di Laura Grignola
fonte Studia Miscellanea, Massarosa Ed., Lucca 1980
Il “vizio” del processo riflessivo, sia che tale processo si identifichi con una vera e propria metodologia scientifica, sia che rappresenti semplicemente la riflessione spontanea …
Il “vizio” del processo riflessivo, sia che tale processo si identifichi con una vera e propria metodologia scientifica, sia che rappresenti semplicemente la riflessione spontanea ed imprescindibile dell’uomo comune immerso nella sua quotidianità, deriva da un’ingerenza emotiva, che si attualizza e si esaspera anche quando tale processo riflessivo intende vantare le stimmate dell’assoluta obiettività, e si paralizza nella negazione del sentimento, invece di riconoscerlo e comprenderlo in una speculazione dialettica quale momento inemendabile dell’esperire umano.
Il determinismo meccanicistico del pensiero scientifico tradizionale, lungi dall’incarnare il continuo e concreto sforzo di superamento dell’immediatezza della sensazione, porta con sé l’immagine di una scienza quale ipostasi astratta, rappresentativa di una realtà artificiosamente deprivata del momento soggettivo dell’esperienza conoscitiva, e che quindi non può aspirare ad alcun concreto riscontro su quel piano noumenico che invece si propone di indagare con tanta meticolosità e precisione.
L’intimo significato di tale “vizio” del pensiero, facilmente evidenziabile attraverso un approccio epistemologico, deve dunque essere ricercato in una dimensione psicologica inconscia; sul piano, cioè, delle motivazioni più profonde di quelle che Hutten definisce “l’epistemofilia” umana. Conoscere e conoscersi per l’uomo è legge di sopravvivenza, significa inventare e sviluppare mezzi interpretativi adatti al controllo e al dominio di quella esteriorità dalla quale attinge ma che costituisce anche un’incombente minaccia. Conoscere significa trovarsi di fronte alla necessità di oggettivare l’immediatezza dell’esperienza sensibile e di estrapolare da essa un qualche contenuto obiettivabile e descrivibile in tutti i suoi aspetti e le sue proprietà, suscettibile di misurazione e di quantificazione.
E’ l’esperienza immediata, però, a catalizzare l’interesse del soggetto, ad essere percepita come effettiva concretezza. Ma tale esperienza è difficilmente traducibile in termini oggettivi e comunicabili. Il mondo dell’interiorità è un mondo chiuso, che tende ad escludere gli altri, che non riesce a travalicare il particolarismo delle situazioni. E’ un mondo non riducibile a formule, non semplificabile e misurabile secondo criteri inopinabili e quindi universali e necessari.
In questo lavoro ci proponiamo di cogliere il problema dell’atteggiamento ontologico del pensiero di varie prospettive, ma senza procedere sistematicamente. Dapprima vedremo come esso si prospetta nell’ambito della speculazione tradizionale, quindi nei vari indirizzi psicologici. Vedremo poi come l’origine di tale atteggiamento sia da ricercarsi nella natura stessa del linguaggio in generale e del pensiero teoretico in particolare, quale progressiva differenziazione da una figurazione mentale essenzialmente magica.
Accenneremo a come tale problema sia stato superato dalle prospettive epistemologiche attuali di alcune scienze quali la fisica e la psicoanalisi. Infine cercheremo di seguire questo atteggiamento ontologico sia nell’evoluzione del concetto di malattia mentale, sia nella sua stessa genesi.
Un sintetico excursus nella storia del pensiero tradizionale permette di focalizzare alcuni momenti paradigmatici dell’evoluzione e delle metamorfosi dell’ideale conoscitivo. Vediamo il pensiero inseguire l’autorealizzazione in un continuo avvicendarsi di itinerari di angoscia e di alienazione dalla propria intima essenza dialettica. Lo vediamo irretire la propria potenziale spontaneità di svolgimento in una griglia limitante di significati ormai depurati dalle loro risonanze inconsce, fino alla proscrizione, tanto irriducibile quanto illusoria,, di ogni elemento fantastico ed immaginativo, per definizione carico di significati informali, primitivi, ansiogeni. Lo vediamo, in altri omenti, ipostatizzare il sentimento in un sistema linguistico divinizzato o col quale comunque dispera di integrarsi. La speculazione greca rappresenta il primo tentativo sistematico di emendamento da quegli elementi contingenti e particolaristici che contraddistinguono invece lo stadio mitologico del pensiero. Nella fase primitiva della spiritualità umana, infatti, il soggetto non si distingue ancora dall’oggetto pensato: interiorità ed esteriorità, sensazione e razionalità appaiono piani indifferenziati.
La narrazione mitologica è caratterizzata, come del resto l’attività onirica e la favola, da quel simbolismo linguistico che vede trasformati in accadimenti esterni esperienze interiori, sentimenti, pensieri. Se una componente di gratificante compensazione è immanente alle forme del sogno e della favola, il mito si caratterizza, come del resto la favola stessa, per quell’elemento di organizzazione razionale cosciente implicito nell’atto del raccontare ma, a differenza delle altre due forme di espressività, rappresenta già un tentativo di interpretazione del reale, di comprensione del destino comune dell’uomo, dei conflitti, delle aspirazioni, del pericolo costituito dalle forze naturali. E’, quindi, il tentativo di intendere il momento negativo dell’altro da sé, dell’esteriorità, dell’oggetto che limita la spontaneità volta alla soddisfazione immediata dei propri bisogni. Un tentativo, comunque, che, come dicevamo, non assurge ancora allo stadio di un’organizzazione sistematica dell’esperienza in cui la razionalità ed emotiva appaiono quali momenti ben differenziati fra loro.
I Greci, invece, furono ossessionati dal desiderio di dominare l’immediatezza sensoriale, troppo relativa, insufficiente a garantire un’autentica conoscenza. Furono spinti a trascendere la propria esperienza individuale attraverso un atteggiamento distaccato e contemplativo, che permettesse il reperimento di connessioni logiche tra quegli elementi che apparivano costanti nonostante il variare delle situazioni contingenti e particolari. Si interrogarono sul moto dei pianeti, sui costituenti della terra, dell’acqua, dell’aria, del fuoco; parlarono di “atomi”; cercarono di spiegarsi i procedimenti sensoriali, l’origine ed il significato dei sentimenti. Ricercarono le regole, le leggi che sottendono il divenire fenomenico e si sforzano di sistematizzarle in rigorose sequenze concettuali.
Tali leggi, adeguate a garantire al soggetto il possesso della verità assoluta, si identificano con le forme del pensiero matematico, il quale consente una strutturazione inopinabile dei nostri processi mentali: se si segue una concettualizzazione matematica, partendo da determinate premesse si giungerà sempre alle medesime conclusioni. Su questa strada si perviene ad una concezione talmente teoretica della conoscenza che la speculazione antica giunge ad immaginare il mondo della scienza, cioè il mondo delle conoscenze matematiche, delle idee infine, come del tutto separato dal mondo dell’esperienza sensibile: da un lato, il divenire incessante di tale esperienza , dall’altro le ipostasi astratte delle rappresentazioni razionali, logiche, proprie del linguaggio matematico. Il pensiero matematico travalica, dunque, la dimensione umana, appartiene alla dimensione dell’essere in quanto essere. Perciò l’ideale greco è l’ideale della mente che si aliena completamente da se stessa, che astrae da ogni situazione particolaristica e soggettiva e individua la realtà quale essere assoluto.
Al di là delle singole prospettive filosofiche, siamo dunque sempre di fronte all’irriducibile dicotomia tra mondo umano e mondo trascendente , divino. Tale dicotomia la ritroviamo poi nel pensiero sul diritto, della Roma classica. Anche qui, infatti, la legge, a cui l’individuo deve sottomettersi inequivocabilmente, è oggettiva come oggettivo era il concetto di verità per i Greci. L’ideale conoscitivo che caratterizza tutta la speculazione antica, trascende praticamente ogni concreta potenzialità dell’intelletto che si vede così obbligato alla negazione del suo stesso valore. Il soggetto, cioè, è costretto a verificare la propria sostanziale inconsistenza, la propria inadeguatezza, a cogliere l’essenza dell’amore assoluto al di là delle mere apparenze fenomeniche. Di fronte a questa posizione ontologico-metafisica che evidenzia la sua ineluttabile separazione dall’oggetto (la sua incolmabile distanza dall’oggetto) di conoscenza, il soggetto sperimenta un sentimento di angoscia e di disperazione che porterà poi all’elaborazione di concetti propri della speculazione stoica e scettica.
Il cristianesimo nasce proprio da tale sfiducia nelle possibilità umane, costituisce il tentativo di superare l’annichilimento della soggettività, quale era andato delineandosi nella cultura precedente. Ma il recupero del valore di questa individualità avviene su un piano puramente mitico. Tale mito si propone di soddisfare le ragioni del sentimento a discapito di quelle razionali, in quanto auspica l’integrazione del soggetto con l’essere assoluto, ma ritiene che tale integrazione si attui attraverso un processo intellettualmente inaccessibile. Il soggetto partecipa quindi, sul piano del sentimento, al principio del divino, un divino che non di identifica più col dio astratto , chiuso nella sua perfezione , ma con un dio che si esprime attraverso il logòs, cioè che si rivela all’uomo. Tale trascendenza è comunque tanto drastica che finisce col coinvolgere non solo la sfera della razionalità , ma anche quella dello stesso sentimento, il cui recupero non avviene su un piano individuale ma è già completamente realizzato nella soggettività divina, nella quale praticamente il soggetto si aliena.
Il naturalismo del pensiero moderno non si identifica più con le istanze della cultura antica. Anche quando tale naturalismo è volto al superamento della relatività della sensazione, la problematica dell’interiorità individuale si afferma con tanta veemenza che appare indispensabile comporre l’antinomia di soggetto ed oggetto.
Già per l’umanesimo rinascimentale l’uomo è la copula mundi, cioè la sintesi della realtà universale. La speculazione galileiana segna una svolta decisiva nella storia del pensiero scientifico.
Se per i Greci l’idea non era una produzione spontanea del soggetto ma apparteneva al mondo trascendente della razionalità divina e se il cristianesimo mutuava da Aristotele l’immagine di un dio che introduceva nel mondo il suo principio di razionalità, adesso la coscienza non è più in antitesi con la natura ma, anzi, ha la possibilità di sintetizzarne in sé l’organizzazione razionale. Galileo, infatti, rivendica l’autonomia dell’intelletto nella costruzione scientifica e rivaluta l’importanza dei sensi. Lo studio dell’oggetto nella sua essenza è, per lui, un fatto puramente mitico.
In realtà, per conoscere è necessario reperire, nel fluire delle sensazioni, un qualche principio unitario che permetta un inquadramento matematico dell’esteriorità.
La scienza coincide quindi con la necessità del pensiero di leggere la natura attraverso quelle categorie matematiche, inerenti all’intelletto, le quali hanno una validità ed una funzione essenzialmente pratiche che le preserva dal cristallizzarsi in astratte forme ontologiche quali ad esempio gli enti platonici. In altre parole, i sensi propongono alla ragionerei problemi che la ragione interpreta in via ipotetica formulando principi universali che solo la verifica sperimentale potrà convertire in legge.
Nella speculazione cartesiana ritroviamo questo atteggiamento maturo del pensiero che pone se stesso quale oggetto da indagare, da scoprire in quanto imprescindibile strumento di conoscenza. Per Cartesio il linguaggio matematico costituisce il modello paradigmatico di qualsiasi pensiero che voglia esplicarsi in termini massicciamente razionali. L’interiorità viene quindi emarginata su di un piano di irrazionalità, non essendo riducibile a questi criteri matematici e geometrici. L’unico emendamento possibile è ancora una volta la trascendenza, il riferimento ad una sostanza divina. Per Kant la conoscenza può essere solo conoscenza formale. Superare i confini dell’esperienza sensibile, infatti, significherebbe incorrere in quei paralogismi propri del pensiero tradizionale. L’interiorità viene perciò a costituire il fondamento, formalmente assoluto, di ogni conoscenza. Ma, paradossalmente, proprio l’interiorità non potrà poi essere oggetto di una conoscenza critica. Inoltre il postulato della cosa in se costituisce un’immanente contraddizione in tale sistema formalistico in quanto permette di presupporre , da una prospettiva essenzialmente teoretica, una realtà ipostatizzata quale condizione per l’effettivo realizzarsi dell’esperienza soggettiva. L’antitesi tra soggetto ed oggetto è dunque riscontrabile anche nell’ambito dell’impostazione trascendentale kantiana. Ed è appunto questa antitesi che viene assunta come tema della speculazione hegeliana in quanto, se tale antitesi non venisse risolta, anche la costituzione di una qualsiasi conoscenza risulterebbe illusoria.
Abbiamo quindi visto come la speculazione moderna proponga un’impostazione fondamentalmente innovatrice in quanto il problema della scienza, che la filosofia trascendentale rimandava alla dimensione dell’essere, nell’ambito della nuova impostazione critica, fa invece riferimento alla soggettività.
Ma lo sforzo di reperire, su di un piano teoretico, un qualche principio universale che possa conferire obiettività al soggetto, quale soggetto di conoscenza, rimane spesso irretito in una serie di contraddizioni apparentemente non risolubili e che, nell’ambito dello svolgimento storico del pensiero filosofico, conoscono un’alterna vicenda di evoluzioni ed involuzioni.
Interessandoci innanzitutto in questa sede il problema del rapporto tra soggetto ed oggetto di conoscenza, ci sembra importante continuare il nostro excursus restringendo il campo di indagine a parametrici metodologici ereditati dallo Zeigeist positivistico dell’epoca in cui si afferma come scienza autonoma di quella dottrina che, più di ogni altra, ruota intorno a questo problema: la psicologia.
La fondazione scientifica della psicologia, che appunto mutua dalle scienze naturali, in particolare dalla fisica e dalla chimica, gli strumenti metodologici della sua ricerca, viene a trovarsi di fronte, in maniera drastica, alla contraddizione , apparentemente irriducibile, rappresentata, da un lato, dalla necessità di assumere una prospettiva naturalistica, cioè scientifica; e, dall’altro lato, dalla necessità di salvaguardare l’originalità irripetibile e la concretezza dell’esperienza soggettiva.
Abbiamo visto precedentemente l’esclusione della problematica psicologica, in quanto particolaristica e contingente, dalla speculazione tradizionale. Abbiamo visto come il pensiero moderno si sforzi di comporre l’antinomia tra scienza e coscienza, ma finisca sempre di negare all’esperienza soggettiva la possibilità di essere sistematizzata in termini di oggettività scientifica.
Da queste premesse due sono evidentemente le soluzioni metodologiche possibili: adattare l’oggetto della ricerca ai principi matematici delle scienze naturali, ignorando la fisionomia essenzialmente problematica del fatto psicologico, considerarlo come positivamente dato e, quindi, ridurlo ad un vero e proprio fenomeno naturale; oppure escludere ogni possibilità di sistematizzazione scientifica dell’esperienza psicologica, la cui problematicità ancora una volta si dissolve in un ambito metafisico.
Il progetto di interpretazione sperimentale della sfera psichica, proprio dell’ideale naturalistico e preconizzato già dalla filosofia empirista e sensista del XVII secolo, si propone, di reperire quell’elemento semplice, non ulteriormente riducibile, che permetta, attraverso la pura associazione, la ricostruzione della fenomenologia dell’esperienza soggettiva in tutta la sua complessità. L’analisi di tale complessità potrà avvenire in termini di quantificazione e di calcolo matematico.
Questo elemento assolutamente semplice, rappresentato dal fatto sensoriale e generalmente ridotto allo stimolo fisico proveniente dall’ambiente, si vuole sia in grado di spiegare la complessità dei concetti di personalità, di concettualizzazione e di percezione. Paradigma di tale pretesa riduzionista è la legge di Weber e di Fechner. Il ricercatore si propone appunto di stabilire, attraverso una formula di tipo logaritmico, la correlazione tra sensazione e stimolo fisico. Stabilita, per esempio, per una stimolazione di tipo tattile e presso rio, una soglia percettiva x, il soggetto avverte un incremento di sensazione in funzione di un aumento frazionario dello stimolo di base. Appare piuttosto chiaro come questa legge in realtà non rappresenti la definizione e la quantificazione dell’elemento semplice della sensazione ma, se mai, della differenza di sensazione verificata dal soggetto che percepisce e che quindi introduce nell’esperimento un elemento concettuale di giudizio, in assenza del quale non si avrebbe discriminazione alcuna.
Particolare attenzione merita lo psicologo tedesco Wilhelm Wundt, la cui dottrina contiene, in nuce, le premesse, le peculiarità e le contraddizioni che caratterizzeranno poi tutti i sistemi psicologici contemporanei. Wundt mutua l’ideale epistemologico del neo-empirismo e pone l’Erlebnis quale fondamento reale di ogni esperienza e antecedente indifferenziato di soggetto ed oggetto.
Differenziare tra loro questi due termini è una pura astrazione in effetti è ogni sequenza intellettuale ed ogni concetto. Quand’anche si giungesse ad ammettere che un qualche ente metafisico esiste al di là della sensazione, esso non potrebbe mai essere conosciuto o sperimentato nel nostro intelletto. Lo Spencer definirà Unknowable lo stesso fondamento della realtà.
L’unica realtà conoscibile per noi è la sensazione; la quale, però, può essere percepita ora come soggetto, ora come oggetto. Tale dualismo empirico per il quale l’esperienza, su di un piano puramente fenomenico, può essere immediata, intuitiva, o mediata, riflessiva, invalida la stessa costruzione scientifica che viene così a poggiare su una concettualizzazione empirica oppure, in una prospettiva rigidamente positivistica, diventa un approssimativo processo mentale che si sforza di cogliere una struttura già completamente realizzata sul piano naturale.
In Wundt tale contraddizione non appare superata; egli cerca piuttosto di pervenire ad una situazione di compromesso, ora affermando la necessità di fare ricorso alla concettualizzazione propria delle scienze naturali, ora affermando la validità del metodo introspettivo, indispensabile per cogliere l’intrinseca natura dell’esperienza psicologica.
Questo dualismo metodologico divide ancora oggi la psicologia contemporanea.
Da una prospettiva strettamente epistemologica se noi adottiamo un’impostazione ontologica giungiamo a considerare il mondo naturale come strutturato matematicamente, inquadrato nelle leggi geometriche dell’estensione, come una realtà immutabile, non suscettibile di essere modificata dall’intelletto conoscente.
In pratica l’intelletto non costruisce il mondo delle sue rappresentazioni, ma si limita a riflettere questo mondo fisico e può rifletterlo in quanto partecipe della stessa strutturazione naturale. L’intelletto stesso quindi viene ad essere un semplice congegno meccanico inerente al meccanismo universale.
Se Wundt esclude la possibilità di una psicologia fisiologica per i fatti psichici più complessi, una psicologia rigorosamente riduzionista aspira non solo a trasformarsi in fisiologia, ma ad essere poi letta in termini chimici e, quindi, fisici in senso stretto.
La prospettiva fisiologica implica ancora una differenziazione qualitativa in quanto l’organismo biologico viene concepito come strutturato in apparati, organi, tessuti, cellule; e implica che le stesse cellule si presentino come entità dotate di una loro specificità. Tale differenziazione qualitativa, oltre la quale il ricercatore applica categorie esclusivamente numeriche, viene a ridursi ad un centinaio di elementi circa quando si assume una prospettiva biochimica e chimica. Viene ulteriormente ridotta se si assume una prospettiva fisica. L’ideale della fisica, infatti, è appunto quello di giungere a reperire quella particella assolutamente semplice che possa permettere una quantificazione assoluta dell’universo.
Anche l’ideale della psicologia riduzionista è quello di reperire quell’elemento assolutamente semplice che permetta l’interpretazione in termini di pura quantificazione della differenziazione qualitativa.
I metodi di realizzazione di questo programma teoretico variano da sistema a sistema, per cui veniamo a trovarci di fronte a tutta una serie di psicologie spesso in netta contraddizione tra loro.
Abbiamo l’impostazione neurofisiologica, che intende identificare la sensazione psicologica e lo stimolo neurofisiologico e aspira alla traduzione di tutto il linguaggio psicologico in termini essenzialmente neuro-fisiologici. In questa prospettiva si aspira al reperimento di un’entità anatomica semplice (il neurone), di unità funzionale (l’arco riflesso) e si aspira ad una localizzazione puntuale dell’attività psichica.
Tale ideale neurologistico lo ritroviamo, in particolare, nella reflessologia pavloviana. Il behaviourista, invece, benché rappresenti a sua volta un’impostazione di tipo riduzionista, si disinteressa completamente di ciò che accade a livello delle strutture nervose, per prendere in considerazione esclusivamente il modello dello stimolo-risposta che vede le emozioni ridotte a semplici reazioni comportamentali.
A sua volta riduzionista è pure la psicologia innatista dell’istinto che vede dissolversi nel genotipo ogni problematica psichica. Ancora riduzionista è la teoria dell’isomorfismo psico-biologico della Gestalt. Riduzionista al di là delle apparenze è il costruttivismo piagetiano. La psicologia fenomenologica, per quanto si presenti come un’apparente problematizzazione del naturalismo, in realtà non costituisce un effettivo superamento di questa posizione, in quanto praticamente ripropone il dualismo wundtiano nella misura in cui applica ai fatti psichici più semplici, la concettualizzazione naturalistica; ma ritiene poi semplicemente intuibili empaticamente i fatti psichici più complessi. L’intenzionalità conoscitiva del soggetto si vede cioè costretta prima trascendere il piano dell’esperienza sensibile attraverso la costruzione scientifica, e poi si vede costretta a trascendere anche questo piano di conoscenza, tesa verso la comprensione di una Razionalità assoluta che è conoscibile solo su di un piano intuitivo.
Troviamo infine l’indirizzo funzionalista, il quale ritiene inadeguati alla spiegazione dei processi psichici, i principi associazionismi e della semplice causalità meccanica. Nel fatto psichico si esprimerebbe, in realtà, l’intenzionalità del soggetto, ma nello stesso tempo tale intenzionalità psichica verrebbe a coincidere con il finalismo immanente all’essere biologico. L’intenzionalità del soggetto viene, dunque, ad identificarsi con una intenzionalità biologica che lo trascende, che resta per il soggetto ancora una volta impenetrabile.
Abbiamo dunque visto come nel pensiero tradizionale, dalla fisica, lungo tutto lo spettro delle possibilità scientifiche e filosofiche, fino all’estremo opposto della psicologia, ci si imbatta costantemente in quell’ “errore” epistemologico che deriva da un certo ingenuo realismo per il quale esiste una realtà, oggettivamente data, che l’attività conoscitiva può solo limitarsi a riflettere con la maggiore approssimazione possibile. All’interrogativo, che ormai sorge spontaneo, circa l’origine di questo atteggiamento ontologico nel quale il pensiero tende costantemente a scivolare, può aiutarci a rispondere il criticismo neo-kantiano di Cassirer, la cui speculazione ci fornisce subito una preziosa indicazione nel suo evidenziare ed analizzare la natura della relazione che intercorre tra pensiero e linguaggio.
Appare chiaro che nella prospettiva ontologica in questione la dimensione polisemia del linguaggio viene ineluttabilmente a gettare un’ombra sulla riflessione umana e, non potendosi giungere ad una totale identificazione tra pensiero e linguaggio, la irretisce in una pluralità di significati che costituisce appunto il retaggio inemendabile dell’attività simbolica stessa. Non potendosi mai evitare il ricorso al simbolo, questa attività mediatrice viene ad inficiare qualsiasi possibilità di effettiva, assoluta aderenza alla realtà ipostatizzata al di là del mondo immediatamente esperito da ciascun individuo.
Dimentichi della “rivoluzione copernicana” auspicata da Kant, mito, arte, linguaggio, scienza, ogni aspetto della conoscenza umana, diventano simboli, mediatori imperfetti di una realtà già tutta data sul piano di una esteriorità per noi impenetrabile.
In realtà di simboli bisognerebbe parlare sì, ma nel senso che ciascuno di questi aspetti della conoscenza implica un’euristica autogenesi di valori propri, di un proprio universo semantico.
A questo punto è, quindi, necessario un cambiamento di prospettiva.
Il problema della conoscenza, della cosiddetta scienza, e del linguaggio vanno rivisti in una prospettiva psicologista, ovvero è necessario porsi dal punto di vista dell’interiorità del soggetto. E da questo punto di vista il linguaggio risponde a quell’esigenza di obiettivazione del sentimento, del momento dell’immediatezza dell’esperienza soggettiva, propria di ciascun individuo, il quale deve tradurre sul piano dell’esteriorità anche se stesso per potersi conoscere, per poter dominare la propria esperienza, avendo come fine il dominio dell’esteriorità e dell’altro; in ultima analisi, la propria sopravvivenza psicofisica.
L’uomo, dice Humbboldt, “cava da sé il linguaggio come il baco che fila il suo filo e con lo stesso atto si racchiude nel bozzolo”. Il linguaggio, così come le figurazioni mitiche, osserva Cassirer, non sono digressioni fantastiche della realtà, ma rappresentano, per la coscienza primitiva, “la totalità del reale”.
In realtà il procedere concettuale e l’inquadramento logico-matematico dell’esperienza non costituiscono fatti immediatamente evidenti dello spirito. Il nostro pensiero discorsivo non può non affondare le sue radici in un “rappresentare involontario e inconsapevole” (Usener). Ed è questo, appunto, l’altro prezioso suggerimento che ci viene dal Cassirer: la sostanziale identità genetica di linguaggio e mito.
Le parole, come del resto i dèmoni e gli dèi, assumono per l’uomo una consistenza oggettuale; egli li disconosce come propria produzione creativa. La prassi dell’uomo alla conquista del suo spazio vitale si differenzia sempre più e con essa si specifica la rappresentazione del reale. Infatti, nella loro genesi, nel loro significato primario, non rispondono ad una esigenza di discorsività, al desiderio di reperire categorie interpretative ed universalizzanti; ma, al contrario, hanno una finalità sintetica, di “concentrazione”, di “contrazione in un unico punto” di un dato contenuto emozionale, immediato ed intuitivo. Cioè, la “significazione linguistica” isola e rende coscienti, dell’omogenea sequenza di stimoli, solo quelli che per il soggetto hanno una rilevanza emotiva e, quindi, vitale.
Ciò che viene isolato, segnato linguisticamente, si conserva, non è più riassorbito dal vortice di impressioni indistinte, subliminali, in cui l’individuo è immerso.
Esiste, perciò, un’innegabile correlazione tra le finalità pratiche del soggetto ed i concetti linguistici. E tale correlazione presenta un’altrettanto innegabile validità anche per quel che concerne le rappresentazioni mitiche le quali non costituiscono un semplice riflesso mentale di una qualche realtà obiettiva ma una lettura del contesto soggettivo la cui chiave interpretativa è rappresentata appunto dall’operare umano.
Gli dèi momentanei, infatti, non solo presiedono alle varie attività ma anche ai singoli settori in cui tali attività vengono scomposte proprio in funzione della prassi che l’uomo è costretto ad attualizzare nello svolgere un certo compito. Ed un’identica segmentazione verbale di una data azione è imposta dalle lingue primitive.
Le cosmogonie testimoniano di una sostanziale identità tra parole e mito. In essa la parola assurge ad una posizione dominante, viene a racchiudere una particolare potenza originaria che determina ogni essere terreno e divino e che trasforma il caos in universo ordinato. Dio si serve della parola per creare il mondo; oppure rappresenta egli stesso la determinazione linguistica; o, comunque, da essa trae origine. Spesso è il nome del dio ad inglobare in se tutto il valore magico, religioso.
Tale reciproca connessione tra parola e rappresentazione mitico-religiosa, non può non avere un suo ben preciso fondamento. E, per individuare tale fondamento, non è alla speculazione teoretica che dobbiamo rivolgerci, cioè a quella forma dell’espressività umana impegnata a tessere sistematicamente una rete di relazioni linguistiche che ci permettano una sempre maggiore differenziazione comprensiva del mito. Dobbiamo invece focalizzare quell’attività linguistica primaria, intensiva, per la quale la parola non significa, ma costituisce la materializzazione dell’emozione nell’istante stesso in cui nasce dalla problematicità dell’impatto tra interiorità ed esteriorità.
In questo caso la coscienza non si atteggia riflessivamente alla decodificazione di un determinato contenuto intuitivo, che proprio in quel momento emerge isolato dalla totalità dell’esperienza, ma si identifica interamente con esso e, immediatamente, si esteriorizza come parola o come immagine mitica. Non appena però, il contenuto di coscienza viene in qualche modo definito linguisticamente, fissato da un suono o da una sequenza di suoni vocalici, immediatamente tale contenuto viene proiettato all’esterno e assurge inemendabilmente a realtà.
Nello stesso modo, quello strumento che l’uomo inventa al fine di attuare il suo controllo sulla realtà, non viene riconosciuto, dalla fantasia primitiva, come proprio prodotto: quest’oggetto acquisisce una sua autonomia, si personalizza fino a diventare un dio o un dèmone capace di dominare, di possedere l’uomo o, nella migliore delle ipotesi, dono divino, “qualcosa di puramente ricevuto dall’esterno”. E tale processo è valido anche per quegli strumenti teorici, concettuali, che l’uomo è andato costruendosi per la sua decodificazione del mondo, cioè per il linguaggio e per le costruzioni scientifiche in genere.
Se vogliamo realmente cogliere la similitudine tra immagine mitica e parola dobbiamo “retrocedere fino allo strato linguistico originario delle interiezioni” le quali definiscono, in termini di esclamazione, non tanto una cosa esistente sul piano dell’esteriorità quanto, piuttosto, delle “impressioni” particolari del soggetto.
Attraverso l’attività, la definizione linguistica, quindi, l’uomo fa suo il mondo, ne scopre i significati in relazione a sé e alle sue esigenze momentanee; cioè, impara a dominarlo. Tanto più la sua visione del mondo sarà unitaria, tanto più sarà unitaria ed armonica l’immagine che egli avrà di sé. Ma tale visione unitaria l’uomo può conquistarla solo attraverso l’esteriorizzazione del proprio sentimento e dei fantasmi della propria coscienza e attraverso la loro identificazione col reale.
Implica inoltre un progressivo processo di maturazione delle sue stesse possibilità riflessive fino al riconoscimento dell’indissolubile legame esistente tra linguaggio, coscienza mitico-religiosa ed il proprio sentimento. Tale processo riguarda naturalmente anche la coscienza teoretica, che deve giungere a riconoscere – qualsiasi sia la forma simbolica nella quale si esprime – la sua origine mitica; a che deve giungere altresì a riconoscersi come la più intima ed autentica esigenza di obiettività e di auto- obiettivazione dell’uomo.
Anche le singole scienze dunque, vanno considerate da questa prospettiva. Esse si sviluppano attraverso un processo di progressiva e faticosa differenziazione dell’immediatezza del pensiero mitico, come superamento del momento emozionale ed individualistico. Comprenderne il metodo implica tener presente come esso costituisca la risultante non sol del perfezionamento, del potenziamento dei mezzi di organizzazione razionale dell’esperienza, del reperimento di categorie universali e necessarie; ma soprattutto di fattori emozionali inconsci che determinano la direzione e l’intensità dell’interesse creativo degli uomini di una certa epoca, caratterizzata da un determinato Zeitgeist, che presenta sempre una sua connotazione emotiva.
Un rigido determinismo, una sopravvalutazione del momento dell’esperimento, non rappresentano solo un’esigenza scientifica di obiettività; hanno anche un loro significato psicologico, rappresentano soprattutto un bisogno di sicurezza, di controllo del mondo esterno, dei pericoli naturali che esso comporta; e parallelamente rappresentano un’esigenza di controllo anche del mondo interiore, controllo attraverso l’eliminazione di quell’elemento fantastico che porta ineluttabile con sé un bagaglio di angoscia tanto più traumatica quanto più è indefinita e poco decodificabile.
La storia, e quindi anche la storia della scienza, evidenzia momenti di repressione e di assoluto meccanicismo e momenti di reazione a questa negazione della soggettività e del “principio del piacere”.
Il metodo scientifico dunque muta: l’induzione e il meccanicismo sono concetti ormai inattuali. Einstein e Freud, dice Hutten, hanno determinato il superamento di tali canoni ed hanno influenzato tutte le altre discipline scientifiche.
Riferendosi alla connotazione attuale della fisica, Hutten continua: “…ai due estremi del loro dominio, nel cosmo e nelle particelle elementari, i fisici si sono imbattuti in fenomeni così complessi e dinamici da rassomigliare ai processi della vita. Anche in fisica non è più possibile ridurre i fenomeni in componenti semplici e considerare ogni processo come il moto di un singolo punto materiale nello spazio e nel tempo. Nel dominio submicroscopico delle particelle elementari e in quello supermacroscopico delle galassie dobbiamo considerare i gruppi anziché gli individui, le interazioni anziché le azioni singole, e dobbiamo tener conto del fatto che sono coinvolte forze molto intense ed altre energie. I fisici sono riusciti a penetrare in questi domìni non solo impiegando strumenti più potenti, ma sollevando i loro concetti e le loro teorie ad un livello di astrazione più alto di quello della meccanica. Essi hanno dovuto abbandonare l’ideale classico di semplicità e certezza, ma hanno ottenuto in cambio nuove conoscenze”.
Allo stesso modo che nella fisica quantistica di Plance e in quella relativistica di Einstein, la psicoanalisi freudiana permette di esplorare i più oscuri recessi dell’inconscio, mutando completamente l’immagine del mondo.
Tale immagine divenne sempre più astratta, non rappresentativa: e questo anche attraverso il filtro delle altre scienze e dell’arte.
La psicoanalisi aveva permesso psicologicamente e scientificamente di andare oltre l’aspetto codificato e familiare della realtà individuale. Questo permise anche in altri campi la scoperta della forma meno consueta e la scoperta di un’identificazione artistica aderente ad una realtà completamente scarnificata, ridotta all’essenziale.
Ma tale processo di scarnificazione e di astrazione, risulta profondamente ansiogeno in quanto implica il trovarsi di fronte ad una realtà nella quale l’uomo non può riconoscersi e specchiarsi. Tale astrazione è però anche un elemento essenziale di creatività, di evoluzione, porta all’assunzione di nuove prospettive. Ciò che appare oggi astratto ed alienante, domani ci apparirà assolutamente familiare, così come oggi ci appare familiare quel mondo rappresentato “come un insieme di palle da biliardo” che i fisici oggi disconoscono e che aveva comportato, invece, una grande capacità di astrazione da parte di Newton.
Abbiamo finora evidenziato come vi sia da parte del pensiero, anche scientifico, la tendenza ad assumere una prospettiva di carattere ontologico, cioè di disconoscimento del proprio imprescindibile apporto creativo alla costruzione dell’immagine del mondo. Tale tendenza deriva dal bisogno dell’uomo di proiettare all’esterno le proprie impressioni mentali e di considerarle poi come realtà oggettiva, immutabile, al di fuori di sé.
Abbiamo preso in considerazione le difficoltà che tale arieggiamento comporta allorché si intenda dare un fondamento oggettivo ad una scienza quale quella psicologica, che più di ogni altra è in relazione con il concetto che l’uomo ha, in un determinato momento storico, di se stesso e del mondo che lo circonda. Abbiamo visto come l’impostazione dialettica della psicoanalisi costituisca un tentativo di superamento di questa difficoltà a conferire una validità oggettiva ad una scienza della soggettività. In realtà si può aggiungere e dimostrare come anche la psicoanalisi, nelle sue linee generali, tenda ad assumere una prospettiva ontologica, cioè ad assumere quell’atteggiamento per cui si tende a fondare le proprie deduzioni su delle argomentazioni e su dei fatti al fine di trascendere, illusoriamente, l’insicurezza dei mezzi conoscitivi su cui poggia l’intero apparato scientifico.
Alla psicoanalisi potremmo, in linea generale, muovere quelle critiche che abbiamo abbozzato precedentemente per il funzionalismo. Non intendiamo comunque approfondire in tale sede questo tema, che sarà invece oggetto di una prossima pubblicazione.
Abbiamo accennato – dicevamo – come anche le scienze naturali, e la fisica in particolare, non possano esimersi, allorché vogliano scoprire in sé nuove potenzialità, dall’introdurre nella propria teorizzazione l’elemento soggettivo.
Vedremo ora di inquadrare, secondo la prospettiva seguita finora, il problema della malattia mentale e della sua genesi. Appare infatti evidente come la conoscenza delle modalità e del significato psicologico della razionalità siano determinanti per la comprensione dell’approccio al problema del malato di mente.
Nel corso della storia il malato di mente viene ora elevato ad individuo dotato di poteri soprannaturali, posseduto da spiriti più o meno buoni o più o meno cattivi; ora bruciato sul rogo; ora diventa oggetto di descrizioni minuziose o di originali ed assolutamente imprevedibili tentativi terapeutici.
In realtà sembra che l’uomo abbia sempre inteso impedirsi ogni comprensione realistica del fatto. E tale incomprensione, il sostanziale disconoscimento del problema, l’intolleranza distruttiva, testimoniano del fastidio dell’uomo di fronte alla malattia mentale.
L’atteggiamento razionale sorse, ab imis, come esigenza di dominio delle proprie angosce attraverso la loro transustanziazione attraverso una chiarificante proiezione all’esterno sotto forma di spiriti e di demoni. Non dobbiamo quindi stupirci se quegli individui, in cui questo meccanismo di controllo razionale dei fantasmi della propria coscienza appare deficitario, vanno inevitabilmente incontro o ad una emarginazione deferente, propiziatoria del demone che li invade, o ad un’ostilità violenta ed altrettanto emarginante.
Tale violenza la troviamo nel Levitino (” l’ uomo o la donna che hanno lo spirito di pitone o di divinazione siano puniti di morte “), la troviamo nei principi misogini ed antieroici proclamati dal Malleus Maleficarum, li ritroviamo, senza alcun dubbio, ai giorni nostri.
Nulla rende meglio l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della malattia mentale dell’immagine letteraria ed iconografica del Narrenschiff, la Nave dei folli, anche se questa immagine, che ripropone del resto un vecchio mito, sorge in realtà dall’inquietudine che caratterizza la fine del Medioevo, quando il personaggio del folle, nella sua ambiguità, diventa simbolo determinante e privo dell’abituale connotazione negativa.
Tale creazione letteraria aveva una corrispondenza nella realtà e si riferiva all’usanza, soprattutto germanica, di cacciare i folli dalle città e di costringerli ad un’esistenza vagabonda, metaforicamente alla ricerca della loro saggezza.
Ci troviamo qui di fronte ad una sorta di rito che voleva il folle “prigioniero della sua stessa partenza”, dice Foucault, il quale continua più avanti: “Questa navigazione del pazzo è allo stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto Passaggio. In un certo senso, essa non fa che sviluppare, lungo tutta una geografia semi-reale e semi-immaginaria, la situazione liminare del folle all’orizzonte dell’inquietudine dell’uomo medioevale; situazione insieme simboleggiata dal privilegio che ha il folle di essere rinchiuso alle porte della città: la sua esclusione deve racchiuderlo…Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all’infinito crocevia”.
Tale emarginazione rituale, quindi, rappresenta il bisogno di vedere proiettati all’esterno ed estraniati da sé certi sentimenti. Questo meccanismo può essere isolato anche su un piano microsociale, nell’ambito dello stesso nucleo familiare. Alcune famiglie schizofrenogene, infatti, attuano un tale processo di mistificazione per cui uno dei figli diventa il sintomo della patologia dell’intero nucleo, viene ad incarnare la conflittualità. Nei vari periodi storici l’atteggiamento del medico si differenzia molto da quello dell’uomo comune e testimonia ancora una volta questa volontà di emarginazione e di non comprensione.
Fin dall’antichità vennero descritte le sindromi più rilevanti, e tale approccio descrittivo è rimasto predominante – fino agli attuali bizantinismi nosografici – salvo per quelle epoche in cui la posizione del medico o si identificava con quella dei legulei e delle autorità ecclesiastiche o nutriva il più assoluto disinteresse per un problema così spinoso e compromettente.
Gli intenti terapeutici della medicina furono indubbiamente eterogenei, presero in considerazione esclusivamente la struttura fisica, riducendo ancora una volta l’uomo ad ente anatomico. Si parlò di “furore uterino” o di “congestione uterina”, si ricorse a salassi, bagni freddi, docce violente e ripetute, ad ablazioni chirurgiche, “senza alcuna considerazione per il lato morale del trattamento” (Zilboorg).
La segregazione fu sempre la misura principale e spesso nei quadri nosografici erano – e sono tuttora – inclusi anche sintomi provocati dalla segregazione stessa.
L’istituzionalizzazione, che rappresenta spesso il maggior ostacolo alla società al recupero alla società dell’infermo di mente, ci appare, almeno sotto certi aspetti, l’ipostatizzazione del rituale a cui faceva riferimento Foucault. Comunque la psichiatria non ha mai assunto una prospettiva realmente psicologista, nonostante le illuminate intuizioni di un Vives, di un Wayer, di un Pinel.
L’ideale della psichiatria può essere esemplificato dalle raccomandazioni di Kraepelin che auspicava il “necessario distacco dal paziente” considerato semplicisticamente come un insieme di sintomi.
Assumere una prospettiva naturalistica, cioè perdere di vista l’immagine unitaria dell’individuo ed il problema della sua interiorità, privilegiando il momento della catalogazione ossessiva dei sintomi, poteva apparire allo scienziato infinitamente più rassicurante.
Dalla prospettiva assunta finora, l’infermità mentale rappresenta la cristallizzazione del conflitto esistenziale ed il malato di mente viene a costituire l’autentico specchio della lotta, delle intime sofferenze, dei fantasmi, delle angosce del soggetto che si rapporta alla sua esteriorità. Ma l’uomo non gradisce affatto specchiarsi nel malato di mente, riconoscere in lui le proprie paure, le proprie incertezze, i propri conflitti. Preferisce distogliere l’attenzione da lui, segregarlo, impedirgli soprattutto di estrinsecare la sua angoscia.
E tale atteggiamento repressivo finisce spesso di sostituire l’altro, scientificamente più corretto, di un ascolto partecipe e terapeutico, che comunichi reale disponibilità, che permetta al soggetto di travalicare i limiti del proprio solipsismo, di ritrovare il nesso esistente tra i fantasmi interiori, i desideri ed il linguaggio, passaggio obbligato perché questi diventino coscienti e controllabili, possano quindi esprimersi intermini di richiesta di comunicazione dialettica con se stessi e con gli altri.
In realtà la sua malattia è, ancora una volta, il vizio ontologico. Egli appare paralizzato dalla negatività della propria esperienza, inchiodato in una posizione di passività, di “scacco matto” (Laing), dal senso di defettività; incapace di riconoscersi quale unico fondamento di se stesso, ha perso la dimensione della creatività nei confronti della propria esistenza.
Per divenire adulto, infatti, un individuo deve avere il coraggio di accedere all’ordine del simbolico, deve saper usare il linguaggio, al di là di qualsiasi modello codificato, per quello che esso è: non mitica ipostasi, ma organon dello spirito, strumento al servizio delle sue potenzialità creative.