Giulio Gasca – Psichiatra, psicoterapeuta
Mariella Torasso – Psicoterapeuta
17 febbraio 2016
Queste riflessioni nascono in margine alla conduzione di un master SPC di psicodramma analitico con un gruppo di psicoterapeuti. I partecipanti, formati in un contesto orientato in prevalenza psicoanaliticamente al rapporto duale, si erano interrogati sulla possibilità di integrare tale approccio con l’intervento attraverso il gruppo. Il gruppo, che era stato comunque presente nella loro formazione, poteva significare ora sia la dimensione in cui esperire nuove forme di rappresentazione delle problematiche concernenti la relazione terapeutico-professionale, sia uno strumento vero e proprio con cui affrontare, presentificandola, la sofferenza dei pazienti.
Il protagonista, che pone al gruppo e al supervisore un problema di tecnica analitica o di difficoltà di relazione con il paziente, concretizzandolo con una scena, viene guidato nella messa a fuoco del problema, ricostruendone sfumature, significati e collegamenti con immagini interiori. Viene infatti favorita l’immedesimazione del terapeuta nei vissuti del paziente e vengono utilizzate tutte le possibilità intuitive dell’immedesimazione inconscia del terapeuta stesso e del gruppo.
Il terapeuta riceve dal paziente una grande quantità di informazioni, per cui messaggi subliminali, tono di voce, espressioni del viso, le varie componenti della comunicazione non verbale concorrono ad organizzare una massa di informazioni accantonate nell’inconscio. A tale proposito non bisogna neppure dimenticare il fatto che qualsiasi terapeuta usa inevitabilmente una griglia interpretativa concettuale legata al suo modello teorico e ai suoi studi e questo può condurre a escludere dati dissonanti rispetto al background personale preesistente.
Ricordiamo qui che alla base della concezione tradizionale di transfert si situa l’assunto dell’esistenza di una realtà oggettiva, nota all’analista, che verrebbe facilmente distorta dal paziente. Contro tale assunto, sempre in ambito psicoanalitico, si sono levate le critiche di quegli studiosi che, da una prospettiva interpersonale, sottolineano come i fenomeni psicologici possano essere compresi solo nel contesto intersoggettivo delle relazioni: “… noi sosteniamo che l’unica realtà che attiene e che è accessibile all’indagine psicoanalitica (cioè all’empatia e all’introspezione) è la realtà soggettiva: del paziente, dell’analista e del campo psicologico creato dalla loro interazione (Stolorow, Atwood, I contesti dell’essere, Bollati Boringhieri 1995, p.97)”.
Stolorow e Atwood analizzano criticamente il concetto di alleanza terapeutica implicito sia nella psicologia dell’Io, che nella psicoanalisi kleiniana. In particolare sottolineano come, da tali prospettive, l’alleanza terapeutica richieda che il paziente si identifichi non solo con l’atteggiamento di indagine empatica dell’analista, ma anche con i suoi presupposti teorici. “Quando gli analisti invocano il concetto di realtà oggettiva e quello connesso di distorsione, questo svia e rende difficile l’esplorazione della realtà soggettiva codificata nelle comunicazioni del paziente, una realtà il cui chiarimento è l’obiettivo per eccellenza del metodo psicoanalitico (cit, p.98)”.
Come sottolinea anche Kohut, l’alleanza terapeutica non deve fondarsi sull’impegno del paziente ad identificarsi con gli insight dell’analista, ma sull’impegno dell’analista a tentare di comprendere il paziente, ponendosi in una prospettiva interna e non esterna alla soggettività del paziente.
Con l’indagine empatica, in cui l’osservatore risulta parte integrante dell’esperienza, è possibile accedere ai significati che il legame va assumendo, proprio riconoscendo la validità percettiva dell’esperienza transferale del paziente.
Stolorow e Atwood sottolineano come, in un ambiente in cui la realtà percettiva del paziente non è minacciata, la capacità di autoriflessione può svilupparsi e consentire di avvicinare e trasformare attività difensive arcaiche e deragliamenti evolutivi. “…l’impegno ad indagare, dalla prospettiva della realtà soggettiva del paziente, l’impatto dell’analista, della sua attività interpretativa e dei suoi presupposti teorici, quali che siano, è decisivo per il costituirsi di un contesto terapeutico in cui i principi organizzatori inconsci del paziente possano emergere con la massima chiarezza e possano di conseguenza risultare accessibili alla trasformazione terapeutica (cit, p.107)”.
Il terapeuta (e il gruppo di terapeuti che nel caso del master in psicodramma fa da cassa di risonanza) dispone quindi, nel suo preconscio e nel suo inconscio, di una sorta di banca dati tratti sia dalle vicende personali, che dalle esperienze con altri pazienti, dati solo in parte accessibili alla coscienza. E’ verosimile che tali dati, che troviamo spesso alla base di certe percezioni intuitive, contribuiscano a determinare sentimenti, pensieri, e anche elementi non esplicitamente definiti dal racconto messo in scena dal paziente, ma che possono rivelarsi significativi. Naturalmente non si ha la certezza che le cose siano andate nel modo rappresentato, ma l’esperienza ci mostra (in base a verifiche successive o al controllo incrociato di diversi operatori intervenuti sullo stesso paziente) che solitamente, anche se particolari della rappresentazione non esprimono la concretezza storica della situazione riportata, ne rappresentano almeno simbolicamente l’essenza. Nel caso della ricostruzione del terapeuta, o nel caso delle interpretazioni raggiunte dal gruppo, si mostrano quindi possibilità che vale la pena esplorare.
Una simile tecnica aiuta certamente il terapeuta a immedesimarsi nel mondo e nel particolare angolo visuale del paziente, anziché trattarlo dall’esterno come un oggetto guasto da aggiustare. Dobbiamo però ammettere che anche con questo sistema possono essere introdotte distorsioni per la sovrapposizione dei vissuti personali del terapeuta a quelli del paziente, cosa che del resto avviene di fatto quando si persegue un atteggiamento distaccato e razionale, facendosi guidare – per dirla con Jung – dalla funzione pensiero. In realtà lo psicodramma, attraverso giochi successivi di momenti della storia personale del terapeuta, può evidenziare tali sovrapposizioni e mostrare quando la somiglianza delle dinamiche interne aiuta il terapeuta a comprendere meglio il paziente, e quando invece distorce la sua percezione di esso.
In supervisione, attraverso l’esplorazione soggettiva di alcuni ruoli, è possibile per il terapeuta rievocare la rete relazionale tra le sue parti interne e quelle del paziente. Infatti se in un gruppo di psicodramma possiamo evocare una sorta di triangolazione tra i vertici rappresentati da dinamiche di gruppo, storie personali, mondo interno, in un gruppo di supervisione dovremo aggiungere un quarto vertice rappresentato dal mondo del paziente e dalla relazione terapeuta-paziente: “Il quarto vertice può essere visto sia in relazione alla storia personale del terapeuta, sia all’attivazione delle parti interne del terapeuta stesso, sia ancora in relazione alla dinamica del gruppo di supervisione, poiché spesso il fatto che in un certo gruppo, in un certo momento, sia portato un particolare caso clinico, rispecchia specifici movimenti inconsci del gruppo stesso (Gasca, cit, p.9-10)”.