ANTONINA NOBILE FIDANZA, Il male minore: la supervisione

Quindi abbiamo l’obiettivo di diventare specialisti della relazione! La relazione con le persone (gli oggetti esterni) e la relazione tra gli oggetti interni (immagini, fantasie, sogni, costruzioni approssimative, pezzi e frammenti: che sono risultato del nostro unico e personale modo di aver sperimentato il mondo e gli altri intorno a noi). Sappiamo che esiste un mondo interno ma l’abbiamo esplorato a sufficienza? Siamo attrezzati per l’esplorazione? E poi oggetti interni a chi? Al paziente ovviamente, ma intanto io che dialogo posso intrattenere con i miei oggetti interni che sicuramente, a mia insaputa, dialogano tra loro e con gli oggetti interni del paziente?
Forse con le scoperte e i movimenti della propria analisi freschi freschi, abbiamo già iniziato a lavorare e siamo presi da entusiasmo per i nuovi compiti, oppure abbiamo iniziato un tirocinio in cui ci sono stati affidati dei pazienti gravi e siamo spaventati e disorientati. Però ci sentiamo pronti: abbiamo un bagaglio notevole di conoscenze e pensiamo di trovare facilmente le parole giuste per confortare, sostenere, al limite favorire un cambiamento nell’atteggiamento del paziente.
Poi accade che, nonostante la nostra disposizione accogliente e capace di partecipare emotivamente a ciò che il paziente ci porta, arrivino emozioni impreviste, a volte sconosciute, spesso troppo forti. All’improvviso tante certezze traballano che fare? Studio di più, non sono capace, cerco un altro metodo, all’estremo … cambio mestiere. Crolla l’idea di performance cioè mi sono preparato bene, quindi mi aspetto di riuscire a fare bene le cose.
Traballa l’autostima, le nozioni di giusto e sbagliato cominciano a non aver più senso, il perfezionismo non è più praticabile. Tutto questo dramma che ho delineato in pochi tratti, spesso è molto più complesso e pesante, richiede aiuto, richiede qualcuno che abbia già percorso questo impervio sentiero e ne sia venuto fuori: il supervisore!
Super… cosa: super io? Che giudica gli errori. Super eroe? Che risolve dubbi e problemi? Ma no: un collega con un po’ più di esperienza che ci accompagni in questo percorso da lui/lei già vissuto.
La nostra scuola ritiene che la supervisione sia il modo elettivo per imparare ad attivare uno sguardo diverso e nuovo sulla relazione in cui l’apprendista terapeuta si impegna con attese e timori.
In effetti lo specializzando può contare sulle sue emozioni che guidano la sua intuizione ma non sa e non può all’inizio che usare la sua mente, il suo cuore e la sua ragione per trovare le parole che immagina giuste, e quando comincia a scoprire che a volte non accade quello che si aspetta, si trova in una condizione estremamente spiacevole. In contraddizione con la passione che ha messo nella scelta del percorso e negli studi.
Ci viene in soccorso Albert Einstein una mente eccelsa che diceva:
LA MENTE INTUITIVA E’ UN DONO SACRO
E LA MENTE RAZIONALE E’ UN FEDELE SERVO.
NOI ABBIAMO CREATO UNA SOCIETA’ CHE ONORA IL SERVO
E HA DIMENTICATO IL DONO.
Aiutare ad apprezzare e coltivare l’intuizione, non lasciare che sia offuscata o travolta dalle emozioni (che a loro volta vanno accolte, contenute ed trasformate) e imparare a convertirla in parole che facciano sentire il paziente accolto e capito e di esser finalmente nella verità, è il lavoro della supervisione. Un lavoro a quattro mani in cui la relazione col supervisore aiuta a lasciare il bordo delle certezze e cominciare a fidarsi che si può galleggiare nella relazione, nuotando con le proprie forze, anche se sotto di noi ci sono abissi e intorno correnti che possono trascinare o essere attraversate.
Ma non si impara a nuotare da un manuale! Si può solo apprendere dall’esperienza e per fare questa esperienza è importante essere guidati da chi l’ha già fatta e può mostrare gli scogli o le secche in cui si è già imbattuto ed essere invitati a provare fino ad acquisire fiducia nei propri mezzi e umiltà utile a sapere che, a priori, puoi solo tracciare la rotta, ma navigare è tutt’altra cosa. Chi ha scelto questa professione può avere molte motivazioni alcune chiare altre da scoprire nel tempo, ma soprattutto sappiamo che mettere a frutto la propria creatività aiuterà il paziente a sviluppare la propria, ma anche il supervisore amplierà le sue conoscenze nel vedere aprirsi col suo sostegno nuovi mondi e nuove capacità che rendono la collaborazione con il giovane terapeuta emozionante, costruttiva e nutriente anche per lui/lei.
Perché ho intitolato queste poche parole ‘Il male minore’? Perché per essere di aiuto nel percorso terapeutico dobbiamo passare dal ‘saper fare’ al ‘saper essere’ e poter tornare al ‘saper fare’ cambiati dal nuovo modo di essere. E non si può contare per giungere a questo solo su se stessi, sul proprio profondo desiderio di prendersi cura o guarire. Molto spesso verrebbe voglia di evitarla la supervisione, perchè mostrare con la maggiore sincerità possibile quello che si è fatto nel chiuso del proprio studio nella propria relazione terapeutica, sapendo che l’occhio attento del supervisore vedrà cose che non abbiamo visto, brucia un po’. Sorprendersi spesso a dirsi ‘ma come ho fatto a non vederlo, a non capirlo, a non sentirlo’ è pesante.
Tuttavia i rischi di confrontarsi con la patologia sono quelli di esserne contagiati e travolti (burn out), perdere il confine tra sé e l’altro, sentirsi rifiutati (perdita di pazienti, sensi di colpa e avvilimento), danneggiare credendo di far bene e non apprendere la molteplicità e la complessità dei movimenti emotivi in gioco (contribuendo al pensiero che la psicologia non serva a niente e gli psicologi dicono cose ovvie).
La supervisione aiuta a non colpevolizzarsi di non essere capaci, laddove in realtà non si è semplicemente ancora imparato, ma a comprendere quello che è accaduto nel gioco relazionale.
Può anche aiutarci a vedere che dove noi ci sentiamo tranquilli e pensiamo di aver lavorato bene possono esserci rischi e pericoli che non ci sono apparsi.
La supervisione ci può anche confortare quando siamo avviliti per reazioni aggressive o regressive del paziente, perchè ce le può mostrare come progressi evolutivi o addirittura miglioramenti… che stupore.
La supervisione sia individuale che in gruppo fa parte del corso di specializzazione, ed è un’opportunità che ci abitua a condividere la responsabilità del paziente.
E a questo proposito teniamo presente che gli psicoterapeuti sono i detentori di un’altra responsabilità ci dice Meltzer quella di incarnare, il conflitto tra l’inconscio infinito e i piedi per terra nella dura ma bella realtà, conflitto da imparare a gestire ma che non possiamo illuderci di sciogliere una volta per tutte.
Ma in studio con o senza supervisione siamo soli col paziente. Due persone spaventate in una stanza… all’inizio. Poi ci si conosce, ci si abitua l’uno all’altro e scatta il rischio di non sorprendersi più.
Il cercare di comprendere, stare nel non capire e essere certi del non sapere e lasciarsi attraversare momento per momento dal dialogo incessante dei nostri mondi interni anche quando tacciono le parole, è la nostra fatica di terapeuti.
La supervisione ci accompagna soprattutto nei momenti di sconforto, di insuccesso, di dolore per poter imparare come farvi fronte e riacquisire la fiducia e la speranza che ci permetta di vedere i segni di cambiamento.
Ci accompagna nello stupore che ci prende quando vediamo maturare la persona che ci si è affidata, mentre maturiamo noi con lei, sapendo che il nostro percorso di crescita se ben avviato non finirà mai.
Il supervisore, come amichevole compagno di viaggio, dovrebbe sostenerci ad affrontare le fatiche di uno sguardo ‘terzo’ quando ancora non siamo allenati a stare dentro la relazione col paziente e, contemporaneamente a stare dentro di noi e prendere distanze sufficienti a mettere a fuoco ciò che emotivamente accade e trovare parole e silenzi che traducano i movimenti e gli arresti nella relazione.
Il supervisore ci accompagna a volte per una gita in collina, a volte una scalata impervia, a volte una via crucis e in ogni caso la supervisione ci impegna a vigilare perché altrimenti se ci lasciamo un po’ andare, trascuriamo un piccolo avvertimento, sorvoliamo su una difficoltà rischiamo di scivolare piano piano nell’esperienza del noto esperimento sociologico delle ‘finestre rotte’ che ci mostra, come l’incuria e l’abbandono, ovvero il non prendersi cura di sorvegliare e di riparare, incrementi la distruttività e l’indifferenza rispetto a se stessi, agli oggetti e alla relazione.
Di fronte ad un compito così complesso, per evitare il ritiro dalle fatiche emotive della creatività, e precipitare nel regno della posizione schizoparanoide, abbiamo il compito, ci dice sempre Meltzer, di ricercare la bellezza, che non riguarda solo l’arte , ma anche l’amore per la vita, intesa in senso bioniano come amore per la verità, amore per la ricerca, per il nostro lavoro e soprattutto per la scoperta del funzionamento della mente.
Quindi la supervisione sperimentata durante il corso, può essere vista sì come componente del processo di apprendimento e maturazione, ma dovrebbe anche preludere alla abitudine di confrontarsi, dato che il nostro è un lavoro che si esercita in solitudine. Quindi proprio perché una solitudine fruttuosa non divenga isolamento doloroso, il confronto con colleghi e ogni tanto la consapevole richiesta d’aiuto ad un supervisore, dovrebbe far parte del bagaglio con cui si intraprenderà la bella avventura di questa professione.