commento di Gisella Troglia
fonte Il Secolo XIX
La notizia
Scopre che il figlio non è suo e chiede 500 mila Euro di risarcimento. Nell’ambito di una difficile separazione, nella quale ognuno tenta di ottenere l’affidamento del bambino, il marito scopre e ottiene conferma dall’esame del DNA di aver allevato per sei anni un figlio non suo. Ora chiede alla ex moglie i danni per il trauma subito.
Il Secolo XIX, 20 ottobre 2002
Il commento
Questo fatto è balzato agli onori della cronaca durante la settimana nella quale alcuni altri avvenimenti, drammatici e cruenti, hanno fatto scaturire una lunga serie di riflessioni sulle coppie e sulla separazione. Si sono letti molti punti di vista sulla crisi del matrimonio, sui rapporti uomo/donna, sull’emancipazione femminile e sulla fragilità maschile, sull’inadeguatezza delle leggi, sulle statistiche delle separazioni e dei divorzi, sulle sentenze di affidamento dei figli che vedono quasi sempre vincitrici le madri, sul ruolo dei padri…
In me, che, come psicoterapeuta, aiuto coppie in crisi o che si stanno separando, questo dibattito ha suscitato un grande senso di stanchezza interiore, per l’impressione che, davvero, non si riesca quasi mai ad uscire dalla logica, naturale ma molto primitiva, del conflitto: conflitto prima di tutto in se stessi, con conseguente rifiuto di aspetti personali che non si riescono a rielaborare; conflitto con gli altri, che scatena la competizione, purtroppo troppo spesso il cemento delle coppie, al posto del tentativo di comunicare e di scambiarsi reciprocamente sensazioni affettive…
Anche nei diversi commenti su questi avvenimenti, emerge spesso questa logica sottintesa, quando si fa pendere l’ago della bilancia o a favore delle donne, oggi autonome e insofferenti del compromesso, o a favore degli uomini, aggrediti dall’emancipazione e divenuti fragili, o quando si privilegia l’applicazione della logica legale, o si dà invece esclusiva importanza alle dinamiche psicologiche…
Effettivamente il funzionamento della nostra mente prevede che in noi si attivino tutte le difese possibili per non soffrire, e uno dei meccanismi è l’espulsione degli elementi portatori di sofferenza, aspetto che sul piano relazionale può a volte trasformarsi nel tentativo di attribuire gli aspetti negativi o la colpa a qualcuno intorno a noi.
E’ chiaro quindi che, quando una coppia non funziona, i suoi membri, senza dubbio emotivamente addolorati, disperati, arrabbiati, inneschino questa dinamica, e rifiutino quindi, prima, di scoprire in sé eventuali responsabilità della crisi, e preferiscano, dopo, attribuire ogni colpa all’altro. Ed è ovvio che, se i fatti aiutano a confermare le responsabilità dell’altro, questo atteggiamento si traduca e venga declinato in termini legali, con liti e diatribe nei tribunali, dove si discute su un piano legale ciò che all’inizio esisteva soprattutto sul piano emotivo.
A maggior ragione, penso, ritrovandosi inaspettatamente “non-padre” di un bambino per sei anni accudito ed amato, si presume, come proprio figlio.
Possiamo solo e da molto lontano immaginare lo stupore, la rabbia, il dolore, la confusione emotiva del marito di fronte a questa scoperta, e certo non ci meraviglia che questa coppia sia andata in crisi, data la non chiarezza sulla quale si reggeva con un inganno di tale portata; di conseguenza, non stupisce nemmeno che la contesa per l’affido del figlio fosse già molto avanzata, con la richiesta della moglie presso il Tribunale per i Minori di far decadere la potestà genitoriale del partner accampando motivi di indegnità.
L’episodio riportato dal giornale mi è sembrato significativo come conferma da un lato dei meccanismi con i quali funzioniamo, dall’altro della piega che queste drammatiche questioni emotive possono prendere, quando vengono manifestate e risolte in ambito legale, come se il percorso della sofferenza potesse esaurirsi o attenuarsi una volta espresso in termini legali ed eventualmente economici.
Quasi sempre durante una separazione legale si assiste alla lite della coppia, per un periodo più o meno lungo, proprio sull’affidamento del figlio, in nome di un presunto “interesse” del bambino che, in realtà, è quasi sempre un’idea di copertura di altri motivi, più profondi e complessi, che partono spesso da molto lontano (per esempio, dalle motivazioni che hanno spinto la coppia a mettersi insieme, oppure ognuno dei coniugi a volere questo figlio).
Dato che durante il processo di separazione il ruolo coniugale è evidentemente sottoposto a un grande senso di fallimento, il ruolo genitoriale può uscirne allora trionfante con l’affidamento del bambino, perché ottenerlo vuol dire essere riconosciuto come il genitore buono o comunque migliore, e automaticamente definire l’altro genitore come cattivo o comunque peggiore: l’affidamento assume la funzione di conferma dell’autostima e di definizione del ruolo sociale, funzione che, nel momento della separazione, diventa una difesa dell’inevitabile senso di fallimento, un aiuto a sopportarne la sofferenza.
Contendersi i figli nel momento della separazione diventa un mezzo per affermare la propria validità o il proprio spazio di decisione e di bravura, soprattutto attraverso una definizione di non attendibilità dell’altro come genitore.
Dalle statistiche e dalle analisi compiute dai sociologi, sembra che oggi nella nostra società siano le donne effettivamente quelle più pronte ad affrontare la crisi coniugale, senza temere l’ipotesi di separazione, forse perché investono molto di più, per tradizione e per cultura, sugli aspetti affettivi e sulla famiglia, e paradossalmente sono perciò più pronte a rinunciare quando la coppia non funziona, non sopportano il compromesso, favorite dalla loro emancipazione, più protette nelle vita sociale dall’inserimento nel mondo del lavoro.
Effettivamente, nella mia esperienza ho notato che sono spesso le donne a convincere, o, a volte, quasi a costringere, i loro partners alla consultazione, quando le cose non vanno, al fine di capire il significato della crisi e di prendere una decisione, qualunque essa sia, mentre molti uomini tendono a voler credere che comunque si potrebbe continuare come sempre.
Ho però altrettanto notato quanto la capacità di manipolazione dei sentimenti e delle relazioni sia più attiva nelle madri, sia nei confronti dei figli, sia nel rapporto tra loro e il padre, e quanto questa venga messa al servizio della rivendicazione di una presunta priorità nel rapporto con i figli, per togliere spazi al padre.
E’ probabile che dinamiche di questo tipo siano attivate anche nelle famiglie e nelle coppie non in fase di separazione, solo che la cosiddetta normalità della situazione copre i giochi collusivi della coppia stessa; quando l’accordo viene meno, queste dinamiche invece dirompono, con numerose conseguenze, quale, per esempio, quella della esclusione, legalizzata e vissuta, dei padri dalla vita dei figli.
Ma in realtà, più o meno in buona fede, viene sempre fatto un uso dei figli da entrambe le parti, durante la crisi e durante la separazione: sembra che d’un tratto ciascun membro della coppia sia l’unico in grado di capire e di sapere qual è il bene del suo bambino, come deve vivere, quali scelte bisogna fare per lui; ed ognuno sostiene di parlare in nome del “reale interesse” del bambino.
Viene meno così quel dato che solo apparentemente sembra acquisito dal senso comune, che cioè ogni figlio abbia bisogno di entrambe le figure genitoriali, e che, anche in caso di separazione coniugale, egli debba e possa continuare i rapporti già instaurati con ambedue i genitori e con le loro rispettive famiglie, che cioè ogni genitore separato abbia il dovere e il diritto di svolgere comunque il suo ruolo anche dopo la separazione e il divorzio.
Forse non si riflette mai abbastanza sulla significativa importanza di tutte e due le figure genitoriali nello sviluppo psichico del bambino e nel suo equilibrio mentale.
Basti pensare, per esempio, che poter fruire di un rapporto reale e vivo con entrambi i genitori permetterà al bambino quei processi di identificazione e disidentificazione che stanno alla base del proprio senso di identità e della conquista della maturità affettiva ed emotiva.
Avere rapporti poco significativi con un genitore vuol dire per un bambino invalidare o addirittura amputare una parte di sé, reprimere aspetti della sua interiorità; quando un genitore prova a screditare in qualche modo la figura dell’altro genitore, o addirittura a cancellarla, sta contribuendo a invalidare o a cancellare aspetti del Sé del figlio, che ne rimarrà come mutilato in qualche parte della sua mente. (Per questo è necessario sottolineare l’importanza che proprio il genitore che ottiene l’affidamento favorisca e faciliti al massimo ogni opportunità di rapporto dei figli con l’altro genitore).
Non si può allora fare a meno di chiedersi su chi, nell’avvenimento che stiamo commentando, risulta davvero il più traumatizzato, se il padre, ingannato nella sua paternità biologica, o la moglie, scoperta nel suo tradimento, o il figlio, che potrebbe venire a sapere di “valere” 500.000 euro per la persona che ha sempre creduto suo padre…
Ma, forse, ancora una volta, non è questa la logica con la quale ragionare, perché per tutti i personaggi di questa vicenda la posta dei sentimenti in gioco sembra essere molto alta e il bilancio affettivo molto pesante.
Forse, prima o poi, questi genitori sentiranno l’esigenza di deporre le armi, di uscire dalle aule dei tribunali, per cominciare ad affrontare il faticoso cammino che prevede il riconoscimento e il rispetto dell’esigenze dell’altro, in una prospettiva di mediazione, e non più di conflitto, tra i bisogni di tutti, e particolarmente di questo bambino per il quale nessun risarcimento economico potrà mai sostituirsi ai legami affettivi che si sono instaurati in questi sei anni.