Quando la malattia della speranza arresta il tempo della trasformazione.
commento di Silvia Fancello
fonte Repubblica
“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio:
quello del suicidio.
Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta,
è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”
Albert Camus, Il mito di Sisifo, 1942.
Alcune storie hanno, loro malgrado, la caratteristica di imporsi all’attenzione di chi più o meno
distrattamente ascolta le notizie dei telegiornali o sfoglia le pagine dei quotidiani. La storia e la vita
di Hannah e Roberto, due ragazzi di 14 anni che si sono suicidati questa estate, richiamano con
forza lo sguardo del mondo adulto su quello che accade, oggi, nel mondo dei giovani adolescenti.
In un’epoca in cui tutto viaggia veloce, dove l’accesso alle informazioni è diventato immediato, il
rischio è che la risonanza di un accadimento di questo genere non duri a lungo e che si perda la
possibilità di mettere a fuoco un problema delicato che riguarda il benessere di tutti i “nuovi arrivati
tra gli uomini” che sono gli adolescenti.
Sarà che il tema è delicato, sarà che quando si tratta di certi gesti il timore di possibili emulazioni è grande, ma credo che mettere rapidamente a tacere tutto quanto corrisponda a nascondere sotto il tappeto quello che non riusciamo ad accettare, nella speranza che, una volta alzato quel lembo di stoffa, sotto, non ci sia più niente a ricordarci quello che è accaduto.
Di fronte ad eventi profondamente dolorosi ma anche sconcertanti, come lo è il suicidio, un atto autorepressivo dettato dall’incapacità di arginare il crescente senso di sfiducia, disistima e la sensazione che non ci sia nulla da fare, la tentazione è quella di trovare una spiegazione, quando non di puntare il dito contro presunti o virtuali colpevoli.
Meglio sarebbe provare, invece, a comprendere, mettendo per un attimo da parte l’istinto epidemiologico, la vena accusatoria sempre pronta a chiamare in causa genitori troppo spesso distratti e lassisti o al contrario troppo invadenti e severi… Meglio sarebbe provare a riflettere e a condividere dei pensieri per non doversi trovare, soli, di fronte a qualcosa che lascia sgomenti o che viene percepito come insuperabile, proprio come potrebbe essere successo ad Hannah e Roberto.
Certo, la rabbia suscitata da gesti irreversibili come una morte autoindotta è tanta, perchè oltre a quella del ragazzo o della ragazza che non ha saputo trovare una via di espressione e di comuinicazione diversa c’è quella di chi si è sentito e si sente impotente perchè non ha potuto e non potrà più fare niente…ma questa rabbia non può essere risolta rivolgendola unicamente contro i social network… entità astratte, interlocutori inconsistenti per poter avviare un dialogo che risulti costruttivo e capace di individuare un senso in quello che accade.
Nel leggere in cosa consisteva “Ask.fm” mi sono chiesta se quello che spinge i giovani ad iscriversi in un social network in cui è possibile fare domande in forma anonima, esponendosi allo sguardo ed al giudizio altrui senza alcuna protezione, non sia il profondo bisogno di trovare un interlocutore, presunto capace di offrire risposte, quelle stesse risposte/consigli che si continuano a cercare anche da adulti quando di fronte ad un problema si dubita di avere le risorse per affrontarlo.
Può darsi che nel momento in cui l’adolescente si rivolge ai coetanei, anche se sconosciuti, stia cercando un possibile rispecchiamento, qualcuno cioè che sia capace di cogliere, perchè forse si trova in fondo “sulla stessa barca” quello che l’altro prova e che disorienta, qualcuno capace di rispecchiarlo e con cui poter condvidere i vissuti carichi di tensione che non si sa come arginare.
Purtroppo, però, capita che pur condividendo quel senso di smarrimento che spinge la futura vittima alla ricerca di un interlocutore comprensivo, il più o meno improvvisato carnefice decida di prenderne le distanze e di trasformare la propria angoscia in violenza, sadismo, persecuzione.
L’adolescente si trova in un momento della sua vita in cui è forte il bisogno di dimostrare di essere in grado di risolvere da solo le sfide della crescita e i problemi che incontra senza ricorrere all’aiuto degli adulti; spesso, però, non ha ancora strumenti sufficientemente adeguati per confrontarsi con situazioni particolarmente complesse come si rivelano essere alcune forme di bullismo più o meno virtuali.
La pubertà prima e l’adolescenza poi segnano l’inizio del processo autoriflessivo che conduce alla scoperta del Sé; gran parte delle risorse a disposizione dell’idividuo sono impiegate nel lavoro di costruzione della propria identità di adulto e nel tentativo di capire quale sarà il proprio posto nel mondo. La rinnovata spinta pulsionale si accompagna ad una fisiologica ma complessa trasformazione dell’immagine di sé. Tale processo non è privo di angosce dal momento che richiede di tenere conto di nuovi modi di sentirsi nella propria corporeità, unitamente a nuove percezioni, rappresentazioni ed investimenti affettivi.
La fragilità del mondo psichico, di un Io ancora instabile, percepito come non soddisfacente perchè non conforme all’Ideale dell’Io che è andato definendosi lungo le varie tappe dello sviluppo evolutivo contribuiscono a fare sì che aumenti l’influenza della realtà esterna e conseguentemente il rischio di reazioni ed atti impulsivi in risposta a giudizi o critiche vissute come schiaccianti.
Il sentimento della vergogna, ci ricordano Piers e Singer, porta con sé la paura del disprezzo che nel profondo si traduce in una paura per l’abbandono, quell’abbandono primario che è percepito come un vero e proprio pericolo per la propria esistenza.
Nel momento in cui l’altro rifiuta l’immagine con cui l’adolescente si presenta al mondo quella che si sente minacciata è l’identità intera, un’identità talvolta troppo fragile per poter reggere il peso degli attacchi che minano sempre più il senso di sé e del valore personale.
Per evitare che i giovani adolescenti conoscano la “malattia della speranza” occorre mettere loro a disposizione dei contenitori, possibilmente vivi, all’interno dei quali le domande possano circolare, gli stati d’animo e i pensieri essere condivisi in modo diverso dallo scagliarsi addosso reciproci attacchi, insicurezze, violenze il più delle volte rese ancora più cruente dal fatto di non vedere quello che la vittima sta provando, di non “metterci la faccia” come accade nel rapporto a tu per tu di una relazione reale.
Alcuni adolescenti vivono come naufraghi bloccati su isole deserte, lontani dal resto del mondo con il quale comunicano affidando i loro messaggi, dubbi… forse speranze non ad antiquate bottiglie di vetro ma a sofisticati apparecchi capaci di coprire distanze immense in poco tempo ma, non sempre, di mettere in contatto, qualcosa che va al di là di un semplice click, due mondi sconosciuti.
Oggi si parla di cyberbullismo, definizione che porta con sé la sensazione di qualcosa che è al di là dello spazio e del tempo, qualcosa che non sembra appartenere ad una dimensione che renda questo fenomeno circoscrivibile: tutti possono sapere, tutti possono essere raggiunti, tutti sono potenziali vittime. Sembra quasi che una volta che ci si è resi visibili non sia più possibile nascondersi, proteggersi…. certamente non esistono barriere esterne efficaci quando mancano filtri interni capaci di salvaguardare un Io ancora troppo vulnerabile per viaggiare nel mondo, virtuale o reale che sia.
Ogni adolescente soffre perchè grande è la paura che deriva dal non sapere ancora chi è ma soprattutto dal timore di perdere ciò che potrà essere.
Al centro delle profonde trasformazioni che coinvolgono gli adolescenti è il corpo, un corpo che sta cambiando in modo “autonomo” senza che il soggetto possa fare niente per rallentare o accelerare questa metamorfosi. Un rischio possibile è che proprio il corpo venga considerato un ostacolo nel rapporto con gli altri e, per questo motivo, maltrattato, attaccato, odiato quando non messo in pericolo.
In un’età in cui la morte non ha ancora acquisito del tutto la sua portata di evento irreversibile ma è per lo più percepita come una non esistenza equivalente ad una assenza, il suicidio può essere identificato come soluzione possibile e concreta allo stato di disagio in cui il soggetto si trova.
Quando un’emozione o uno stato d’animo sono percepiti come intollerabili, quando una situazione sembra essersi cristallizzata in modo irreversibile la mente può perdere la capacità di attivarsi e trovare vie di uscita costruttive. Nel momento in cui prevale la sensazione di sentirsi indesiderati e soli, bloccati in una dimensione in cui si è persa la prospettiva di un futuro accettabile, l’idea o il proposito di suicidarsi diventano un processo graduale che si fa strada come unica possibilità per porre fine alla personale condizione di dolore.
Negli ultimi tempi è capitato spesso di sentire parlare di suicidio, o meglio, di persone, anche adulte, che hanno deciso di suicidarsi perchè di fronte alla questione “se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta” si sono probabilmete detti che così, in queste condizioni, non ne valeva la pena.
Anche gli adulti, a volte solo anagraficamente distanti dall’età dei turbamenti adolescenziali, si trovano in alcuni momenti della propria vita ancora, e di nuovo, alla ricerca più o meno ansiosa di una stabilità, di una speranza o di una fiducia che possano consentire di guardare al futuro senza intravedere solo presagi di sventura.
Spesso agli adulti si chiede di essere in grado di stare accanto ai giovani mentre attraversano il loro mare in tempesta, di avere la calma necessaria per impugnare saldamente il timone quando necessario e di cedere i comandi al momento giusto… troppo spesso ci si dimentica che, di fronte ad un adolescente in crisi, soprattutto se si tratta di un figlio, diventa difficile non sentirsi naufraghi a propria volta, dispersi su un’isola, forse vicina, forse lontana, talvolta proprio la stessa in cui i nuovi giovani si sono persi e da cui mandano messaggi di SOS al resto del mondo.