nome del recupero dei ricordi rimossi … [e quindi tecnica così potente da essere considerata] causa immediata di diffuso disordine sociale” (Bollas, p. 93).

“Se qualcuno odia la psicoanalisi, come accade, ha le sue buone ragioni. Essa si occupa di questioni insopportabili. In quanto progetto che mira ad indagare i fenomeni inconsci, ovviamente si è diretta fin dall’inizio verso acque turbolente ” (Bollas, p. 94).
In particolare la psicoanalisi oggi si occupa anche della possibilità di pensare i propri pensieri, senza dare per scontato che ciò sia possibile all’interno delle infinite reti relazionali in cui siamo avvolti fin dalla nascita. Questo contributo è il meno considerato quando si tratta di progettare temi che riguardano la nostra professione nei diversi gruppi che compongono la società di oggi.

Winnicott, chiedendosi qual è il prezzo che paghiamo per trascurare i contributi della ricerca psicoanalitica, si rispondeva con l’amara considerazione che il prezzo è “di restare come siamo, giocattoli dell’economia, della politica e del destino”. (Winnicott, 1986)

Tali finiamo per essere anche come singoli professionisti, garanti uno per uno della propria serietà professionale, uno per uno sicuri od incerti degli scopi del proprio agire. Ci dice Money-Kyrle:
“Tutti sanno che la psicoanalisi è una forma di terapia delle malattie mentali. Ma regna qualche incertezza -forse perfino tra gli analisti- circa i suoi scopi e il modo in cui sono ottenuti. Se l’analista ha senso di responsabilità verso i pazienti -ed è impossibile immaginare analista che ne sia privo- egli certamente desidera alleviare il loro tormento. Se ha senso di responsabilità verso la società egli forse desidera migliorare il loro adattamento ad essa. Ma se uno di questi due scopi fosse per lui quello principale, egli dovrebbe talvolta usare un metodo diverso. Egli potrebbe dover impedire ai suoi pazienti di diventare consci di qualche turbamento che fino a quel momento erano riusciti ad eludere. Oppure egli potrebbe impedir loro di diventare più sapienti della società in cui vivono, affinché il loro adattamento ad essa non peggiori anziché migliorare.

Tuttavia in generale -e a lungo andare forse sempre- gli interessi edonistici del paziente e quello utilitario della società sono meglio serviti mediante la ricerca della verità. … Il paziente, in realtà, apprende due specie di verità su se stesso: innanzitutto, che egli ha molti impulsi e sentimenti, da lui prima negati; in secondo luogo … che essi hanno creato un inconscio mondo illusorio che è una grossolana deformazione del mondo cosciente della percezione sensoria.” (Money-Kyrle, p.544)
“D’altronde, come diceva Freud, la verità è il nostro mestiere. … Vi si oppongono forze potenti che creano conflitti e sensi di colpa Un modo molto speciale di eludere la verità, è quello di affermare con sicurezza principi che poi nella realtà concreta si disattendono, senza alcun senso di colpa o tentativo di giustificazione, con buona pace della coerenza.

“Malafede” è il nome che per approssimazione dà Simona Argentieri a un modo di funzionare a cavallo tra conscio e inconscio, in cui parti oneste e parti disoneste di sé si alternano senza determinare una scelta e senza alimentare sensi di colpa o vergogna. Attraverso microscissioni che permettono di non mettere in relazione aree diverse di funzionamento anche persone “per bene” non colgono la non moralità o non eticità del comportamento rispetto a dei valori professati. Ma un sistema di valori a cui riferirsi si genera in relazione ad un Super-Io a suo tempo ben strutturato che permette scelte consapevoli e autentiche e positive contestazioni. Nella nostra epoca lo sfacelo della funzione adulta, consegna alle nuove generazioni un senso di confusa difficoltà ad affrontare la vita. Una delle conseguenze della fragilità del Super Io è la carenza di un senso di colpa maturo (non persecutorio e generatore di riparazioni maniacali) che permette di rendersi conto delle responsabilità che si hanno verso gli altri e del compito di proteggere le cose buone dentro e fuori di sé.”

In realtà la colpa non più percepita coscientemente lavora sotterraneamente e affidata all’inconscio dà energie alla distruttività umana che ha modi subdoli di manifestarsi.

Lo psicoterapeuta, come qualsiasi altro professionista vive immerso nel suo mondo culturale e tende quindi ad avere un suo sistema di valori più o meno consapevole che guida il suo operare. In più se ha scelto questo lavoro, tra le motivazioni non può non esserci quella esistenziale di trovare un senso alla propria esistenza nel dedicarsi alla cura degli altri e questo può essere pericoloso. Già Freud ci metteva in guardia dal furor curandi che oggi sappiamo essere un problema di controtransfert.
“L’atteggiamento caratterizzato dallo spirito di dedizione, che rappresenta lo norma per esempio tra i medici, nella pratica della psicoterapia e della psicoanalisi è una difesa inconscia del terapeuta nei confronti della capacità di veder con chiarezza molti aspetti propri e del paziente.” (Searles, p.73) Per esempio può accadere di non riconoscere il piacere del paziente di tenere in scacco il terapeuta, la soddisfatta disperazione di chi ritiene che per lui/lei non ci sia niente da fare, la colpa inconsapevole del terapeuta per il suo rifiuto, la sua rabbia omicida, o per il piacere della dipendenza del paziente, cose tutte che accrescono difensivamente la necessità di preoccuparsi per il bene del paziente alimentando un circolo vizioso che per i pazienti più gravi riguarda in senso stretto la possibilità di pensare di vivere o il non poter rinunciare a morire.

Perché il piacere di curare è la conseguenza del voler l’altro perennemente malato.

Il lavoro dello psicoterapeuta mette in contatto, che lo si voglia o no, che lo si capisca o meno con istanze libidiche e aggressive arcaiche e violente con le quali il contatto è sempre difficile e angoscioso.

Come possiamo ben immaginare la tentazione di evitare questi scogli pericolosi, leggendo solo la carta nautica, anziché navigare a vista, porta a sicuro naufragio.

Ad esempio
“[alcuni pazienti] possiedono la misteriosa abilità di proporre argomenti atti a evocare il massimo impatto emotivo sull’altro, e giocano spesso inconsciamente sulla sua vulnerabilità situazionale. Il Sé e l’altro, in breve, si fondono nell’angoscia condivisa, sebbene l’altro respinga vigorosamente i tentativi di rendere la sofferenza personale un festival dell’angoscia … l’agitazione è la presenza dell’oggetto … la tranquillità rappresenta l’abbandono … ogni relazione traumatica diventa qualcosa di nutritivo … non a caso la tecnica sufficientemente buona dell’analista è spesso sperimentata come stranamente deprivante e sembra che impedisca nutrimenti di quel tipo; si può allora andare a caccia di fraintendimenti per rimpinzare il Sé di stati della mente disturbati” (Bollas, p.163-164)
Se uno psicoterapeuta resta irretito in simili difficoltà può essere tentato di sopperire con modificazioni tecniche tradendo in questo modo il contratto stretto col paziente.

Confondendo correttezza con durezza cede qua e là.

Ricordiamo infatti che:
“Le mancanze etiche dello psicoanalista inevitabilmente diventano errori di tecnica (scivolamenti minimi negli accordi, difficoltà a definire e a mantenere chiari i confini tra sé e l’altro, tra simbolico e reale, tra pensato e agito ecc.), giacchè i principi di base, in particolar modo quelli che configurano il setting, poggiano sulla concezione etica di una relazione paritaria, di un comune rispetto per la verità, di una comune volontà di cercarla. La dissociazione tra teoria e prassi è sempre deplorevole, ma lo è doppiamente in psicoanalisi, perché danneggia lo strumento di lavoro. … L’analista ha come strumento di lavoro in suo inconscio e la sua personalità; perciò occorre che il rapporto tra tecnica ed etica diventi indissolubile e ineludibile.” (Etchegoyen, p. 29)
Tutte le libere professioni soffrono oggi di una tendenza all’iperspecializzazione che frammenta il senso del proprio operare e la tecnica, anche in psicoterapia, ha un particolare fascino rassicurante che permette di oggettivare l’altro. Noi sappiamo però che la realtà interna dello psicoterapeuta è lo strumento principale di lavoro e l’osservazione e la comprensione di sé va di pari passo con la comprensione dell’altro.
Possiamo anche ben immaginare che per salvare capra e cavoli cioè la propria etica professionale e la comprensione attenta del paziente in un rapporto terapeutico efficace, si debba essere ben a conoscenza della naturale ferocia del lupo, come della ineluttabile avidità della capra, nonché dell’assoluta impotenza del cavolo. Essere consapevole di tutto questo permetterà di configurare un setting non confusivo e protettivo della natura di ciascun elemento in gioco e quindi capace di traghettare tutti. Altrimenti far finta di non vedere, oppure non vedere proprio per non essere traumatizzati dalla vista della potenza delle emozioni attivate dalla relazione terapeutica, costringe il paziente anziché integrare progressivamente aspetti diversi e contraddittori di sé, a seguire il terapeuta in scissioni che non tradiscono solo l’etica ma impoveriscono la struttura stessa della personalità sia del paziente che terapeuta.

Relazione per il Convegno Cura o manipolazione. Il potere della comunicazione tra tecnica ed etica,Genova, Museo S.Agostino, sabato 6 ottobre 2001 ( n.d.r. )