Parola ed essere

di Nicoletta Massone
fonte Scuola di Psicoterapia Comparata
“Che cosa vede il bambino quando guarda il volto della madre?” si domanda Winnicott e poi risponde: “Secondo me guarda se stesso. In altre parole, la madre guarda il bambino …

 

“Che cosa vede il bambino quando guarda il volto della madre?” si domanda Winnicott e poi risponde: “Secondo me guarda se stesso. In altre parole, la madre guarda il bambino e ciò che di lei appare è quello che lei ha scorto”. Nel momento in cui il bambino è visto e riconosciuto in quello che prova, sente che esiste una continuità dell’essere sé e in tale continuità si stagliano, volta a volta, significati specifici che legano il magma caotico ed indistinto della sua esperienza.

Questo rispecchiamento come continuità che lo tiene e gli dà il consistere di una forma, è la parte più importante dell’esperienza di piacere che il bambino prova nel momento in cui viene accudito, nutrito, accarezzato, cullato. L’esperienza di appagamento si fissa in tracce mnestiche che costituiscono i primi embrioni dell’Io piacere; tali tracce sono ciò che il bambino utilizza per formare le rappresentazioni di cosa, al fine di allucinare l’oggetto e tollerare, in tal modo, la frustrazione dell’assenza. In altre parole, l’esperienza del piacere permette l’istituirsi del processo di simbolizzazione, sforzo creativo che consente di ripristinare un oggetto assente e garantisce quella continuità di senso che sostiene e permette ogni significato.

E tale esperienza rimane per sempre, luminoso segreto, al fondo di ogni individua esistenza. C’è stato qualcosa prima di adesso, un adesso che dice di una compagnia che non cancella mai la solitudine, incontri che non arrivano mai del tutto a colmare la distanza. Quell’assenza e quella distanza, guardata nel suo volto più disperante, può, però, colorarsi del ricordo di un bene passato originario…

La filosofia dice che il nulla da cui tutti gli enti vengono è ciò che è comune a tutte le cose, un vuoto infinitamente gravido, in realtà, delle forme della vita. Il termine com-mune indica la diffusione, l’estensione, il raccoglimento com di quanto sta nella radice mun, moin. In questa radice, riposano le parole dell’impegno, dell’ufficio, del dono, (munus) e quelle della difesa, delle mura fortificate, della garanzia (moenia). Se quindi l’essere è e non può non essere, allora l’essere è l’impegno, il dono, la garanzia che si oppone al nulla.

Dal caos dell’assenza di unità, lo sguardo di un altro ha tratto forma e presenza. E tale atto d’essere continua a pervadere, con il suo splendore affettivo, ogni momento dell’esistenza, dono e salvezza rispetto al nulla della mancanza di confini.

Il termine persona deriva dalla parola greca “prosopon” che indicava la maschera dell’attore. Nel nascondimento del volto, l’attore lasciava per-sonare la sua voce e diventava anche la parola di un dio. Nelle infinite forme di caducità e di limite dello spazio di questo mondo, l’essere umano trova e lascia risuonare la certezza di una consistenza originaria ed ultima che al nulla si oppone e che colma la discontinuità claudicante della separatezza.

Al contrario, la mancanza di contenimento e di significazione, il lasciar cadere nel vuoto i contenuti psichici del “rumore corporeo”, consegna il bambino ad angosce incontrollate, simili alla sensazione di “andare in pezzi” o di “dissolversi”, trovarsi senza consistenza. In assenza di esperienze di piacere, ogni mancanza è il volto del non essere, rappresentabile solo come rifiuto e desiderio di autoannientamento. Da questo punto di vista, nessuna rappresentazione è possibile perché essa sottende un investimento, un legame nei confronti dell’oggetto. Ma in questo mondo “privo di occhi”, l’investimento non può venire realizzato poiché sarebbe un affetto a perdere in ragione delle carenze dell’oggetto, sarebbe ripetere e rivivere il trauma del rifiuto. A causa di ciò, sentire e pensare non sono possibili, finisce per prevale una modalità affettivo-sensoriale di avere a che fare con gli oggetti e con la propria esperienza, dove non c’è spazio per la separazione e si è costretti ad aderire all’oggetto – imitare per essere – nell’impossibilità di distanza conoscitiva. Dice Fernando Pessoa ne Il libro dell’inquietudine:

“All’improvviso oggi ho dentro una sensazione assurda e giusta. Ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno […] Sono stato derubato dal poter esistere prima che esistesse il mondo. Se sono stato costretto a reincarnarmi, mi sono reincarnato senza di me. Sono la periferia di una città inesistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. […] Da una botola situata lassù, sto precipitando per lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, infinitupla e vuota. La mia anima è un maëlstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo. E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso. […] E in me è come se l’inferno ridesse, senza neppure l’umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell’universo morto, il cadavere girante dello spazio fisico, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, disforme, fuori del tempo, senza un dio che l’abbia creata, senza neppure se stessa che sta girando nelle tenebre. Poter saper pensare! Poter saper sentire! Mia madre è morta molto presto e io non l’ho conosciuta …”
L’ambito della terapia, con i suoi elementi di ritmicità e regolarità, accompagnati da un ascolto e da una parola il più possibile consonante con le emozioni circolanti nell’ambiente, ripropone le condizioni di un accudimento che è sia riconoscimento che contenimento.

Il contesto relazionale della terapia, in altre parole, si caratterizza come spazio dove può avvenire una separazione graduale, attraverso la creazione di processi ed oggetti transizionali che addomesticano le angosce di separazione e consentono di vivere soggettivamente l’esperienza, potendosene appropriare.

È per mezzo di questi strumenti che l’intervento terapeutico consente la riappropriazione, da parte della psiche, di quanto è stato escluso nel corpo, nelle zone buie e fredde del non essere, la riappropriazione di quelle parti che – dice Meltzer – “viaggiano alla deriva come astronauti dell’anima in un universo senza vita”.

Da questo punto di vista, allora, la terapia può essere pensata come un’esperienza strutturante dell’assenza, una parola che dà il nome – e mentre lo dà, pone in essere – ciò che, in quanto tale, per sua natura, è il niente degli enti, luogo dove la vita ha cessato di scorrere per rimanere e ridiventare l’indicibile, il doloroso nulla senza confini e senza legami.