di Laura Grignola
fonte Studia Miscellanea, Grafica 7 Ed., Genova 1981
Se Pinel scriveva, all’inizio del XIX secolo, nell’illuminata introduzione alla prima edizione del suo Traité medico-philosophique, che “le difficoltà vere e proprie sembrano …
Se Pinel scriveva, all’inizio del XIX secolo, nell’illuminata introduzione alla prima edizione del suo Traité medico-philosophique, che “le difficoltà vere e proprie sembrano aumentare, appena si intraprende una carriera medico-psicologica”, oggi non possiamo che verificare l’attualità di tale proposizione.
Per chiarire la genesi di queste difficoltà, che presentano una corrispondenza isomorfica sul piano epistemologico e su quello giuridico istituzionale, dobbiamo procedere ad una serie di distinguo e ad una posizione del problema in termini massimamente generali.
L’approccio alle problematiche psicologiche può diversificarsi, sia a livello metodologico che professionale, a seconda delle finalità perseguite e può esaurirsi nella sperimentazione o essere di tipo strettamente clinico. Ma, almeno per quel che riguarda la realtà italiana, la figura dello “psicologo clinico” è completamente assente. A livello istituzionale, infatti, le uniche possibilità di formazione sono quelle che riguardano la psicologia sperimentale e la psichiatria.
Vediamo dunque di chiarire tradizioni e competenze professionali di queste due immagini pubbliche.
La psicologia sperimentale
Di tradizione recente, lo sperimentalismo risale a quello Zeitgeist positivistico che indusse la psicologia ad una progressiva rivendicazione della propria autonomia dalla filosofia attraverso l’assunzione di parametri interpretativi propri delle scienze naturali (il cui ideale, come è noto, è quello della quantificazione matematica mutuato dai greci) fino a giungere, con il Wundt, ad una sistemazione sostanzialmente compiuta, che già racchiude in nuce contraddizioni e peculiarità proprie degli attuali e sofisticati sviluppi. Tale progetto di decodificazione sperimentale dell’apparato psichico, del resto già preconizzato dalla filosofia empirista del XVII secolo con l’introduzione del concetto di Erlebnis, auspica – sul modello della fisica – l’individuazione, nell’esperienza sensoriale ridotta allo stimolo neurofisiologico e quindi all’input ambientale (paradigmatica a questo proposito la legge di Weber-Fechner), di quell’elemento assolutamente semplice che permetta la ricostruzione, in termini quantitativi, dell’intera fenomenologia psichica.
A questo punto, però, veniamo a trovarci di fronte ad un’antinomia metodologica che rende senz’altro problematica la fondazione scientifica della psicologia. Infatti, se pieghiamo l’immediatezza dell’esperienza psicologica alle esigenze di universalità e assolutezza dei principi matematici, travalichiamo il momento dell’infido giudizio soggettivo per trovarci di fronte a dei dati inopinabili ma perdiamo di vista l’autentica essenza del fatto psichico, la realtà del sentire quotidiano del soggetto. E da tale realtà non si può certo prescindere se, dal piano della pura sperimentazione, scendiamo in campo clinico.
L’approccio sperimentale non può quindi esaurire l’intera ricerca psicologica. Comunque esso consiste, praticamente, nello studio, nella descrizione e, soprattutto, nella misurazione del comportamento umano, sia nei suoi aspetti più esteriorizzati e perciò osservabili direttamente, sia per quanto riguarda quegli aspetti che implicano una mediazione verbale o che possono essere tecnicamente desunti da indici fisiologici quali un fenomeno di tachicardia, un aumento della frequenza respiratoria o del cosiddetto riflesso psicogalvanico.
Professionalmente lo psicologo può occuparsi di didattica della psicologia o essere impegnato nella ricerca o nell’applicazione di quei procedimenti derivati appunto dalla ricerca, sia in un contesto clinico (test psico-diagnostici) che di consulenza a carattere sociale o tecnico-industriale.
L'”ideale” neuropsichiatrico
Per quel che concerne, invece, l’approccio clinico, l’unico ideale istituzionalizzato è quello neuropsichiatrico.
La tradizione clinico-psichiatrica affonda le sue radici in quell’illuminismo greco che vedeva la medicina emendarsi dalla cattività teurgica e templare.
Se già Ippocrate descriveva un caso di “insania puerperale”, l’atteggiamento nei confronti della malattia mentale fu caratterizzato da alterne vicende ma alle osservazioni, sempre più ricche di particolari, delle sindromi cliniche non corrispose mai un’adeguata comprensione della problematica inerente tale patologia. A seconda del momento storico il malato di mente fu idealizzato, sovrumanizzato o arso sul rogo; espulso extra moenia o dimenticato nei sotterranei; ora nelle mani di legulei e di autorità ecclesiastiche saldamente ancorate ai miti del Malleus Maleficarum, ora oggetto di minuziose descrizioni da parte di medici desiderosi di preservarsi da compromessi ed impegnati nel solito rituale di emarginazione attraverso virtuosismi diagnostici e metodiche terapeutiche assolutamente eterogenee che procedevano dai salassi alle ablazioni chirurgiche.
Attualmente l’ideale psichiatrico è ancora quello dell’inquadramento nosografico delle sindromi e della concezione dell’uomo quale ente anatomico. Benché, per quel che riguarda le psiconevrosi e le psicosi cosiddette endogene, non si sia ancora evidenziato alcun danno anatomico, l’etiologia organica viene comunque ipotizzata, auspicando di pervenire, prima o poi, alla definizione di tale eziopatogenesi in termini o di alterazione anatomica, appunto, oppure funzionale (dismetabolismo, disendocrinia). L’intervento sarà dunque essenzialmente farmacologico e centrato, per ora, sulla sintomatologia.
Indirizzo psicogenetico e sue prospettive metodologiche
Nell’ambito della clinica esiste un altro indirizzo, quello psicoterapeutico, al quale non corrisponde, però, alcuna professione ufficialmente codificata.
L’indirizzo psicoterapeutico ipotizza la psicogenesi delle malattie mentali, prescinde – metodologicamente – da considerazioni circa il substrato biologico (pur non intendendo escludere l’ingerenza di eventuali variabili organiche) e si propone di incidere, sul piano esclusivamente psichico, attraverso un metodo di carattere dialogico.
Se possiamo far risalire tale programma terapeutico organicamente sistematizzato a Freud, possiamo però nel contempo rilevare che già per la sensibilità individuale di un Vivers o, in campo più strettamente psichiatrico, di un Wayer o di un Pinel si era auspicato di opporre all’incomprensibilità del malato di mente un comportamento corretto – e quindi terapeutico – che gli permettesse di uscire dal proprio autismo e di riconquistarsi una possibilità di sintonia.
Tale ipotesi psicogenetica è ormai data per scontata sia da chi si occupa esclusivamente di sperimentalismo, sia dall’opinione pubblica in generale; l’indirizzo psicoterapeutico può giungere – a seconda delle impostazioni e delle iniziative individuali – a permeare il mondo psichiatrico e delle cliniche universitarie. Ma sussiste sempre una certa diffidenza nei confronti di chi si professa psicoterapista (al di là dei possibili dubbi circa l’effettiva competenza professionale) e – come dicevamo – manca, in senso assoluto, una legittimazione ufficiale di tale professione.
Quali sono, dunque, i problemi che stanno all’origine di questa diffidenza generalizzata e di questa difficoltà di istituzionalizzazione?
Abbiamo visto come il momento della coscienza, essenzialmente problematico e contraddittorio, si costituisca come antinomico a qualsiasi tentativo di sistematizzazione scientifica di tipo tradizionale la quale comporta ineluttabilmente il sacrificio di quell’esperienza immediata, percepita dal soggetto come l’unica effettiva concretezza.
Del resto, questa organizzazione sistematica rappresenta per l’uomo un’esigenza imprescindibile, vitale, di controllo e di dominio sul mondo. Tale “epistemofilia” induce il soggetto a tradurre sul piano dell’esteriorità, in rappresentazioni e segni che giungono ad una consistenza oggettuale autonoma, fino ad identificarsi col reale, l’immediatezza delle proprie sensazioni ed i fantasmi della propria coscienza. Così ad esempio, l’interiezione, antecedente di ogni codice linguistico, luogo della contrazione, in termini di suono, di un determinato contenuto emotivo, perde la sua connotazione di rappresentazione segnica dell’oggetto o della situazione che ha determinato la modificazione affettiva, per assurgere ad essenza stessa delle cose, per trasformarsi in divinità momentanea, lògos, dio dispensatore di verità assolute. Alla fine, dunque, l’uomo è paralizzato, posseduto dagli ingranaggi di quegli stessi strumenti da lui inventati per il controllo della propria realtà.
Formule linguistiche, procedimenti matematici, leggi fisiche, criteri estetici, miti religiosi diventano parte integrante della realtà, dell’esteriorità oggettuale. L’uomo non li riconosce più come proprie invenzioni, come proprie determinazioni linguistiche al fine di pervenire all’organizzazione razionale, alla strutturazione dell’esperienza che egli fa del mondo e di se stesso, della propria interiorità, delle proprie emozioni.
Del resto, anche una scienza come la fisica, oggettiva per eccellenza, agli antipodi della psicologia, non ha potuto esimersi dal considerare la necessità di un procedimento diverso. Anche per la fisica il metodo induttivo ed il determinismo meccanicistico si evidenziano in tutta la loro inattualità. La teoria dei quanti di Plance e quella relativistica di Einstein costituiscono la testimonianza che a livello submicroscopico e supermacroscopico i fenomeni appaiono altrettanto complessi di quelli che caratterizzano i processi della vita. abbandonato “l’ideale classico di semplicità e di certezza”, non si è più potuto prescindere da quegli elementi di relatività rappresentati da un lato dall’osservatore e dall’altro dalle finalità che tale osservatore si propone di conseguire. A seconda della variabile soggettiva e delle finalità che le contraddistinguono, determinate teorie possono essere in netta contraddizione senza per questo invalidarsi reciprocamente.
Ma, come dicevamo prima, l’esigenza di dimenticarsi che ogni branca della conoscenza umana è una costruzione ideata dall’intelletto stesso, l’esigenza di aderire incondizionatamente al mito di un intelletto che si limita a riflettere una realtà positiva così come essa è sul piano dell’esteriorità e che può riflettere tale realtà in quanto già preventivamente strutturato per leggerla, in quanto partecipe dello stesso meccanismo universale, è in realtà un’esigenza dell’uomo che esprime così il suo bisogno di sicurezza, di controllo della realtà esterna in funzione del controllo della propria realtà interiore, dei propri sentimenti. Una realtà che esiste senz’altro e che senz’altro obbedisce a determinate leggi, costituisce per l’uomo un imprescindibile punto di repere che tende ad alleviare il senso di disorientamento che sperimenta ogni qual volta si vede invece costretto a fare riferimento solo a se stesso e alla propria capacità di giudizio senza il supporto di formule e di quantificazioni matematiche.
Di qui, dunque, e non certo in funzione di un’effettiva supremazia teorica, il monopolio euristico del positivismo ed il bisogno di invalidare qualsiasi processo riflessivo che non si fondi su sequenze logiche matematicamente codificabili.
Di qui la diffidenza nei confronti dell’altro tipo di razionalità proposto dalla psicoanalisi, cioè da una disciplina che, in cambio di un’autocritica senza mezzi termini, offre all’individuo la possibilità di un ordinamento e di un’integrazione razionale della propria emotività senza peraltro sopprimerla e senza fornire – almeno in teoria – valori prefabbricati o assoluti da mitizzare; che porta con sé non l’immagine di un soggetto astratto, tanto quantificato, misurato quanto irreale, razionalizzato e serializzato, ma di un soggetto che coglie se stesso nell’atto di riflettere, che elabora incessantemente e creativamente la propria esperienza, la propria realtà esistenziale.
Del resto prospettive strutturali nuove, nuovi parametri di conoscenza devianti dalla norma costituita della tradizione, appaiono folli, ansiogeni. La nuova dimensione prospettica offerta dalla tesi psicogenetica non viene vissuta come una possibilità di interpretazione linguistica dell’esperienza, come una Weltanshaung, finalizzata al conseguimento di quella integrazione ideale – che a livello esistenziale ciascuno persegue – tra soggetto ed oggetto. Weltanshaung che si innesta in un determinato contesto storico, che ha una sua realtà che affonda le radici nella tradizione culturale, di cui rappresenta un superamento sempre suscettivo di ulteriori organizzazioni e sistematizzazioni. Una Weltanshaung che non costituisce una “violenza interpretativa” se non in relazione a quell’assolutizzazione linguistica derivante dal bisogno di una verità esterna che risulti la chiave magica della conoscenza e dell’esistenza.
Inoltre, nel timore del confronto con le categorie della patologia psichica, si preferisce ascrivere all'”altro” , al “malato vero”, allo “psicotico” ogni contenuto di effettiva patologia. Oppure le formule psicoanalitiche vengono fagocitate da un io che potrebbe essere definito infantile e pregenitale, un io che, attraverso una comprensione superficiale, depaupera e tradisce il loro reale valore semantico ed umano.
A queste ragioni di carattere psicologico, che del resto sottendono l’intera costruzione scientifica e che inducono l’uomo – come dicevamo – ad un atteggiamento ontologico e fideistico, si sommano – analizzando il problema in termini sociali – altre ragioni extra-scientifiche, le quali intendono bandire l’acquisizione di qualsiasi possibilità correttamente critica, che giocano su questa spontaneità fideistica dell’uomo e che fanno del positivismo e del neo-positivismo l’indirizzo scientifico su cui poggia tutto l’attuale estabilishement tecnocratico, così come hanno fatto, soprattutto in paesi quali quelli nordamericani, dell’insegnamento della psicologia e della pratica psicoterapeutica un big business perfettamente inserito nell’attuale quadro sociale consumistico.
Psicoterapia ed istituzione
Abbiamo fin qui considerato, in termini per ora molto generali, i problemi di carattere epistemologico che una fondazione scientifica della psicologia – ed a maggior ragione di un metodo psicoterapeutico – comporta, nella misura in cui si scontra con quella razionalità di matrice positivistica che costituisce il fondamento, psicologicamente più immediato ed appetibile, di qualsiasi costruzione logica.
Tali problemi si estrinsecano, sul piano istituzionale, in termini di confusione e di assenza di una struttura legalmente riconosciuta, che abiliti professionalmente. Esistono comunque forme di istituzionalizzazione privata, alcune di carattere internazionale, sorte tutte sulla matrice della Società Internazionale di Psicoanalisi fondata da Freud nella primavera del 1910 al fine di salvaguardare da forme spurie e “selvagge”, da facili indottrinamenti, l’ortodossia del training analitico.
Scrive Sigmund Freud nella sua Storia del movimento psicoanalitico (1914): “Reputavo necessaria la forma di un’associazione ufficiale, perché temevo gli abusi che sarebbero stati compiuti in nome della psicoanalisi, appena essa fosse diventata popolare”. Legittime, dunque, le apprensioni di Freud e dei suoi adepti, del resto preoccupati più del buon nome e della purezza teorica della psicoanalisi che non delle conseguenze – mai tragiche – che un cattivo approccio terapeutico può comportare per un paziente.
Tale autodeterminazione istituzionale non poteva però non implicare ulteriori problemi, primo fra tutti quello di costituire un precedente facilmente emulabile e non sempre con altrettante garanzie di serietà.
Dal lontano 1910 ci si è trovati di fronte, in tutto il mondo, ad una vera e propria proliferazione di istituti, centri, associazioni, società, cooperative, ora a scopo esclusivamente terapeutico, ora a scopo anche didattico, professanti le più svariate teorie ed ideologie, a volte sorrette da un buon livello culturale, a volte semplicemente inqualificabili, in genere comunque propensi a subordinare la ragione scientifica a quella economica.
Infine, sempre grazie all’assenza di una definizione professionale, ci si è trovati di fronte a sedicenti psicoterapisti; dai laureati in psicologia che di psicoterapia hanno appreso solo i brevi cenni di un manuale, a veri e propri millantatori, assolutamente estranei alla psicoterapia e assimilabili ai maghi e agli indovini.
A questo punto chi intende dedicarsi alla psicoterapia tende a ricercare garanzie nell’acquisizione di un’altra specializzazione riconosciuta. Particolarmente adatta per salvaguardarsi da qualunque traccia di incompetenza appare la laurea in Medicina che, come è noto, non solo permette, con l’iscrizione all’albo, la regolarizzazione giuridico-fiscale, ma comporta anche l’acquisizione di uno status sociale per tradizione di indiscusso privilegio; questo al di là del fatto che né i programmi della Facoltà di Medicina né quelli della specializzazione neuropsichiatria prevedono alcuna specifica preparazione psicoterapeutica.
È necessario inoltre notare che le categorie proprie della scienza medica rappresentano una effettiva controindicazione, nella misura in cui sono dirette ad evitare qualsiasi immedesimazione nel paziente, così oggettualizzato, circoscritto e paralizzato dal discorso nosografico. Tale preoccupazione del medico di sfuggire l’identificazione col paziente tradisce una paura di coinvolgimento nei confronti dei problemi psicologici, implica quindi un rifiuto, un ottundimento che rendono la comunicazione dell’altro inintelligibile.
Infine, dal punto di vista strettamente scientifico, limitare all’ambito medico, come si è in realtà proposto spesso l’esercizio della psicoterapia è un non-senso in quanto la psicoanalisi ipotizza una spiegazione in termini esclusivamente psicologici dell’intera fenomenologia psicopatologica.
Quindi, nella stessa scienza medica, sempre peculiarmente contraddistinta da rigidità metodologica, dogmatismo e acrisia, un tempo drasticamente ostile a qualunque impostazione diagnostica di carattere psicogenetico fino ad ostacolarne con ogni mezzo lo sviluppo, oggi tenta di fagocitare categorie e professione imprigionandole in un contesto istituzionale angusto, soffocante e, soprattutto, ingiustificato.
Contro questo tentativo, da parte della classe medica, di arrogarsi ogni diritto sulla professione psicoterapica hanno sferrato un attacco ben mirato i laureati in psicologia, accampando a loro volta l’esclusività sulla professione, per quanto tale facoltà non preveda alcun training adeguato.
Esistono attualmente un disegno di legge (N. 615) comunicato il 20 dicembre 1979 al Senato e una proposta di legge (N. 1611) presentata alla Camera il 17 aprile 1980, entrambe per l’istituzione dell’Ordine professionale degli psicologi ed entrambe volte a favorire i laureati in psicologia.
Resta comunque il fatto che, per cursus accademico, attualmente nessuna facoltà prepara all’esercizio della psicoterapia, la quale, ripetiamo, è ancora monopolio dell’istituzione privata.
Per quel che concerne l’istituzione privata, possiamo osservare che la necessità di una discriminazione dalle proliferanti iniziative incompetenti, provenienti sia dal mondo accademico che da versanti meno chiaramente definibili, ha indotto la Società Psicoanalitica e le altre società internazionali ad un eccesso di difesa, ad un irrigidimento su posizioni particolarmente elitarie ed anacronistiche.
Lunghissimi training, ma soprattutto lunghe permanenze in lista d’attesa per l’esiguità del numero di analisti didatti, lasciano la psicoterapia in mano ad incompetenti, con o senza titoli accademici, rendono la psicoanalisi inadatta a fronteggiare le richieste sociali e portano la professione stessa ai limiti dell’aberrazione.
La Società Psicoanalitica in particolare, con una politica fortemente selettiva, limitando la produzione di analisti ad una ristretta cerchia altamente competitiva, finisce per soffocare nei propri membri la stessa creatività, riducendo la psicoanalisi ad ermeneutica, negando il suo stesso spirito dialettico, trasformandosi in una vera e propria “madre divorante” (Mannoni).
Se la psicoanalisi non è semplice indottrinamento e conoscenza teorica; se la psicoanalisi, la psicoterapia è soprattutto la realtà di un rapporto tra due persone nel quale anche il futuro terapista deve recuperare le emozioni della propria infanzia, cioè quel linguaggio infantile che domani lo renderà capace di sintonia col paziente, col fenomeno della follia, quale può essere il valore terapeutico di un training con il didatta famoso dal quale poi dipende, implicitamente, il proprio inserimento nella struttura psicoanalitica che è, ovviamente, anche una struttura di potere, nella quale il costo di tale inserimento è molto alto, sia in termini finanziari che di impegno.
In un simile contesto si perfezioneranno la conoscenza dei Testi, la tecnica, si disquisirà virtuosisticamente sui temi classici, ci si scoprirà una vocazione di didatta, ma forse si sarà meno capaci di mettere il proprio vissuto al servizio del paziente da “guarire”, di aiutarlo a trovare quelle parole attraverso le quali scoprirsi ed esprimersi.
La psicoanalisi non è semplice trasmissione di un sapere; non è una parola giusta che induce il paziente al cambiamento di prospettiva, ma il continuo confronto con l’analista e con i suoi riferimenti teorici che permettono alla fine al paziente di progettarsi nello spazio e nel tempo. L’analista non è lo specialista in un certo settore ma l’altro in un dialogo che deve portare il paziente alla simbolizzazione di una situazione infantile rimasta cristallizzata ed inespressa. La lunghezza e la durezza del training non garantiscono affatto queste capacità ma, anzi, possono più facilmente portare l’analista a fare proprio l’atteggiamento classico del medico che oggettivizza il paziente, ne osserva con distacco professionale la sintomatologia.
Problematiche, dunque, le garanzie al di fuori dell’istituzione e, nel contempo, difficile il superamento del limite che l’istituzione – privata o anche pubblica – costituisce. E questo sia che si giunga al riconoscimento legale delle società già esistenti, sia che, nonostante tutte le difficoltà di organizzazione e strutturazione accademica si giunga a realizzare un progetto, già auspicato da Freud, circa l’inserimento della psicoterapia nell’ambito dell’università. Queste strutture non verrebbero certo a garantire il buon psicoterapista, ma si eviterebbero da un lato gli eccessi di un’elite e dall’altro l’incompetenza totale e la truffa.
Da quanto abbiamo detto appare però chiaro che l’essenza della psicoanalisi è costituita da un iter interiore che nessuna istituzione potrà mai garantire né codificare; così come del resto nessuna istituzione può concretamente garantire il buon medico, il buon ingegnere, il buon avvocato.
Del resto ciascun vero psicoterapista sa che l’istituzione non solo non può garantire alcunché, ma è anche in stridente antitesi con una formazione professionalmente corretta. Ricercare l’appoggio istituzionale significa, infatti ricercare una situazione di passività o di stasi interiore dominata dalla presenza dell’altro e dalla necessità di adeguarsi al discorso dell’altro, di ridurre il proprio discorso ad una mera ripetizione, indugiando nell’affettività edipica. Il soggetto si spegne come creatività ed autonomia in quanto impegnato in una pseudoattività ambiziosa e coattiva che ha come suo scopo primario l’appagamento della madre fagocitante rappresentata dall’istituzione stessa. Ma se il senso della propria vita si esaurisce in gran parte in questa soddisfazione immediata e narcisistica rappresentata dal proprio inserimento simbiotico nell’istituzione, di quale simbolo catalizzatore può farsi portatore l’analista? La presenza di una tale dicotomia tra il proprio discorso terapeutico e i valori che ne informano l’esistenza, può consentire poi concretamente all’analista di proporre al paziente un nuovo oggetto d’amore? Può egli insegnare un amore al di là delle gratificazioni immediate, un amore mediato dalla riflessione?