Cristina Zoldan – Psicoterapeuta
La controversia riguarda principalmente il ruolo del transfert, della rimozione e del recupero del ricordo rimosso nell’azione terapeutica della Psicoanalisi.
Apriamo lo zoom: mi sembra di capire che questo dibattito si inserisca all’interno di un filone di ricerche, iniziato negli anni ’80-’90 che mira ad individuare quali siano i fattori terapeutici delle psicoterapie in generale (e della psicanalisi in particolare) e, ancor più, a dimostrare l’efficacia terapeutica delle stesse.
Le domande a cui si cerca risposta sono: davvero la psicoterapia (intesa in senso lato) cura? E che cosa della terapia cura?
Come psicologa sperimentale, questo tipo di studi mi interessa e mi incuriosisce: in particolare mi incuriosisce l’aspetto di costruzione sperimentale di essi. Quali sono i fattori terapeutici? Il setting? L’interpretazione? La verbalizzazione? La relazione? L’empatia? Come è possibile dimostrarne l’efficacia? Soprattutto di fronte a “interventi” che, per loro stessa natura, possono durare anni. Come isolare l’apporto della terapia dallo sviluppo naturale delle persone o dai mille accadimenti nelle loro vite durante gli stessi anni? Come misurare il fatto che una terapia sia davvero trasformativa?
Ambito di studi complesso, ma necessario ed utile a tutti noi per comprendere davvero quale sia la portata di ciò che facciamo (o, meglio, che faremo) e per farlo comprendere a quanti ci guardano con scetticismo.
Mi sembra che questa controversia si inserisca all’interno di questo discorso più ampio.
Blum e Fonagy sostengono posizioni diverse, nelle quali si esprimono bene le sfide teoriche da affrontare oggi.
Da una parte, abbiamo Harold Blum. Americano, è uno dei grandi psicanalisti dei giorni nostri. Assolutamente ortodosso e freudiano, se possiamo dire così. Nella controversia, sostiene l’importanza di una visione in cui rimozione, recupero del ricordo e sua rielaborazione sono uno dei fattori terapeutici determinanti, mutativo e trasformativo. Il ricordo è parte della memoria biografica del paziente ed è fondamentale avere accesso a questa per poter comprendere anche il transfert che si manifesta durante le sedute, contestualizzando quanto il paziente ci dice e ci porta.
Dall’altra parte (anche dell’Atlantico) abbiamo Peter Fonagy: ungherese, vive in Inghilterra, anche egli uno dei grandi psicoanalisti viventi. Riconosciuto a livello internazionale per i suoi studi sulla psicopatologia evolutiva e sulla cosiddetta “mentalizzazione”.
Fonagy è contemporaneo. Profondo conoscitore degli ultimi sviluppi negli ambiti delle neuroscienze e delle scienze cognitive in genere, è impegnato insieme al suo gruppo di ricerca in un costante sforzo di integrazione dei modelli e dei risultati scientifici più recenti con le teorie psicoanalitiche delle origini.
La sua prospettiva, quindi, si rifà a Freud (come quella di tutti noi che siamo “sulle spalle di Freud”, ovviamente), ma cercando di integrare i contributi delle ricerche più recenti.
La controversia viene scatenata da un suo articolo del 1999 “Memory and therapeutic action”, nel quale un po’ provocatoriamente (da capire se la provocazione sia in chi scrive o in chi legge), sostiene come l’idea che “il recupero dei ricordi infantili fa parte dell’azione terapeutica della psicoanalisi è purtroppo ancora viva, mentre non ne abbiamo alcuna prova scientifica”. Ha lanciato la bomba. Eh sì, perché con questa frase mette in discussione gran parte della visione freudiana, basata proprio sull’importanza del recupero e della rielaborazione del ricordo. Non è il recupero e la rielaborazione del ricordo per sé ad avere un ruolo terapeutico, sostiene Fonagy, quanto piuttosto l’essere con l’altro, messo in atto durante la terapia stessa.
Descritta così la controversia mi lascia basita. Che dire? Avranno sicuramente ragione entrambi. Sarà un modo diverso di vedere la faccenda: Blum più focalizzato sull’importanza (anche biografica) del singolo ricordo; Fonagy attento al processo di rielaborazione più che al suo contenuto.
Indago un po’ (altrimenti passano altri 2 mesi prima che riesca a scrivere qualche riga su questo argomento).
Indago e scopro un mondo. Quello dell’integrazione tra tutte le teorie che ad oggi sono sotto i riflettori di neuroscienze, scienze cognitive e Infant Research. Mi viene in aiuto un articolo interessante di Imbasciati, pubblicato nel 2010 sulla rivistra Psichiatria e Psicoterapia (29, 4, p. 247-261) intitolato “Qualche interrogativo sulla talking cure”.
Mi sembra che ben riassuma background e foreground della questione. Come sostiene Fonagy negli articoli della controversia, non esistono dati scientifici che dimostrino che il recupero del rimosso possa essere un fattore terapeutico. Esistono, d’altra parte, molti studi, ricerche, dati che mostrano invece come i pattern relazionali delle persone si sviluppino nel bambino in fasi estremamente precoci, e, soprattutto, pre-verbali. Questa non è certo una novità, ci viene alla mente la Klein, innanzitutto. La novità è l’esistenza di un corpus di conoscenze e di ricerche che dimostrano come la direzione in cui andare sia senz’altro questa. Le neuroscienze, le scienze cognitive e gli studi di Infant Research, insieme, dimostrano oggi più che mai che ciò che veramente è mutativo e trasformativo nella terapia è ad un livello di comunicazione che non ha a che fare con il processo di verbalizzazione (interpretazione da parte dell’analista, o riedizione dei ricordi da parte dei pazienti) quanto piuttosto con un livello di comunicazione non verbale. È questo, infatti, il livello di comunicazione attraverso il quale il neonato, grazie al rapporto con la madre, sviluppa, accresce, rafforza, struttura la propria rete neurale, che va a fondare la base delle sue capacità di interpretazione/gestione degli stati emotivi ed affettivi suoi e dell’altro (e qui arriviamo al famoso concetto di “mentalizzazione”).
Insomma, quanto sostiene Fonagy e cioè che l’aspetto mutativo della terapia è nel transfert e nell’essere del Sé con l’altro, mi pare si possa riferire a questo: non il ricordo come memoria autobiografica, ma un essere con l’altro che è espressione della nostra memoria relazionale implicita, cioè quella struttura di base che abbiamo appreso nei primissimi mesi di vita, attraverso le interazioni con il caregiver e che ora è la base di ogni nostro modo in vivere il nostro mondo interno e le relazioni con gli altri. È questo essere con l’altro che si esprime ed evidenzia durante il percorso terapeutico e nel transfert che diventa fattore trasformativo perché a che fare con le modalità di interazione che ciascuno di noi sviluppa nei primissimi mesi della propria vita, antecedenti a qualsiasi verbalizzazione della nostra esperienza. In questo senso Fonagy, che apparentemente sembra più “superficiale”, legato più agli aspetti puramente relazionali del setting e del transfert piuttosto che all’origine del nostro comportamento, ci riporta con un balzo ancor più nel profondo di Blum. Blum che rimane ancorato al “fatto”, all’accadimento, al ricordo, certo non quello sul piano di realtà, ma quello ricostruito dalla persona, ma sempre “il ricordo”.
L’accento posto da Fonagy sulla importanza della relazione trova ragione, oltre che nelle recenti scoperte dell’Infant Research relative all’osservazione dei rapporti e della comunicazione non verbale madre-bambino, anche ai concetti di empatia, alle nuove scoperte neuroscientifiche sul rispecchiamento (con i ben noti studi sui neuroni specchio) che altro non sono se non una nuova terminologia per descrivere più dettagliatamente concetti come quello di empatia e di rêverie. E sarebbe proprio sulla base di questa memoria relazionale implicita che ciascuno di noi poi “pesca” alcune tracce piuttosto che altre e procede alla costruzione di quello che chiamiamo “ricordo”.
Mi sembra che in questa visione siano effettivamente racchiusi gli apporti e le direzioni più attuali della ricerca su questi temi e che non si possa prescindere dall’approcciare la questione in questi termini. O forse, non ho capito nulla.