Rapporto sullo stato della terra

commento di Nicoletta Massone
fonte La Repubblica

La notizia

“Un pianeta prossimo al collasso, a cui restano a malapena 50 anni di vita, dopo i quali l’umanità sarà forse costretta ad imbarcarsi verso altri mondi per potere sopravvivere”.
La Repubblica, 8 luglio 2002

Il commento

Questo il modo, davvero poco rassicurante, in cui si apre l’articolo di Repubblica che fa riferimento all’ultimo studio sullo stato del nostro pianeta. Dal 1989, il WWF ha incaricato scienziati ed esperti di ogni parte del mondo per monitorare le modalità di sfruttamento delle risorse naturali e la velocità con la quale si stanno consumando.

Gli ultimi dati sono, a dir poco, allarmanti: negli ultimi tre decenni, vale a dire l’arco di una sola generazione – la nostra generazione – si è dato fondo a più di un terzo delle risorse che il pianeta metteva a disposizione. E’ mancato, in altre parole, qualsiasi tipo di pianificazione, come se l’idea di fondo fosse quella di una inesauribilità o rigenerabilità all’infinito delle risorse stesse. Tra l’altro, questo modo di utilizzo comporta un depauperamento per altri popoli che vedono, in tal modo, aumentare ulteriormente la loro condizione di miseria.

Non sappiamo queste cose solo oggi e certamente non solo oggi proviamo una preoccupazione profonda ed inquietante. Attualmente, però, si aggiunge un dato nuovo in termini di tempo: solo 50 anni e poi dovremo abbandonare il nostro pianeta che non ce la fa più a sostenere le nostre esigenze di vita. Scenari preoccupanti di mondi alieni e spogli che si apprestano ad ospitare naufraghi dello spazio, navicelle che devono selezionare chi portare alla salvezza e chi abbandonare ad una terra avvelenata, fanno capolino nelle fantasie, ma vengono subito scartati come il frutto dell’impensabile e del delirio.

L’inquietudine, però, non è sopita: se il soggiorno su Marte non rientra ancora nel nostro immaginario, altri aspetti delle notizie sull’ambiente ci feriscono, soprattutto quelle che parlano di sofferenze, di ingiustizie subite, di prevaricazioni. Persone, animali, piante, persino oggetti, sembrano avere perso la loro identità e la possibilità di essere rispettati. Le multinazionali si appropriano di enormi appezzamenti di terra dei paesi in via di sviluppo, sottoponendoli ad uno sfruttamento che non tiene conto delle possibilità di rigenerazione delle risorse della terra e che non considera, come dicevamo, l’aumento del disagio delle popolazioni di quelle nazioni. Gli animali vengono allevati in massa, in condizioni igieniche estreme, esposti a continue malattie che rendono la loro breve vita ancora più penosa. Potremmo procedere nell’esame dei dati che, quasi in modo drammatico, ci raggiungono continuamente da tutti gli ambiti del nostro ecosistema.

A volte ci sentiamo quasi sommersi e un po’ impauriti: tutto questo dolore temiamo che, alla fine, possa ritorcercisi contro. E, in effetti, forse questo già stia accadendo: i cibi di cui ci nutriamo, l’aria che respiriamo, il mare che ci circonda, sono “avvelenati” e producono malattie mortali.

E’, parafrasando Camus, un “ambiente rivoltato”, distruttivo, quello nel quale abbiamo l’impressione di vivere; dovremmo “guardarci le spalle” per ogni cosa con cui veniamo in contatto: toccare, mangiare, respirare, anche semplicemente attraversare la strada, potrebbe significare l’esposizione alla morte se, per caso, come è già accaduto, fosse esplosa, in luoghi non troppo lontani, una centrale nucleare. Ciò che sino ad ieri era elemento amico e familiare, qualcosa cui fare riferimento con fiducia irriflessa, ha rivelato un altro volto, negativo e pericoloso.

L’incubo che sempre ci preoccupa, la possibilità che ciò che crediamo bene sia male, sembra effettivamente essersi avverato. La sospettosità che, spesso ci porta a ritenere essere la solitudine e l’autossuficienza assoluta l’unica garanzia credibile di sopravvivenza, trovano conferme e rafforzamenti.

Ma non è tutto: in realtà, siamo consapevoli di essere noi stessi gli artefici della trasformazione che si è operata. Anche in questo caso, pare risuonare una conferma, sul piano interiore, di dubbi e timori mai sopiti circa noi stessi. I dati dei giornali, della televisione, delle ricerche, sembrano dimostrare in modo incontrovertibile che davvero siamo incapaci di conservare ciò che di buono possediamo e che, in modo irresponsabile, finiamo per non riconoscere, rompere, abbandonare, perdere, persino attaccare intenzionalmente gli elementi che sorreggono la nostra esistenza. Ogni gesto, anche il più semplice, anche spruzzare l’insetticida per le zanzare, ci condanna e ci lega ad una verità negativa su noi stessi. Verità insopportabile, quasi specchio deformante, sul cui sfondo compaiono gli occhi di uomini depredati, di terre bombardate, di un buio doloroso che sembra posarsi, come un vaiolo che non si cancella, sui tratti del nostro volto.

Può capitarci di pensare che questo tipo di mondo ci assomiglia, forse anche noi sfruttiamo al massimo le nostre risorse interiori senza prendercene cura, senza pensare che non sono elemento anonimo sempre a disposizione, ma capacità di attivazione e di creatività che dipendono dal complesso intreccio delle nostre emozioni e delle nostre esperienze.

Sapere di avere dei limiti ci inquieta e ci destabilizza come se solo un’assoluta continuità di rendimento, una prestazione lineare e standard, potesse rassicurare il timore non di un momentaneo arresto, ma di un crollo irreversibile.

Come se da sempre fossimo in lotta contro lo spettro della regressione ad una condizione di assoluta impotenza ed incapacità. Come se ogni pausa, ogni arresto, fosse il segno insopportabile di una morte di pietra, senza nome e senza senso, che annienta tutti i nostri significati e tutto il nostro amore.

Forse trattiamo gli altri e il mondo nello stesso modo, elementi intercambiabili, pura materia inerte, di cui non vogliamo e non possiamo conoscere la profondità e la storia.

E forse questo timore blocca la possibilità del pensiero: lo spazio della riflessione è temuto ed esorcizzato perché da quello spazio rientrano le vittime del nostro terrore, l’illimitata fame della nostra fragilità, i fantasmi persecutori, i morti viventi della nostra distruttività.

Allora restano solo i presagi ineluttabili, i soli 50 anni di vita, il dolore di una perdita irreparabile.

Ed è proprio questa perdita, probabilmente, che si proietta come ombra e come non nuova, ma sempre dolorosa, incertezza sopra l’onnipotenza del sapere tecnico. La tensione dell’uomo a disporre del mondo si è concretizzata in un agire che non è stato in grado di custodire i ritmi delle relazioni, esterne ed interne, producendo un dominio prevaricatore. L’uomo che giunge a vedere nella oscurità delle acque, che sa spostare i limiti della notte, indaga l’estremità di ogni ente e la profondità del suo cuore, si trova ora a domandarsi quale è la misura di tale sapienza.

Nel Convito, Platone (205b) afferma che l’opera dell’artigiano, come quella del poeta, fa passare le cose dal non essere all’essere, è la creazione di ciò che da se stesso non si realizzerebbe. Prima ancora che produzione, il pensiero è allora spazio di conoscenza, azione di svelamento, un operare affinché appaia e si attivi tutta la potenza delle cose. In questo senso, produrre è anche custodire il significato più intimo e specifico di ogni cosa, noi stessi compresi.

Sono proprio gli effetti perversi di tale dimenticanza, forse non sviluppata memoria, a far si che oggi ci si trovi necessariamente impegnati nella faticosa rivisitazione di alcuni dei modelli più appariscenti e più rassicuranti della nostra civiltà. Sollecitati dall’inattesa inquietudine sorta di fronte ad un ambiente ostile, ci troviamo a dover accogliere la richiesta di cambiamento che viene dalla nostra sempre troppo dimenticata fragilità e dalla fragilità delle cose che ci circondano, la richiesta di “allargare i paletti della nostra tenda” con tutto il carico di dolore, di incertezza, di fatica e di lacerazioni connesse allo scavo delle nuove fondamenta.