Alla ricerca della verità

commento di Cinzia Della Casa
fonte La Repubblica

La notizia

Uccisa in un agguato l’inviata del Corriere della Sera
La Repubblica, martedì 20 novembre 2001

Il commento

Per tutta la settimana si sono susseguiti sui giornali titoli che riportavano la notizia della morte di tre giornalisti, fra cui un’italiana, uccisi in un agguato in Afghanistan. Molti i commenti dei mass-media, molta la partecipazione emotiva e le lettere di sgomento e cordoglio pervenute alle redazioni dei giornali. Un giornalista, alla radio, si chiedeva se saremmo stati ugualmente scossi se si fosse trattato della morte di persone che svolgevano un tipo di lavoro completamente diverso (un ingegnere che costruiva una diga, un operaio caduto da un impalcatura…). Anch’io mi sono ritrovata dolorosamente turbata. Che cosa colpisce di questo avvenimento?

Certo colpisce che si tratti di una donna; di una donna andata in un paese dalla cultura così diversa da quella occidentale. Per il potere degli stereotipi ci appare insolito che sia una donna ad essere inviata di guerra, ad essere disposta a rischiare la propria vita, in nome di una funzione conoscitiva di solito prettamente maschile: sarebbe più normale pensarla in redazione ad attendere ed accogliere notizie raccolte da altri. Colpisce questa donna alla ricerca della verità su un conflitto e su un popolo che ci porta vertiginosamente indietro, come un’improbabile macchina del tempo, e che ci mostra stratificazioni di vestigia di un tempo fatto solo di guerre e di miseria che imprigiona e anestetizza intrecciandosi intreccia con l’indifferenza colpevole dell’occidente. Alla ricerca della verità su una misoginia inaccettabile, che in una donna può risvegliare millenni di rifiuti paterni… Alla ricerca della verità sui conflitti economici che si celano dietro a tutta questa miseria…

C’è dunque l’ammirazione (che poi però finisce di delegare ad altri) nei confronti di coloro che sono disposti a porsi domande, a mantenere viva la curiosità conoscitiva, a saper attingere, ormai adulti, a quella capacità, propria dell’infanzia, di porsi di fronte alla realtà in modo curioso, creativo, non dando mai nulla per scontato e senza preoccupazioni circa l’eventuale natura sconveniente delle loro domande e circa le eventuali conseguenze.

Il vedere che c’è ancora qualcuno disposto ad essere curiosamente creativo non va forse a risvegliare quel bambino -a volte troppo “normalizzato”- che si trova in ognuno di noi? Questa giornalista non faceva forse per conto nostro domande che da tempo avevamo rinunciato a fare? Perché quell’occhio “infantile”, nella maggior parte di noi adulti rinuncia all’appassionata ricerca? Certo se nel faticoso lavoro della crescita siamo stati spinti ad un adattamento alle regole che poco ha tenuto in considerazione i nostri bisogni di bambini e troppo le esigenze dell’ “ambiente”, molto probabilmente sapremo essere acquiescenti alle richieste di adeguamento sociale, ma purtroppo a scapito di una capacità di stupirsi, emozionarsi e sentire il desiderio di comprendere ciò che stiamo vivendo.

Per non perdere la speranza di poter continuare a porci domande, la morte della giornalista ci obbliga ad interrogarci sui rischi (non solo fisici, ma anche emotivi) che questo comporta. Alcuni, infatti, potrebbero obiettare che sapeva del pericolo, che nessuno l’aveva costretta. Forse è un rischio anche astenersi e sopravvivere scivolando in una sorta di anestesia delle emozioni.

A questo punto vale la pena chiederci quali possono essere le motivazioni che spingono alcune persone a scegliere professioni da “prima linea” in cui si è messo in conto un prezzo alto da pagare. Non penso solo ai giornalisti che con il loro lavoro consentono agli altri, fornendo notizie, di sapere, di formarsi un’opinione, ma anche a quelle professioni che ci riguardano più da vicino in quanto prevedono il prendersi cura dell’altro.

Per cercare di capire, è necessario ripensare al bisogno originario del bambino di essere considerato e preso sul serio per quello che è di volta in volta, e per quello che fa. Se il genitore, quando era bambino, non ha fatto quest’esperienza, non potrà nemmeno offrire al proprio figlio un rapporto in cui interessarsi a lui, comprendendolo e accudendolo per quello che è e non per quello che può rappresentare. Cioè il rischio di incarnare il desiderio del genitore di realizzarsi attraverso il figlio. Le parti saranno invertite e il figlio, dipendendo in tutto e per tutto dal genitore, non potrà fare a meno di rispondere alle richieste, sostituendosi a lui nella posizione di sostegno e di ascolto. Avrà quindi il compito di supportare il genitore, di ascoltarlo, di rispondere ai suoi bisogni. Nel bambino si affineranno così quelle caratteristiche particolari, quella capacità d’ascolto, d’attenzione ai bisogni altrui che lo porterà poi, da adulto, ad adattarsi ancora ai bisogni degli altri scegliendo una delle cosiddette professioni di aiuto.

Il ripensare alle motivazioni delle proprie scelte, non solo professionali, potrebbe essere anche questo un modo per cercare un pezzo di verità, una parte delle nostre determinanti più profonde.

Tutti cerchiamo delle verità: giornalisti, pazienti, medici, ministri… Quando qualcuno si fa carico di questa ricerca, siamo manlevati da una responsabilità faticosa ed importante. E siamo poi anche molto coinvolti quando qualcuno paga con la vita il prezzo di una ricerca ineludibile per l’essere umano: un prezzo che noi ci siamo risparmiati.