Legami infiniti o impossibili

I “fantasmi” del maschile e del femminile tra stereotipi e nuovi equilibri

di Antonina Nobile Fidanza
fonte Scuola di Psicoterapia Comparata
Il cartoon [ 1 ] che dà inizio a questa relazione rappresenta in modo divertente e un po’ amaro uno stile comunicativo di coppia talmente usuale da lasciarci costernati e impotenti. …

 

Il cartoon [ 1 ] che dà inizio a questa relazione rappresenta in modo divertente e un po’ amaro uno stile comunicativo di coppia talmente usuale da lasciarci costernati e impotenti. L’elemento comico sta nel vedere in altri ciò che segretamente tanto temiamo quanto desideriamo per noi. Ovvero l’implicita attesa di un rapporto che magicamente possa prescindere dalle parole per comunicare, l’attesa di una simbiosi beata che sappiamo bene essere illusoria e soffocante. In realtà su questa base inconscia spesso si formano coppie la cui esistenza è irta di sofferenze e difficoltà: coppie che non sanno trovare il modo di stare insieme, coppie che non sanno sciogliere un legame che ormai fa solo male. L’ovvia e continua frustrazione di queste attese nella banalità del quotidiano risvolti notevoli non solo sugli stati d’animo ma anche sulla salute e quindi può condizionare le richieste, spesso paradossali e difficili da decodificare, portate anche al ginecologo.

In effetti, la coppia costituisce uno strano e sfuggente organismo superindividuale e il medico, anziché rapportarsi ad un individuo malato per il quale stilare una diagnosi e stabilire una cura, si trova di fronte al dilemma. In particolare in ginecologia, infatti, non si può prescindere dalla coppia, perché alcune malattie e soprattutto le tematiche riguardanti la contraccezione e la fertilità sono da considerarsi il risultato dell’incontro di due persone.

Pertanto occuparsi anche delle ragioni emotive per cui si forma una coppia, prospettiva che sembra così lontano dalla medicina, può aiutare a capire quanto queste scelte abbiano una influenza di grande portata sulla salute dei due individui e degli eventuali figli.

In psicologia sappiamo che l’Io è, soprattutto all’inizio della vita, un io-corporeo. Sappiamo che la comunicazione ha nel corpo il suo strumento privilegiato, ma inconsapevole. E sappiamo anche che i messaggi trasmessi non sempre corrispondono al nostro pensiero cosciente. L’io corporeo è un concetto psicologico che si differenzia quello di schema corporeo con cui è in interazione, ma con cui non coincide. Quest’ultimo è un concetto neuro-anatomo-fisiologico che descrive la proiezione in determinate aree della corteccia cerebrale delle afferenze provenienti dall’apparato muscolo-scheletrico e dagli organi di senso.

Le più recenti acquisizioni delle neuroscienze ci confermano l’esistenza di molteplici schemi neuronali coordinati, che si attiverebbero a seconda delle esperienze o stimolazioni, costituendo mappe dinamiche somato-motorie a cui giungerebbero, come dicevamo, le afferenze provenienti dai visceri, dall’apparato muscolo-scheletrico ed in particolare dalla pelle.

Viene così avallato ciò che la psicoanalisi ci dice da tempo rispetto all’io corporeo, cioè che esso è un processo dinamico che inizia con la nascita e continua per tutta la nostra vita, che riguarda le rappresentazioni molteplici del nostro corpo (trascrizioni e ritrascrizioni di momenti evolutivi e relazionali) pronte ad attivarsi a livello della coscienza, per dirci di volta in volta come sentiamo di essere in quel momento. Il sentire corporeo spesso sta alla base delle scelte relazionali al di là della nostra volontà cosciente. Infatti diciamo: “sto bene con lui o lei”, “sono stato bene con voi”, “mi sono sentito a mio agio in quel gruppo o a quella festa” indicando in questo modo un implicito benessere corporeo.

La stessa persona in momenti diversi può sentirsi “piccola e indifesa”, “sexy e provocante”, “materna e dolce”oppure “bambino impotente”, “macho forte e calamitante”, “tenero e protettivo”. Un sentire estremamente variabile ma che, formata una coppia, tende a stabilizzarsi e a divenire una sorta di linguaggio obbligato e circolare che non può che portare a un soffocante stereotipo.

A questo punto abbiamo alcuni elementi per comprendere l’automatismo, che sistematicamente ritroviamo in certe strutture di coppia. Esistono, come abbiamo visto, schemi comportamentali che sfuggono talmente bene al controllo (anche quando la coppia li sente disfunzionali), che non è facile cogliere come le esperienze passate stiano connotando il presente restringendo il campo delle possibilità di comunicazione.

Gli esempi che possiamo portare sono tanti: legami che le persone non sanno affrontare e che “risolvono” con continui insoddisfacenti cambiamenti di partner, legami a cui si rinuncia in modo rassegnato perché non potrebbero mai soddisfare i desideri simbiotici che li sottendono. Legami incomprensibili agli altri, tenaci nonostante i dissidi o la noia mortale, le menzogne e i tradimenti o i feroci conflitti.

Ci si chiede: “Perché non si lasciano?” e tuttavia si riconosce una sorta di equilibrio perverso in questo tipo di coppie.

C’è infatti una ragione: restando insieme si ha l’importante garanzia di essere riconosciuti nel proprio ruolo maschile o femminile e, in quanto esiste la coppia, può essere accantonato ogni dubbio ma anche ogni elemento di evoluzione.

Del resto quanto più l’identità sessuale è sentita come precaria, tanto più si avverte la necessità che essa non sia messa in discussione. Si preferisce prescindere dalla constatazione che anche l’identità è una struttura dinamica che si costruisce nel tempo a partire dal dato genetico, attraverso le esperienze della crescita corporea, relazionale, sociale, culturale.

D’altronde una relazione di coppia all’interno della quale costruire la propria identità può essere vista come un pericolo, proprio perchè “si deve” dimostrare di essere uomo o di essere donna (ad es. attraverso la performance sessuale o la capacità di generare). La paura di questa verifica continua può essere talmente grande da attivare schemi di evitamento in diversi momenti della relazione. Per esempio, si può non cimentarsi mai in un rapporto stabile, fermarsi dopo pochi giorni o pochi mesi, non riuscire ad impegnarsi oltre un certo livello di guardia, pur instaurando una relazione apparentemente serena.

Oppure la relazione di coppia può anche essere vista come un’ancora di salvezza, perchè ci si può nascondere meglio se si è in piena vista, come ci dice Edgar Allan Poe nella “Lettera rubata”. Del resto chi potrebbe dubitare della precarietà dell’identità femminile o maschile se si è scelto di stare in coppia e anche di generare un figlio?

Dice l’antropologa Mary Douglas:

“Le idee di separazione e demarcazione … svolgono come funzione principale quella di sistematizzare un’esperienza di per sé disordinata . E’ solamente esagerando la differenza tra unito e separato, sopra e sotto, maschio e femmina che si crea l’apparenza dell’ordine.”
E’ proprio l’esperienza interiore inquietante della confusione tra maschile e femminile e soprattutto tra bambino e adulto, che genera la necessità di definirli per opposti: in questo modo però si accentua la possibilità di un conflitto permanente.

Del resto non possiamo non accorgerci che la radicale e storica opposizione tra maschile e femminile -in apparenza definitivamente e ideologicamente abbattuta- si ripresenta, di generazione in generazione, per l’inerzia e la lentezza delle trasformazioni psichiche, per cui anche se vediamo attenuarsi, in un dato momento storico, un aspetto di tale conflittualità, subito dopo ci si trova di fronte alla recrudescenza di un altro.

Tornando alla coppia, vista come nuovo organismo, che ha lo scopo di garantire alle due componenti un certo equilibrio, possiamo vedere sotto altra luce le problematiche ginecologiche e le richieste portate dalle pazienti.

Là dove la ricerca prolungata di un figlio, una depressione dopo una nascita apparentemente tanto desiderata, o malattie ricorrenti, si presentano in una coppia apparentemente stabile, si può pensare a qualche cortocircuito che investe il corpo, anziché divenire oggetto di riflessione personale o di comunicazione con l’altro. La richiesta al medico, quindi, può portare ad una situazione frustrante per tutti, se il medico non accetta i limiti della propria opera. Quindi è necessario per lui, anche se difficile, non partecipare alla drammatizzazione del problema di salute, o non lasciarsi coinvolgere da un’attesa messianica di una soluzione ad ogni costo.

Riporto un esempio che riguarda il mio lavoro di psicoterapeuta: anni fa una giovane signora, in grande ansia, perchè non riusciva ad avere un figlio, venne da me, consigliata da un medico. Aveva avuto diversi aborti inspiegabili, ma non c’era nulla che le impedisse di diventare madre. Ovvero evidentemente c’era qualcosa, ma non di organico. Il suo corpo sano rispondeva normalmente alla fecondazione, ma lei non era pronta ad accogliere un figlio, come credeva. Naturalmente le ragioni della sua impossibilità a sentirsi capace di generare le erano oscure, ma quando poterono essere chiarite ed espresse, lei rimase incinta e partorì un figlio.

Georg Groddek, un medico entusiasta delle nuove scoperte della psicoanalisi e molto stimato da Freud per il suo coraggio nello sperimentare, racconta nel suo “Il libro dell’Es” l’esperienza con pazienti a cui forniva spiegazioni sull’inconscio. In questo modo spesso potevano riprendere le funzioni bloccate. Naturalmente oggi, con l’enorme diffusione e distorsione delle conoscenze psicologiche, non è possibile ripercorrere semplicemente il suo cammino, tuttavia ma neanche disconoscere l’enorme influenza della psiche sul funzionamento del soma.

Infatti noi sappiamo che non si guarisce mai del tutto e che la salute somatica è un difficile equilibrio, di cui tutti ci dobbiamo far responsabilmente carico, mentre spesso, nella veste di pazienti, la deleghiamo quasi totalmente. Salvo poi a non fidarci e cambiare piuttosto medico, anzichè stile di vita. Parlo ovviamente di situazioni più o meno nella norma in cui si può ancora scegliere.

D’altronde sappiamo che, al limite, anche virus e batteri sono condizioni necessarie ma non sufficienti per l’instaurarsi di una malattia. Possiamo dedurre quindi che la coppia che si presenta al ginecologo, porti problemi che vanno ben al di là della medicina.

Se la coppia si forma tra due persone sufficientemente ‘separate’ psicologicamente, può con una certa possibilità di riuscita, progettare la vita sessuale, la procreazione e l’educazione dei figli. Ma se al contrario la coppia è nata come quell’organismo superindividuale che dicevamo prima, che funziona come un tutt’uno, è probabile che le comunicazioni tra i due –armoniche o conflittuali- siano apparenti, , e ciò che rischia di ‘parlare’ davvero, ma con un linguaggio fuori dalla comune comprensione, è il corpo con le sue vicissitudini.

Per la psicoanalisi la coppia è un gruppo (il più piccolo) e risponde alle regole inconsce del comportamento gruppale, regole che indicano nella regressione a funzionamenti emotivi primitivi la ragione di molti conflitti. Nella coppia cioè scattano quegli schemi comportamentali di cui accennavamo prima, senza nostro controllo volontario in particolare le modalità della dipendenza, dell’attacco-fuga e dell’accoppiamento che ricalcano i bisogni del neonato, della lotta per la sopravvivenza e della sessualità.

D’altra parte la comprensione psicoanalitica non si può prescrivere come un farmaco, perchè richiede un’esperienza condivisa di ascolto, che il malato che giunge al medico non cerca. Cerca infatti il medico, non lo psicoterapeuta. Non vuole sapere di cosa soffre, ritiene di saperlo già. Chiede solamente -e in genere con urgenza- che il male sia tolto.

Chiede che il medico intervenga, si aspetta che ripristini lo status quo ante e non sempre in realtà è in grado di accettare che questo quasi mai è possibile.

Anche il medico resta coinvolto in una sorta di battaglia: guarire è un suo compito, a volte è una sfida. Come può essere possibile ‘stare’ con il malato, piuttosto che combattere la malattia?

Perché spesso di questo si tratta ed è questa la nuova sfida della medicina: integrare un’ottica impersonale del fatto, della ricerca, della scoperta, dell’invenzione, della statistica, con un’ottica personale, della storia individuale, in altre parole, clinica. Nell’incontro di queste due ottiche non possiamo che riscontrare la fecondità e i limiti delle visioni e dei ‘fantasmi’ del maschile e del femminile.

Franco Fornari nel suo “Affetti e cancro” diceva che l’impostazione della medicina è maschile, guerresca, l’impostazione della psicoanalisi è femminile di accoglienza e ascolto. Diceva anche che, per guarire, ci vogliono tutte e due. Purtroppo se si cerca di concentrare le opposte competenze nella stessa persona si creano terribili e assolutamente inefficaci confusioni di ruoli. Invece il malato, spesso, desidera proprio questo, al medico richiede anche ascolto e partecipazione emotiva col rischio però di non apprezzarlo come medico, dallo psicoterapeuta vorrebbe anche consigli medici o farmaci svalutandone l’impalpabile e complesso lavoro.

A questo proposito sappiamo che gli psicoanalisti ‘raccontano storie’ nel doppio senso della non verità storica e oggettiva (infatti è simbolico ciò che si racconta) e dell’usare una verità più ampia contenuta nell’immaginario che resiste al tempo.

Mi ricollego per questo al termine ‘fantasma’ , che ha diversissime accezioni e usi specie in psicologia. Nel suo più comune significato indica qualcuno che, morto, può manifestarsi ai vivi terrorizzandoli. In questa veste sappiamo che sia chi è perseguitato dai fantasmi, sia il fantasma stesso aspira a raggiungere la pace. Una bella e divertente esemplificazione di questo dramma si trova nella storia de “Il fantasma di Canterville” di Oscar Wilde. Nel racconto il povero fantasma ce la mette tutta per spaventare i nuovi locatari del castello con i suoi rumori di catene, le tracce di sangue e i gemiti lugubri nella notte. Ma non ha alcuna speranza, con quella razionale e positiva famiglia, di essere riconosciuto, preso in considerazione, perdonato per le sue malefatte per poter finalmente giacere in pace in una tomba.

Il fantasma resta ‘in azione’ finché una mente libera da pregiudizi si rivolge a lui senza paura, ascoltando i suoi lamenti e i suoi desideri. Solo allora può pacificarsi, morire definitivamente per diventare ed essere ricordato come un ‘caro antenato’.

Fuori dalla metafora, costituita dal racconto, siamo consapevoli che le dicotomie maschile-femminile, agire-patire, universale-particolare, pubblico-privato ecc., hanno antropologicamente avuto la loro funzione storica di divisione dei compiti e del lavoro, con specificità diverse, ma complementari.

Ma sappiamo anche che il problema non é comporre l’annosa guerra tra i sessi sul tavolo diplomatico della ragione, ma affrontarlo senza pregiudizi e paure nella quotidianità, nel pensiero, nelle emozioni. Pacificare i contrasti, infatti, è opera lunga e continua di una vita, di ciascuna vita. Saranno possibili nuovi equilibri se la comunicazione tra sé e sé e tra sé e l’altro/a, diverrà necessità vitale per ciascun individuo che potrà così coltivare la capacità di tollerare le confusioni nei ruoli e nell’identità. Tale tolleranza è la più importante prerogativa della relazione di coppia, e che si sostituirà ad una continua inutile tensione verso definizioni e soluzioni univoche.

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