di Gisella Troglia, Ivan Gualco
Oggetto di questa relazione è la presentazione della ricerca svolta dall’I.F.P.I.A (Istituto di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Psicoanalitico), in collaborazione con l’A.I.I.O. (Associazione Italiana Infermieri Oncologici), attraverso un questionario sulla professione infermiere distribuito presso numerosi reparti di alcuni ospedali di Genova nell’anno 1999.
Nella nostra società, attenta più agli aspetti esteriori e superficiali dell’apparire che non a quelli sostanziali dell’essere, sembra che tutte le forme di sofferenza e di dolore siano state relegate in spazi delimitati e in tempi stabiliti con la creazione di istituzioni apposite, che hanno lo scopo di eliminare dolore e disagio dalla vita di tutti i giorni. Inoltre, le nuove e continue applicazioni in tutti i campi delle scoperte scientifiche esaltano il senso di onnipotenza, per il quale è incomprensibile la dimensione della precarietà dell’esistenza, che invece proprio il disagio, la sofferenza e la morte mettono in rilievo, segnalando inesorabilmente il limite degli esseri umani. Queste istituzioni- per prime gli ospedali, ma pensiamo anche a carceri, residenze per anziani, manicomi o alle strutture che li hanno sostituiti, forse persino alle scuolerappresentano in realtà un sistema di difesa sociale. Nate forse per soddisfare alcuni bisogni dell’umanità, sono oggi diventate il luogo dove confinare, con un potente meccanismo di scissione, tutte le forme del dolore, per cercare di non vederlo e di non fare i conti con esso. Alla medicina e ai suoi tecnici specializzati, in particolare medici e infermieri, la società domanda non solo di alleviare il dolore fisico e di curare, ma anche, di allontanare dalla quotidianità il contatto con la sofferenza. L’ospedale, perciò, si è nel tempo sostituito ad un ambiente più naturale e relazionale per il malato, diventando la struttura dove si possono rinchiudere il degrado fisico, le malattie, il dolore, la morte; così la società, una volta che li ha sottratti al suo sguardo, può cavalcare infantilmente, in modo onnipotente, l’illusione di non dover mai soffrire, di oltrepassare, o almeno di ignorare, i propri limiti. Ma questi “altri” più competenti, gli infermieri, per esempio, come stanno? Come si confrontano con l’attuale esigenza della società di “collocare la sofferenza” in luoghi appositi? Come si sentono ad essere, per professione, quelli preparati a capire, sostenere, alleviare il dolore? L’esperienza di alcuni Corsi di Formazione incentrati sul disagio non solo del malato ma soprattutto dell’infermiere, ha indotto l’I.F.P.I.A. ad alcune riflessioni, che sono sfociate anche in questa ricerca condotta attraverso lo strumento del questionario. Alcune riflessioni derivanti dall’elaborazione del questionario. E’ affermato che “fare l’infermiere è faticoso” e, in particolare, che “lavorare in ospedale presenta difficoltà” e queste affermazioni possono apparire persino banali tanto sono ovvie, se si pensa alla realtà delle strutture ospedaliere e alla loro organizzazione del lavoro; ma, scavando dentro il senso di questa fatica, si scopre che essa è dovuta anche a fattori personali ed emotivi, quali, per esempio, un grande senso di solitudine. Infatti: “sostenere i pazienti è difficile”, “le sofferenze del paziente mettono in difficoltà”, “la professione di infermiere condiziona la vita privata”, “l’infermiere è solo di fronte al paziente”. 1 Psicologa Psicoterapeuta 2 Psicologo Psicoterapeuta Le difficoltà di questo lavoro sono collegate all’incontro quotidiano con sofferenza e morte, e questo continuo rispecchiarsi nel dolore dell’altro non può che rimandare alla dimensione del proprio personale dolore, della propria finitezza e mortalità. Nel reparto ospedaliero tutti i giorni si ricorda a chi vi lavora che soffrire e morire non riguarda soltanto le persone malate, ma tutti quanti gli essere umani, che per loro natura sono finiti e mortali. Questo inesorabile gioco degli specchi tra curante e curato crea in molti momenti frustrazione e angoscia, rabbia e sofferenza, perché mette in crisi il senso di onnipotenza, mai abbastanza domato, la certezza di poter fare sempre qualcosa, mentre la realtà ricorda costantemente il limite e la finitezza della vita. Le difese personali che ognuno può attivare per contenere l’impatto con la sofferenza vengono rafforzate appellandosi alla tecnica appresa, trasformando allora i pazienti in “casi clinici”, non avendo più davanti persone malate, ma sintomi da diagnosticare e da risolvere con le terapie. L’infermiere si trova così costantemente impegnato in un ruolo attivo, operativo, efficiente. Abituato a compiere azioni sui corpi dei pazienti, a distribuire medicine a persone che a stento si individuano dietro alle cartelle cliniche, può sentirsi ridotto ad una pura uniforme bianca, ad essere soltanto uno strumento che rende possibili delle particolari funzioni. Così davvero “l’infermiere è solo di fronte al paziente”, perché resta chiuso nel suo tentativo di mantenere le distanze difendendosi dal dolore con l’efficienza della tecnica, pur di non accettare e rielaborare l’idea di essere altrettanto partecipe, come i suoi pazienti, alla condizione di mortale. E proprio questa accettazione potrebbe dargli la possibilità di andare incontro al malato che ha di fronte, alla persona che soffre in quel momento, di incontrarlo cioè nella sua paura, condividendo con lui quello che prova; questo momento di condivisione, di sospensione dell’azione, potrebbe restituire ad entrambi la loro interezza, il senso di essere delle persone in relazione tra loro, non soltanto chi cura e chi è curato. Ad ampliare questo grande senso di solitudine contribuisce il sentimento che l’istituzione ospedaliera non sia protettiva: non è condiviso infatti che “l’ospedale sia una grande famiglia” e che “durante le ore di servizio ci si senta al sicuro” così come non trova consensi che “la professione di infermiere sia socialmente valorizzata”. Si può leggere in queste risposte il senso dello scarso apprezzamento sociale che, più in generale, in questa società tutte le professioni d’aiuto subiscono, forse perché risentono di quella sorta di “ghettizzazione” del dolore in luoghi appositi; infermieri, insegnanti, psicoterapeuti, sono spesso svalorizzati per motivi diversi e non godono di particolari vantaggi economici, come se il loro rapporto con il mondo del disagio e del dolore li contagiasse in qualche modo agli occhi di chi ha scelto di allontanare da sé ogni forma di sofferenza. Soltanto la professione di medico appare a volte ancora immune da questa immagine sociale svalorizzante, forse perché da sempre è circondata da un alone magico ed idealizzato attinente al potere di fornire, o meglio, di garantire il più possibile la salute e l’allontanamento della morte. Va da sé, perciò, che la maggior parte delle risposte ad affermazioni quali “la retribuzione dell’ infermiere è soddisfacente” e “la professione di infermiere permette avanzamenti di carriera” siano negative, come se nell’insufficiente riconoscimento contrattuale si riflettesse la sensazione di abbandono vissuta tutti i giorni in reparto: scarsa considerazione sociale e sensazione di solitudine durante il lavoro aggiungono fatica a fatica. La sensazione di essere soli e non protetti dall’istituzione si accompagna alla certezza che “alcuni problemi si possono risolvere solo unendosi”: infatti, il lavoro dell’infermiere nei reparti ospedalieri si svolge in un’istituzione fortemente strutturata, dentro la quale la modalità è caratterizzata dall’appartenere ad un gruppo, quello dei curanti, o quello del proprio turno, o quello che svolge mansioni specifiche ecc. Nella realtà, però, è assai difficile lavorare con gli altri con un effettivo senso di appartenenza, di efficienza, di coesione, poiché nel gruppo agiscono dinamiche profonde che ne condizionano l’attività e lo rendono spesso inefficiente e poco solidale tra i suoi membri, se non a costo di interventi dall’esterno, che in ospedale sono addirittura di tipo istituzionale, quali la gerarchia tra medici e infermieri, tra infermieri stessi, e così via. E’ negativa l’affermazione “gli infermieri sono uniti tra loro” e infatti “quando si è provati dal lavoro è difficile trovare qualcuno con cui confrontarsi”: raramente, cioè, con il collega si riesce ad andare oltre il momento di semplice accoglienza di uno sfogo, terminato il quale la routine di lavoro ricomincia nuovamente come prima, con il suo senso di abbandono e di solitudine. Per arrivare ad essere un gruppo di lavoro solidale e coeso, occorrerebbe forse che, al contrario di quanto risulta dalle risposte, “l’ospedale fosse un punto di riferimento per gli infermieri”, nel quale compiere la grande fatica di confrontarsi continuamente con gli altri per arrivare a capire e ad accettare che le proprie esigenze, incertezze, paure, fughe, sono anche quelle degli altri… Al contrario, invece, “è difficile essere liberi di esprimere la propria opinione allo staff”, così come “spesso ci sono contrasti tra medici e infermieri”, tanto che, per la maggioranza delle risposte, è negativo che “i medici siano disponibili con gli infermieri” e che “i medici apprezzino il lavoro degli infermieri”: la differenza di ruolo sociale, prima accennata, si manifesta concretamente tutti i giorni in reparto. Però, a parte le difficoltà dovute all’organizzazione del lavoro e alle carenze degli ospedali, ai rapporti spesso difficili con i medici, all’insoddisfazione per il riconoscimento economico e sociale, l’affermazione a maggioranza che “nonostante le difficoltà si può essere soddisfatti del lavoro” sembra annullare la grande fatica di esercitarlo, anche perché “le maggiori gratificazioni per l’infermiere vengono dai pazienti”. Se le gratificazioni sono da ricercare nel contatto quotidiano con le persone malate e sofferenti, si può però essere schiacciati dalla grande fatica di dover reggere il ruolo che viene richiesto, quello di aiutare gli altri a soffrire, nel corpo e nella mente, di assistere a dolori, a volte incomprensibili e strazianti, dei malati e dei loro parenti. Sotto questo profilo, appaiono significative le risposte affermative che “è importante tenere separati il lavoro dalla vita privata”, così come l’apparente contraddizione tra il fatto che “il coinvolgimento emotivo con il paziente è rischioso”, ma, contemporaneamente, che “l’infermiere deve ascoltare le confidenze del paziente” . Si può dedurre che in realtà, nonostante desiderino che loro vita privata resti separata dal lavoro, quasi sempre gli infermieri “si portano il lavoro a casa”, si fanno cioè coinvolgere dalle esperienze di reparto, che si riflettono nella loro vita personale. Quando l’infermiere dichiara di sentirsi male a livello psicologico, spesso sente anche che questo malessere può dipendere in qualche modo proprio dalla professione stessa, poiché risultano inutili i tentativi concreti di risolvere i problemi, cambiando per esempio turno di lavoro o trasferendosi in altro reparto: la sfera privata è invasa dal lavoro. Infatti, una delle motivazioni profonde della scelta di questa professione è possedere una particolare sensibilità di intuire i segnali di bisogno che arrivano, anche e soprattutto inconsciamente, dagli altri. Quando, nell’esperienza di relazione con i genitori, la sensibilità costituzionale del bambino si è resa pronta a rispondere e ad adattarsi ai bisogni di sostegno e di ascolto provenienti dall’altro, questo adattamento precoce può aver sviluppato la capacità empatica di intuire i bisogni dell’altro, tanto che poi la persona, diventata adulta, può scegliere professioni difficili come quelle d’aiuto, con l’intento, mai del tutto avvertito consciamente, di esprimere in qualche modo le proprie esigenze interiori di accoglienza, affettività, ascolto, che sente essere tate trascurate da piccolo: la scelta di curare, quindi, può essere dettata dal profondo bisogno di occuparsi di se stessi prendendo in considerazione i bisogni dell’altro. Però fare l’infermiere implica la dolorosa fatica e necessità di gestire il rapporto con persone malate, spesso anche gravi; di integrare cioè, tutti i giorni, nella propria vita, esperienze spiacevoli e difficili come le malattie e la morte e questo è davvero molto angosciante e un profondo e difensivo senso di invulnerabilità può allora bloccare la vicinanza emotiva con il malato, impedendo di assisterlo con una comunicazione costruttiva. Solo accettare il coinvolgimento come persona, pur mantenendo la giusta distanza per riuscire anche a curare, può consentire all’infermiere di non ridurre il malato a un corpo e se stesso a un semplice strumento, accettando che la rabbia, l’impotenza, la paura , la solitudine di chi è ammalato siano il riflesso della rabbia, della paura, della solitudine di chi è di fronte al malato stesso.
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ZAPPAROLI Giovanni C. – ADLER SEGRE Eliana (1997) Vivere e morire Feltrinelli ed. Milano
Ringraziamenti Si ringrazia in particolare l’I.I.D. Ivana Carpanelli (presidente dell’A.I.I.O.) per la sua disponibilità e la preziosa collaborazione.