Quelle potrebbero essere le mie parole…

di Mariella Torasso
fonte Scuola di Psicoterapia Comparata
Quando ho incominciato ad interessarmi di psicodramma, ho sentito il bisogno di rintracciare, nella storia del movimento psicoanalitico, documenti che documentassero il passaggio dalla …

Quando ho incominciato ad interessarmi di psicodramma, ho sentito il bisogno di rintracciare, nella storia del movimento psicoanalitico, documenti che documentassero il passaggio dalla tecnica del setting individuale a quella di gruppo e che riflettessero sulle implicazioni di tale evoluzione. Forse ero alla ricerca di una sorta di legittimazione per aver introdotto nei miei interessi l’elemento gruppo, troppo spesso associato a percorsi superficiali e comunque lontani dal procedere analitico “ortodosso”.

Ma forse cercavo anche un’espressione già sistematizzata del riflesso che le ultime esperienze attraverso il gruppo avevano riverberato sul mio agire analitico nel setting tradizionale.

Nel corso di tale ricerca sistematica ho avuto modo di reperire testimonianze, resoconti e considerazioni riguardanti analisti che – a partire dagli anni Trenta- avevano sentito l’esigenza di utilizzare setting allargati.

L’impressione di una certa diffidenza, che avevo colto frequentando associazioni analitiche (“ortodosse” e non) e singoli colleghi, nei confronti delle terapie di gruppo, trovava riscontro nelle osservazioni di alcuni studiosi che avevano seguito il percorso delle elaborazioni del pensiero e delle tecniche analitiche in vari autori.

Considerando l’evoluzione di analisti che avevano iniziato ad esplorare le potenzialità del gruppo quale strumento di lavoro, gli storici della psicoanalisi rilevano come molte nuove tecniche venissero respinte perchè ritenute “eretiche”. Ruitenbeek osserva: “Troppi analisti ancora considerano come una minaccia al proprio consolidato metodo di pensiero, l’apparire di nuove tecniche e di nuovi metodi nel processo psicoanalitico, e di conseguenza ignorano il fatto che la psicoterapia, analogamente a ogni altra cosa, è un continuum, un processo di crescita e di sviluppo”.

Gli studi a cui si fa qui riferimento sono ricchi di rilievi circa l’apporto dei principi teorici e della tecnica psicoanalitica ad un setting allargato, dapprima senza considerazione per la specificità psicologica del gruppo stesso.

Gli analisti che si occuparono di gruppo ci hanno lasciato spesso riflessioni e teorizzazioni sul contributo della psicoanalisi al nuovo setting e si sono dimostrati a volte preoccupati odi sottolineare l’accordo della tecnica di gruppo con una prospettiva rigorosamente psicoanalitica, o di scoprirne nuove possibili evoluzioni.

Avevo trovato molte conferme al bisogno di legittimare il ricorso a tecniche di gruppo ( si trattava peraltro, nel mio caso, di psicodramma analitico junghiano, quindi in continuità con l’orientamento della formazione individuale ), ricorso reso indispensabile dalla necessità di gestire situazioni altrimenti improponibili al setting duale. non avevo però trovato considerazioni sul riflesso che la pratica del gruppo poteva aver avuto sulla conduzione dell’ analisi individuale.

Nella mia esperienza invece, senza che si fosse fatto strada con un atto intenzionale, “qualcosa” cominciava a fluire nella pratica analitica. Per chiarire il “qualcosa” che ho cominciato ad avvertire, riporterò in breve alcune battute di una seduta con un paziente schizofrenico, in terapia da quattro anni.

Luca ha trent’anni; il disagio psichico è esploso pesantemente sei anni fa circa. Episodicamente, nonostante il controllo farmacologico, Luca attraversa dei periodi in cui compaiono delle voci, che si fanno via via più insistenti e minacciose. Durante uno di questi momenti, nel corso di una seduta, Luca verbalizza contenuti insolitamente aggressivi nei miei confronti: “Le voci mi hanno tormentato tutto ieri. Anche adesso ne sento una, forse è la Madonna, ma è strano che sia lei. Ieri sera mi diceva ammazza tuo fratello, ammazza quell’altro… Adesso mi sta dicendo ammazza la dottoressa…”.

Nell’attimo in cui, inquieta, formulo rapidamente alcuni pensieri “chissà se passa all’atto…sono sola in questo studio…Luca è molto più robusto di me”, mi torna in mente un passo di Jung (che ho poi rintracciato, in seguito, sul testo): “Essa è schizofrenica…E’ tormentata da innumerevoli voci, distribuite per tutto il suo corpo. Trovai una voce che era veramente ragionevole e disposta a collaborare. Cercai di coltivare questa voce, con il risultato che il lato destro del suo corpo da circa due anni è libero da voci”. Poichè non parevano esistere, nel mio caso, voci “disposte a collaborare”, mi sono immediatamente sentita nella funzione di “doppio”:

– Che cosa rispondiamo a questa voce?
– Io non ammazzo la dottoressa.
– Perché non la ammazzo?
– Perché mi sta aiutando a capire delle cose…
– E perchè quella voce mi sta dicendo di ammazzarla?

Ripensando alla seduta, mi sono accorta di avere attivato, attraverso l’associazione con la lettura di Jung, la funzione di soggetto del conduttore, che con una parte di sè si immedesima nel ruolo del paziente,con l’altra si colloca al di fuori, richiamando il paziente a fare lo stesso. Ecco emergere allora la funzione di terapeuta interno di Luca, che diviene, attraverso il modello portato dall’analista, soggetto rispetto alla voce “Madonna”.

Senza che lo decidessi con l’utilizzo razionale di una tecnica, in una seduta in cui il timore di essere sopraffatta aveva scalzato l’abituale “attenzione fluttuante” dell’analista, era subentrata la mobilità del conduttore, che in una sessione di psicodramma si sposta accanto al paziente, si identifica con il protagonista, e dà voce ai pensieri dell’altro.

Sempre nel tentativo di definire i confini di una pratica analitica che sento accogliere suggestioni esterne, desidero riportare un passaggio di un’altra seduta, considerando il lavoro relativo ad un sogno. Il paziente in questione è un giovane di trent’anni circa, che tre anni fa ha perso il padre.

Gianni è inconsolabile, gli pare che tutti abbiano superato troppo presto il dolore per la scomparsa; da un anno soffre di crisi d’ansia e di preoccupazioni eccessive per sè e per i suoi cari. Dopo cinque mesi di lavoro analitico, Gianni porta questo sogno:

“Andavo al cimitero, come al solito, e vedevo i morti con la testa di fuori. Erano sotterrati, però potevano parlare e muovere la testa. C’era anche mio padre. Mi sono arrabbiato e ho pensato: ma guarda se devono far morire la gente per tenerla così! Tanto vale che siano morti, se muovono e parlano. Poi mio padre, arrabbiato, mi sgridava: guarda come sei ridotto, ma devi fare così? (si vede che sapeva che sto male per l’ansia)”.
Mentre nei sogni precedenti il padre compariva come vivente – e il risveglio era particolarmente penoso per il divario sonno-veglia – per la prima volta si ha qui un padre morto a metà (o vivo a metà ), segno che la consapevolezza della mancanza si sta facendo strada. Il sogno, che si presta facilmente ad una lettura soggettiva, aggiunge nuovi elementi sui sentimenti di Gianni per il padre e per ciò che rappresenta, ma le associazioni – formulate stancamente – non portano a nulla di interessante.

Anche in questa situazione di difficoltà, mi sono ritrovato ad utilizzare la risorsa della rappresentazione della scena onirica. Alla richiesta “Cosa direbbe nei panni di quel padre mezzo sepolto?”, Gianni inizia con il riprendere la preoccupazione espressa dal padre per la salute del figlio, ma poi l’arrabbiatura del padre si rivela essere quella del paziente stesso:
“…Io qui non posso fare niente per te, non posso andarmene come vorrei, sono stufo di essere immobilizzato, perchè evidentemente sono vivo, se posso parlare. Sono un pò anche arrabbiato con te che mi vieni sempre a portare i fiori e mi tratti da morto”.
E dopo alcuni attimi di silenzio, Gianni continua:
“Forse sono io che nono lascio riposare mio padre… Forse sono io che parlo…quelle potrebbero essere anche le mie parole”.
Probabilmente Gianni sarebbe comunque arrivato, attraverso altre vie associative e altri percorsi, a comprendere che il padre è anche l’espressione di una parte di sè, arrabbiata per quello stato a metà tra la vita e la morte che riguarda direttamente il figlio.

Il fatto che il paziente sia stato “portato” a vestire i panni del padre, probabilmente ha creato lo spazio in cui esprimere le proprie perplessità e la propria rabbia per essere rimasto ancorato al ruolo rigido di figlio che piange il genitore scomparso e che non sa diventare padre di se stesso.

I due momenti precedenti, desunti dalla clinica, mi pare rispondano al mio bisogno di riconoscere il “qualcosa” riverberato dalla pratica di gruppo nel setting duale.

Forse il segno lasciato dallo psicodramma, in questo caso, sta nel ricorso, da parte dell’analista, soprattutto quando la terapia si fa stagnante, al rappresentarsi la situazione in termini di ruoli del soggetto stesso, in modo da aggirare la staticità dell’associazione che non porta a nulla o il ripetersi dei vuoti riferimenti dello schizofrenico.

La rappresentazione nell’immaginale – nei termini del gioco psicodrammatico – del dialogo tra le componenti del soggetto, nella mia esperienza, ha supportato il difficile compito di accompagnare l’analizzando a riconoscere le proprie parole.

E’ un modo di recuperare al setting individuale quel forte potenziale del setting di gruppo in cui – seguendo le parole di Giulio Gasca – “…si ha una molteplicità di punti di vista attivi che permettono di considerare e soprattutto di vivere la situazione nella sua piena complessità: il problema non viene ridotto ad un unico modello interpretativo, ma viene visto in tutte le sue valenze possibili contemporaneamente. La pratica psicodrammatica, ha influenzato il mio modo di condurre l’analisi individuale; io tendo ad esempio a far portare al paziente delle immagini concrete relativamente ad un problema, analizzando il ruolo assunto in quella situazione e cogliendo gli altri personaggi che interagiscono come possibili parti dell’individuo”.

Ancora in un’intervista, Maurizio Gasseau, interpellato sull’influenza dell’agire psicodrammatico sul suo operare di psicologo analista, osserva: “Quando ho davanti il singolo, sento che nei sogni c’è la popolazione dei personaggi interni e viene vivificata nella stanza analitica del lavoro a due una gruppalità che nel lavoro psicodrammatico può essere rappresentata”.