Partirei dalla fine considerando il significato della parola “guarire” .
E’ un termine magnifico e terribile. Nella definizione è implicito il fine, la meta.
E’ il raggiungimento del benessere del paziente.
Per un medico è il risultato ottenuto dalla messa in campo della sua competenza e professionalità.
E’ l’esito di una diagnosi corretta.
In campo psicoterapico la situazione è più complessa, in quanto concetti come diagnosi, normalità, cura rischiano di fatto di relegare la persona che chiede aiuto in una dimensione categoriale scotomizzando la sua unicità.
Certo la diagnosi, ci dice Lingiardi, è il primo strumento per cercare di conoscere il paziente e se consente di capire cosa una persona è più che qualcosa che la persona ha, sarà sempre il colloquio clinico a fornire la chiave della conoscenza. E’ solo nell’incontro con la soggettività dell’altro che possiamo ricondurre la problematica alla sua personalità e il sintomo al suo funzionamento psichico.
La diagnosi ci dice dove siamo, in che ambito ci muoviamo è una mappa di riferimento ma non dà nessuna indicazione di sul percorso da seguire, non sappiamo cosa dovrà diventare il paziente per stare meglio, la guarigione è un’astrazione ed è qui che entra in gioco il “prendersi cura”
La cura, ci dice Luigina Mortari, filosofa, è ontologicamente essenziale; protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere.
Non esisteremmo se qualcuno non si fosse preso cura di noi. È la cura che fa fiorire l’essere.
Fare pratica di cura è dunque mettersi in contatto con il cuore della vita.
La cura è la dedizione a cercare la migliore qualità di vita possibile, quella che consente di attualizzare le differenti possibilità proprie dell’essere.
Quando si è in salute si percepisce il proprio essere come un centro vivo.
Una vita piena è una vita sentita in ogni istante, in ogni atto, anche quello apparentemente più insignificante.
Ma quando si soffre si sperimenta l’impossibilità di alternative; si fa esperienza di una radicale passività, ci si sente schiacciati ed inermi.
Ecco che l’aspirazione e’ quella di essere alleggeriti dalla vita, si vorrebbe una forma di sovranità sul proprio esserci non per sentire l’energia vitale, bensì per indebolire, anestetizzare la sensibilità fino al punto da non sentire più, per non sentire il dolore, per rallentare la presa della sofferenza che erode la forza vitale.
Quando la cura come terapia si fa carico della persona nella sua interezza allora non è solo riparazione di qualcosa che si è inceppato ma è cura intera dell’essere.
Ecco che il sintomo in questa visione diventa periferico, marginale in quanto non possiamo limitarci a far sì che cessi ma dobbiamo consentire le condizioni per cui riprenda o si consenta, forse per la prima volta, la possibilità di sviluppo di una pienezza vitale.
Tutto ciò che mettiamo in campo nel nostro essere in relazione col paziente è consentire che ciò che ha interrotto uno sviluppo pieno dell’essere possa essere superato, elaborato, sognato.
Giuseppe Pellizzari sottolinea come nell’avere cura dell’altro entra in gioco prepotentemente ed inevitabilmente la nostra personalità, il nostro modo di essere che traspare dagli oggetti che scegliamo, dal nostro tono di voce, dalla nostra sensibilità.
Per questo motivo, non solo la nostra personalità non va temuta ed elusa, ma va coltivata. Occorre imparare a fidarsene . Occorre amarla.
La sensibilità soggettiva è un po’ come il corpo, il corpo emotivo dello psicoterapeuta, che bisogna imparare a sentire e a conoscere.
Il modello teorico è il risultato di un’esperienza. A meno che non lo si assuma come un dogma che, come tale, impedisce l’esperienza appunto, per fare esperienza è necessario conferire ai modelli una qualità puramente ipotetica e orientativa, e assumere come guida la propria sensibilità un po’ come quando un esploratore porta con sé le sue preziose mappe, ma assume una guida locale per inoltrarsi in territori sconosciuti.
La propria sensibilità soggettiva, unitamente alle mappe delle teorie di riferimento, va dunque assunta come strumento di indagine e conoscenza, strumento che l’esperienza si incaricherà di tarare, simile allo strumento musicale che venga man mano accordato, prima con difficoltà poi con sempre maggiore naturalezza e precisione.
Avere cura dell’altro è prima di tutto offrire uno spazio fisico e mentale .
Partiamo da un esempio apparentemente marginale, la cadenza delle sedute.
Agli gli apprendisti terapeuti, ci dice Giuseppe Pellizari, viene spesso sottolineato quanto sia importante non modificare per quanto possibile la frequenza della seduta. Chi ha avuto a che fare con neonati avrà osservato che questi hanno bisogno non solo del contatto cutaneo, ma anche di venire cullati, di percepire un leggero movimento che è segnale di vita; l’improvviso arresto di tale movimento diventa segnale d’angoscia, suscita allarme come di fronte una minaccia e così un’improvvisa accelerazione.
Si ha la sensazione di precipitare, di non essere più sostenuti da nessuno. È il ritmo che ci sostiene.
La difficoltà dell’artificio rigido e faticoso delle sedute che avvengono ad orari fissi, con un tempo stabilito, sempre nello stesso posto, dove si finisce inevitabilmente per parlare più o meno sempre delle stesse cose con piccole variazioni, riproduce un ritmo naturale e umano di presenza e assenza, di giorni e notti, di distruzioni e ricostruzioni.
Altro esempio di dispositivo di cura inteso come elemento fondante la relazione e prima ancora della parola, è la stanza d’analisi, il nostro studio..
Pellizzari ci dice : “mi colpisce l’idea della stanza che cura. La stanza non è più semplicemente una stanza , è un luogo vivo….la madre prima di essere riconosciuta come persona dal suo bambino, viene percepita come una cosa. È un luogo, un paesaggio, una stanza che cura…la stanza d’analisi è contemporaneamente un luogo fisico e mentale, è insieme la’ fuori e qui dentro. È un luogo fisico che diviene inconfondibile per il paziente e l’analista. Il paziente finisce per identificare questo luogo con la persona dell’analista; entrare in questa stanza è come entrare dentro di lui, è come se fosse un territorio vivente. ..
Se permettiamo alla nostra sensibilità di stabilire un rapporto di profonda vicinanza con con l’altro allora, prima delle nostre interpretazioni, prima delle chiarificazioni dei meccanismi che hanno portato al sintomo alla sofferenza, sarà la nostra capacità di reverie ovvero la possibilità di sintonizzarsi ad aiutarci a trovare le parole giuste, quelle che toccano come dice Michelle Quinodoz, una metafora, un’immagine che consentirà al paziente di dire “ecco è proprio così …
Ma più frequentemente siamo costretti a muoverci a tentoni, per tentativi ed errori, e tutto procede o non procede affatto in modo più complicato e contorto. Tuttavia percepire la relazione terapeutica come qualcosa di naturale comporta la necessità di tollerare momenti durante i quali non è affatto così. Diverse volte la nostra voce suona stonata, i nostri gesti ci appaiono poco sciolti. È come se dovessimo accordare uno strumento musicale fino a trovare la giusta tonalità, la giusta sintonia; a volte ci riusciamo a volte no. Comunque anche quando non ci riusciamo, il mestiere consiste nell’utilizzare questo fallimento come qualcosa che ci deve far pensare, che ci costringe a riflettere, che ci impone di cercare di capire qualcosa che ancora ignoriamo e che ci crea disagio.
Del resto, un eccesso di armonia, di sintonia, di facilità, di naturalezza nella relazione col paziente, paradossalmente non è per niente naturale.
La naturalezza infatti comporta anche lo sforzo, la confusione, andare a tentoni, il non capire.
Bion ci dice che …” quando ci accostiamo all’inconscio, che è ciò che non conosciamo e non ciò che conosciamo, noi, paziente e analista insieme, siamo certi di essere turbati. Chiunque debba vedere un paziente domani dovrebbe sperimentare, a un certo punto, la paura. Nella stanza d’analisi ci dovrebbero essere due persone piuttosto spaventate: il paziente e l’analista. Se non lo fossero ci si potrebbe chiedere perché si stiano tanto preoccupando di scoprire ciò che ciascuno conosce.”
La psicoterapia ci dice G.Pellizzari è un atto creativo, non riabilitativo e in quanto tale non può ridursi ad avere il sintomo come oggetto di cura come un corpo estraneo da estirpare. Spesso il sintomo è l’unico modo possibile che il paziente ha potuto mettere in campo per sopravvivere e dunque va maneggiato con cautela prima di smantellarlo.
Avere cura quindi non è riportare ad uno stato quo ante,non sappiamo cosa significa star bene ma che la possibilità di una vita piena trovi le condizioni di sviluppo.