15 Ottobre 2019

Michel Houellebecq, “Serotonina”

Recensione di Isabella Donato, psicoterapeuta SPC

“E’ una piccola compressa bianca, ovale, divisibile. Non crea né trasforma; interpreta. Ciò che era definitivo, lo rende passeggero; Ciò che era ineluttabile, lo rende contingente. Fornisce una nuova interpretazione della vita-meno ricca, più artificiale, e improntata ad una certa rigidità. Non dà alcuna forma di felicità, e neppure vero sollievo, la sua azione è di tipo diverso: trasformando la vita in una serie di formalità, permette di raggirare. Pertanto aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo.”

 

E’ attraverso questo “filtro”, il farmaco che il protagonista assume per non sprofondare nella depressione, che apparentemente impedisce il dolore, che il protagonista Florent-Claude Labrouste, 46 anni, agronomo al ministero dell’Agricoltura, narra di sè , fa un bilancio della sua esistenza e dell’epoca che sta vivendo. E’ un inanellare cinico, disilluso, senza speranza di vicende personali e sociali. Ripercorre tutte le relazioni: in realtà assistiamo ad avvicendamenti di corpi, scopate più o meno soddisfacenti, ritratti ginecologici e di prestazioni, amicizie senza intimità. Viene tradito, tradisce ma nulla importa, persino la certezza di essere stato raggiunto dall’amore non dà sollievo ma viene annegata in una indifferenza raccapricciante.
Il protagonista non cerca comprensione, vuole solo disgustare e dimostrare che l’umanità, lui compreso, fa schifo, che la società si sta sfaldando e scivola verso una globalizzazione dove la salvaguardia della piccole comunità, del tessuto economico delle piccole realtà locali è distrutta e con essa la speranza di vita dignitosa di milioni di persone.
L’unico momento in cui riesce a suscitare tenerezza è quando parla dei genitori, un racconto apparentemente marginale, buttato lì tra le altre digressioni come una vignetta di costume, scopriamo invece che la madre si suicida insieme al padre malato terminale. E’ la conferma di essere sempre sempre vissuto da estraneo, mai incluso in un cerchio affettivo. E il senso di estraneità, di vedere tutto come da dietro un vetro, sempre dal di fuori, senza contatto, pervade tutto il romanzo.
Il fondo si tocca quando chiede aiuto e il medico consultato, oltre a fornirgli il Captoprix, il nuovo preparato serotoninergico, gli comunica che l’effetto collaterale è la perdita di libido e l’impotenza e, solidale con le future difficoltà, gli fornisce un elenco di escort cui attingere nei momenti di bisogno; è la Caporetto della capacità di contatto e di vicinanza, della possibilità di dare senso e speranza alla sofferenza emotiva.
L’impotenza è generale, non solo sessuale, non c’è margine d’azione, tutto ci scorre sopra la testa senza che si possa fare nulla, ed è preesistente al farmaco, che la rende solamente incarnata, oggettiva, esterna ed estranea.
Ma la serotonina infine non basta, oltre all’impotenza dona al protagonista la sensazione che anche spegnere ogni desiderio non “salva” , ma rende solo più facile l’annullamento di sè .

Houellebecq è il cantore dell’epoca delle “passioni tristi” di Spinoza, dell’impotenza, della disgregazione, della perdita di senso e della speranza e, come dicono un filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag e un professore di psichiatria infantile e dell’adolescenza Gérard Schmit nel loro libro “l’epoca delle passioni tristi”, del passaggio da un futuro promessa ad un futuro minaccia.
Scrive Umberto Galimberti:” Siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (a differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della psiche maniacale tutta concentrata sul presente) quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora «il terribile è già accaduto», perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’ energia vitale implode.
La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell’assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva.
A ciò si aggiunga che le passioni tristi e il fatalismo non mancano di un certo fascino, ed è facile farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica che, dalla minaccia nucleare a quella terroristica, cade come un cielo buio su tutti noi. Ma è anche vero che le passioni tristi sono una costruzione, un modo di interpretare la realtà, non la realtà stessa, che ancora serba delle risorse se solo non ci facciamo irretire da quel significante oggi dominante che è l’insicurezza. Certo la nostra epoca smaschera l’illusione della modernità che ha fatto credere all’uomo di poter cambiare tutto secondo il suo volere. Non è così. Ma l’insicurezza che ne deriva non deve portare la nostra società ad aderire massicciamente a un discorso di tipo paranoico, in cui non si parla d’altro se non della necessità di proteggersi e sopravvivere, perché allora si arriva al punto che la società si sente libera dai principi e dai divieti, e allora la barbarie è alle porte. Se l’ estirpazione radicale dell’ insicurezza appartiene ancora all’utopia modernista dell’onnipotenza umana, la strada da seguire è un’altra, e precisamente quella della costruzione dei legami affettivi e di solidarietà, capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle, in nome degli ideali individualistici.

Freud diceva che “in mancanza della felicità, gli uomini si accontentano di evitare l’infelicità” ,ma oggi anche questo compito, secondo Houellebecq, pare irraggiungibile.