Loriana D’Ari, Ironia e Amore per la Verità

Buonasera a tutti,
ci sono persone che mettono a dura prova le nostre capacità di integrazione. Giorgio Blandino era una di queste: solo chi tra voi ha avuto occasione di frequentarlo, sa fino a che punto potesse essere affilato il suo artiglio ironico, e non avete idea di quante volte io abbia pensato che era proprio un gran mascalzone.
Eppure non mi era possibile ignorare un semplice dato di fatto, anche se mi complicava di molto le cose: i suoi occhi erano inequivocabilmente buoni. Solo che era fatto così, lui graffiava quelli che amava, e per quanto mi sforzi non posso concepire un altro modo di onorare la sua memoria, che quello di dire la verità: e cioè che dietro questa corazza urticante, come spesso accade, si nascondeva un uomo tenero e appassionato, delicato e vulnerabile. Un uomo buono.
Perciò ringrazio lui e quelli come lui, capaci di metterci spalle al muro di fronte alla scomoda verità delle nostre ambivalenze, per cui non possiamo che chiudere gli occhi, o accettare di vedere. Per poi scoprire che vedere è già un atto d’amore.
Ringrazio anche i miei supervisori, per avermi dato una seconda opportunità di salutarlo. E dedico questo intervento a mia madre.
Premetto che nel mio discorso farò riferimento a due diverse accezioni di ironia: l’ironia come dissimulazione, e l’ironia come finzione.
La prima è quella fattispecie di ironia in cui dissimuliamo il nostro vero pensiero, esprimendo il contrario di ciò che intendiamo dire, ma con un tono che lascia trapelare i nostri sentimenti a riguardo; mentre la seconda è l’ironia socratica, originariamente tesa a svelare l’ignoranza che si cela dietro la presunzione di sapere.
Se ci pensate, ognuno di noi in teoria dovrebbe conoscersi meglio di chiunque altro, dal momento che trascorre molto tempo in compagnia di se stesso. Invece non è così, e sappiamo che le persone si ammalano di ignoranza di sé, ed è per questo che stanno male: perché non sanno chi sono. Quello che facciamo, come terapeuti, è proprio allestire una situazione, che è il setting, idonea per le sue caratteristiche a mettere il paziente nella condizione di mostrarci chi è, ovvero come funziona la sua mente.
Per prima cosa mi sono chiesta cosa mi spinga a scegliere il registro ironico in seduta, e mi sono resa conto che è una condizione emotiva particolare, frammista di dolore e di rabbia, perché il paziente sta vistosamente alterando la verità.
Amore per la verità sa di un ideale romantico, ma in realtà è qualcosa di viscerale. Immaginate che la verità dichiarata contrasti fortemente con tutto ciò che i vostri sensi vi segnalano, con la vostra capacità di vedere ciò che può essere visto, di udire ciò che può essere udito. Proverete allora una sensazione di gelo, di estraneità e alienazione indotte. Sentirete la pressione ad aderire, ad accecarvi collusivamente, e l’aggressività subdola e feroce di questo movimento perverso. Capite che proprio non si può far finta di niente, che tacere è collusivo e del tutto antiterapeutico.
Dovete in qualche modo dissociarvi, mettere un argine alla menzogna, ma se vi contrapponete al paziente affermando direttamente il contrario di ciò che dice, rischiate un agito da identificazione proiettiva, perché in quel momento siete controllati dal paziente come burattini, per cui lui può continuare indisturbato a non prendere contatto con la verità, delegandovela totalmente per poi attaccarla dentro di voi.
Che fare? Dipende da chi avete di fronte e dalla vostra relazione con lui. In ogni caso avete poco tempo, ma capirete molto presto con quali pazienti è possibile e proficuo fare dell’ironia, e con quali invece è del tutto controproducente: in linea generale, dei primi fanno parte nevrotici e border sul versante nevrotico, con cui avrete costruito un clima di rispetto e fiducia reciproca sufficientemente collaudato, meglio se dotati di visione tridimensionale e capacità di insight. Ma anche con loro dovrete fare molta attenzione a non graffiare direttamente sulla ferita.
Se, come abbiamo visto, l’ironia come dissimulazione si fonda su un contrasto tra apparenza e realtà, allora per farne buon uso il paziente deve essere pronto a ricevere il contrario di ciò che appare. Ciò presuppone, in linea di principio, la capacità di tollerare una situazione di conflitto, perché i due significati contrastanti, quello di superficie (manifesto) e quello profondo (latente), restano entrambi vivi e presenti alla mente, finché non è il paziente stesso a risolvere il contrasto con il riso, momento in cui la tensione si scioglie.
Capite che un intervento ironico, in questi termini, dà al paziente la possibilità di arrivare a concepire la verità, anche senza formularla. Per questo l’ironia è così preziosa, perché ci consente di incanalare l’aggressività in una formazione di compromesso, indiretta e benignamente ambigua, in grado di produrre insight, anziché resistenza al riconoscimento della verità. Quindi, se il paziente comprende l’ironia, questo presume una sua assunzione di responsabilità nell’aver concepito che le cose potrebbero non essere come sembrano in apparenza.
Questo perché l’ironia come dissimulazione non esiste che in assenza, in quanto il significato intenzionale resta inespresso. Voi non lo dite, ma il paziente non può non pensarlo, a meno di non capire la battuta, che è l’unica scappatoia che gli resta.
La ragione per cui questo tipo di ironia mette in moto il pensiero è che il significato letterale della comunicazione risulta incompatibile con il contesto, per cui diamo vita, anche mediante indici quali il tono e l’inflessione vocale, a una situazione di turbolenza legata al bisogno, tutto umano, di conciliare elementi contrastanti, di risolvere dialetticamente il conflitto tra i due significati, di cui uno implicito e inespresso, ma circolante in quanto portato dal contesto.
Non sono io a dire quella che penso sia la verità, ma induco il paziente a prendere posizione attiva, respingendola oppure confermandola con il riso, e comunque pensandola, a meno di non capire e rinunciare alla visione ironica. In questo modo non mi faccio contenitore di un pensiero denegato e proiettato, ma lo rimetto in circolazione. Perché se lo affermo, non faccio che contrappormi al paziente nel ruolo di controparte del conflitto intrapsichico.
Quando invece le capacità di elaborazione del paziente sono così compromesse da non poter nemmeno percepire lo iato tra apparenza e realtà, anche se glielo indichiamo con segnali difficilmente equivocabili, probabilmente non c’è margine immediato per aprire una fessura nella roccia del pensiero letterale e concreto. Ma è anche possibile che la comunicazione, apparentemente intempestiva, lo abbia comunque raggiunto con il suo portato di ambiguità, che insinuerà nella sua mente il dubbio.
Oppure potete, in modo più soft, riformulare ironicamente il pensiero del paziente in forma interrogativa, condito con una sfumatura di incredulità. Ma tenete presente che più sarete vaghi, più il vostro intervento risulterà sgretolante e decostruttivo, perché veicolerà una mera messa in crisi della verità di facciata, senza ulteriore presa di posizione da parte vostra.
Una comunicazione che potrebbe suonare più o meno così: “le cose non stanno come dici”. Capite che in questo modo spalancate uno spazio insaturo notevole, perché a quel punto si sa solo come “non è”. Tipicamente, il paziente tira dritto leggermente angosciato, almeno per un po’, oppure si irrita, si agita e annaspa perché sente che non condividete la sua stessa visione. Allora vi chiederà di esporvi maggiormente, e voi zitti.
Perché non sarà quel che direte ad aiutarlo a stare dentro questa situazione in negativo, ma la vostra calma e pacatezza, se solo sarete disponibili a sintonizzarvi anche sulle sue ragioni per proteggersi dall’intuizione abbagliante della verità. Una verità che, dal suo punto di vista, finirebbe per renderlo folle o colpevole.
In alternativa potete tentare un intervento interpretativo, facendo molta attenzione a che non risulti contaminato da aggressività, e consapevoli che correte il rischio di ritrovarvelo letteralmente snaturato dalle difese e che, comunque vada, finirà per appesantire il discorso. Mentre l’ironia è lieve, e decisamente più divertente.
Che dire dell’ironia del paziente? Anche qui, dipende. Conosco pazienti apparentemente autoironici, ma del tutto vulnerabili di fronte all’approccio ironico dell’altro, per quanto bonario, che vivono come un attacco. E’ un uso dell’autoironia da difesa preventiva, della serie: ‘tu stai brava, che a colpirmi ci penso da solo’. Ma ho anche qualche paziente profondamente autoironico, e vi assicuro che è una delizia anche quando, ironicamente, mi segnala i miei sbagli.
In ogni caso c’è qualcosa di peggio dell’incapacità di visione ironica, ed è l’abuso dell’ironia al fine di negare ogni stabile verità, di non assumersi la responsabilità dei propri pensieri e sentimenti: è come stare in un limbo ove ogni cosa viene ironicamente affermata, solo per essere negata un attimo dopo, in un uso perverso che porta dritti al nichilismo, oltre a risultare terribilmente sterile e noioso. Mi riferisco a quel genere di ironia, così diffuso, per cui tiriamo il sasso e nascondiamo la mano, cioè diciamo la verità in forma canzonatoria, come una battuta, così quando l’altro si offende possiamo sempre dire che stavamo solo scherzando.
Dobbiamo accettare il dato di fatto che l’ironia ha il suo versante caustico, la sua componente distruttiva; che è uno strumento potente, che può fare bene o male a seconda di come lo usiamo. Quello che decide, che cambia tutto, è la nostra visione, il disegno entro il quale la nostra parola prende vita. Se siamo ironici per restituire un colpo, o scaricare una tensione fine a se stessa, pur essendo autentici non andremo molto lontano.
Ma a meno che non sorga dal bisogno di screditare l’altro, o l’altro in noi stessi, e che non sia frutto di una negazione radicale, finalizzata allo scacco delle capacità di pensiero, il lavoro ironico è mosso dal bisogno di verità in una relazione. Difficilmente, infatti, faremo dell’ironia in totale solitudine. La facciamo per comunicare, la giochiamo in un rapporto, tenendo conto anche dell’altro, delle sue capacità di ricezione, e delle sue difese.
Finora ho messo in relazione l’uso dell’ironia con il bisogno di verità, ma questo non è tutto. Come vi dicevo, Eironēia significa finzione. E che cos’è la situazione analitica, se non un dispositivo terapeutico mirato alla conoscenza mediante la finzione transferale?
Del resto, nella dinamica transfert/controtransfert tutto accade come se fosse realtà, ma sappiamo che è rappresentazione e non dobbiamo prenderlo alla lettera. Sappiamo che dobbiamo procedere dall’apparenza alla realtà, e in questo consiste il nostro lavoro: inizialmente, dal punto di vista del paziente, siamo entrambi personaggi del suo mondo emotivo, ma col tempo diventiamo persone.
Lui continuerà per anni ad affermare l’assoluta realtà dei suoi stati d’animo, e noi sappiamo che in un certo senso ha ragione, perché ciò che accade è tutto vero, solo che in analisi lo usiamo come un gioco. Noi, rispetto ai nostri pazienti, dobbiamo mantenere dall’inizio alla fine la doppia visione ironica, di superficie e di profondità, di opacità e di trasparenza. Ovvero la sua visione e la nostra, a un tempo.
Giocate insieme il gioco del paziente abbastanza a lungo, mostrategli di che gioco si tratta, e a un certo punto potrete vedere lui stesso scherzarci sopra, potrete vedere come comincia a ironizzare sul transfert, anche quando fa male. La visione ironica rende il transfert meno spaventoso, perché ne mette la realtà tra parentesi, a patto che anche voi sappiate vedere ironicamente il vostro lavoro.
Come terapeuti, siamo naturalmente portati all’ironia. Abbiamo lavorato tanto su noi stessi, e continuiamo a farlo, per diventare capaci di tollerare il funzionamento di pensiero primario, fatto di ambiguità e di paradossi. Sappiamo che di tutto si può fare metafora e che tutto, ma proprio tutto ciò che accade, include una qualità di come se, accanto a una qualità reale. Questo ci rende capaci di sopravvivere.
Vi dicevo che viene un momento in cui il paziente comincia a ironizzare sul transfert, ad apprezzarne la duplicità di livello: ovvero la sua realtà emozionale e la drammatizzazione di questa, operata come finzione attiva.
Succede che, a un certo punto, neanche lui ci crede più, e allora si affaccia in seduta uno stato d’animo diverso, spesso violentemente in contrasto con l’emozione inscenata nella ripetizione, che tipicamente è dolorosa. Circola nell’aria come un sentimento di sollievo, di trionfo nel riconoscere la trama. E ancora oltre, se ascoltate con attenzione, uno stupore eccitato e gioioso: è il sentimento della scoperta.
E’ come se il bambino nel paziente d’un tratto smettesse di giocare al massacro, ed esclamasse: guarda, è questo! E’ questo che volevo che i tuoi occhi vedessero!
L’ironia è data proprio dal contrasto tra una situazione apparentemente spiacevole, e lo stato d’animo che segretamente la sottende, che sarà sempre più, da qui in avanti, il sottofondo gioioso di ogni ripetizione. Dove ormai è chiaro che il dolore non è più fine a se stesso, ma aggiunge gradienti di libertà.
E ora vi saluto, cari colleghi, con una considerazione ironica sul valore della nostra costosissima formazione, con le nostre analisi che durano anni, e anni e anni.
Non lamentiamoci: dove lo troviamo un altro lavoro che ci permette di danzare con la follia senza pestarle i piedi, e di piangere e ridere insieme, senza pensare di essere un po’ matti?
: P
Grazie.