STEFANIA MAGNONI, Formarsi senza conformarsi

Per raccontarvi della nostra Scuola ho scelto un tema che a me è caro, ma temo e so essere davvero molto vasto. Vorrei quindi limitarmi ad alcune suggestioni nella speranza di suscitare almeno un po’ di curiosità, domande e desiderio di fare un onesto check personale che vi aiuti a sentire se questo è il mestiere che state cercando e se il nostro modo di intenderlo e trasmetterlo risuona sintonico con le vostre aspirazioni.

Come fil rouge tengo l’essere umano, la sua complessità, la sua imperscrutabilità e le sue risorse.

 La psicoterapia è quel mestiere che voi forse volete imparare e che noi vogliamo in qualche misura decostruire come mestiere e presentare come un’esperienza esistenziale trasformativa che porta ad un modo di guardare a noi stessi, all’altro, al mondo, con occhi, mente, emozioni, vivi veri, capaci di ascolto e di messa in gioco.

 

La psicoterapia è un avere cura attraverso la parola, ma attualmente fermarsi qui ci pare che non basti.

 La parola per essere capace di restituire senso alla vita deve essere parola vivificata dagli affetti. 

Parola viva che sorge da una mente partecipe alle vicende emotive che si articolano sulla scena analitica, dentro uno spazio di gioco tra terapeuta e paziente che permetta un incontro emotivo profondo, il solo in grado di rendere pensabile e rappresentabile il dolore muto che una richiesta di terapia spesso sottende. 

Ecco che ho introdotto qualcosa di importante: dobbiamo imparare ad ASCOLTARE

Ascoltare non solo le parole dette, questo lo sappiamo già, lo abbiamo appreso pian piano nel tempo della crescita. Dobbiamo diventare capaci di ascoltare gli spazi ‘tra’ le parole, i non detti, le pause, le modulazione della voce, i silenzi … dobbiamo diventare sensibili anche a quanto l’interazione produce in noi perché questo è un segnavia importante: “due esseri umani spaventati in una stanza”, cosi Bion descriveva la coppia analitica. 

Acchiappiamo allora un altro elemento: lo SPAVENTO

Spavento non è né panico né angoscia, ma tensione emotiva di una mente che si dispone ad avvicinarsi alla dimensione ignota dell’altro con curiosità rispettosa, delicatezza, umanità. 

È la tensione emotiva che coniuga affetti, capacità di aspettare che il processo di cambiamento si sviluppi senza anticiparlo con movimenti che hanno radici negli elementi difensivi del terapeuta, più che nel bisogno del paziente in quel momento.

Quindi bisogna anche imparare ad ASPETTARE, ad aver FIDUCIA, fiducia nel processo, fiducia nella nostra capacità di metterci in gioco, fiducia nelle risorse del paziente.

La posta in gioco non è piccola: siamo disposti a procedere gradualmente, con la stessa delicatezza, rispetto, umanità che riserveremo ai nostri pazienti, anche all’interno di noi stessi per diventare capaci di essere ‘per ciascun paziente ‘quel terapeuta di cui ha bisogno in quel momento storico’? se sì, il guadagno in termini di benessere emotivo, di possibilità di sentirsi vivi, veri, partecipi in prima persona della propria vicenda umana, secondo me ripaga ampiamente la fatica, la dedizione, la LENTEZZA con cui tutto questo avviene. 

Forse comincia ad intuirsi la complessità, la profondità, la bellezza di un processo di formazione.

Formazione non è dare dall’esterno un forma a qualcuno o qualcosa che forma non ha. 

È porre in essere le condizioni più favorevoli perché un essere umano sia sostenuto, aiutato, incoraggiato a dare spazio a ciò che non ha ancora trovato modo di esprimersi, perché possa accedere al suo idioma personale, possa riconoscersi e avere il coraggio di ‘sentire quel che sente e pensare quel che pensa’. 

 Certamente la mente di un giovane aspirante terapeuta ha bisogno anche di essere nutrita del pensiero dei ‘progenitori analisti’, deve poterli frequentare con impegno, deve poterne assorbire le potenzialità creative e poi ‘dimenticarli’ mentre è con il suo paziente perché è la sua sensibilità, il suo sguardo umano, libero da giudizi e pregiudizi, che contribuirà a costruire un legame che sarà capace di forze trasformative per entrambi: paziente e terapeuta.

Formazione è quindi un processo, lento e trasformativo di consapevolezza e amore. 

Amore inteso come passione che ci conduce ad esplorare territori noti e meno noti con sguardo sempre nuovo: nulla è ripetitivo, il simile non è mai l’identico.

Amore inteso anche come eros, come energia vitale che scorre potente nel legame con i nostri pazienti e che ci farà sperimentare un ‘intimità emotiva’ tanto preziosa quanto rara nel comune commercio umano. Da questa intensa intimità può essere che ci ritraiamo spaventati e che sia forte la tentazione di schermarci dietro procedure e protocolli, ma l’umanità – il nostro fil rouge- ha bisogno di coraggio, preciso senso dei confini, dedizione e integrità per potersi fidare dell’autenticità della nostra proposta terapeutica, e quindi avere, spesso per la prima volta, il coraggio di manifestarsi sulla scena.

Questa prospettiva fa sì che con sincerità possiamo dire che uno psicoterapeuta contento di esserlo, curioso esploratore di mondi nuovi ha la fortuna di fare il lavoro più bello del mondo.

Penso che diventi abbastanza chiaro che formazione non può essere una richiesta di adesione formale ad un pensiero – per quanto corretto e riconosciuto dalla comunità scientifica- di cui mimare gli aspetti formali, senza coglierne lo spirito e la forza ‘disturbante’.

Sì perché tutto ciò che ci invita ad andare oltre, a non stare nel mondo come turisti di un viaggio organizzato, ma come viaggiatori che esplorano terre non ancora battute, disturba, a volte anche profondamente, i nostri tentativi di ‘accontentarci’ del noto, usarlo come una formula passe par tout, sentirci detentori di una verità immutabile che avrebbe il potere di farci sentire con le risposte in mano.

Ecco forse questa è la tentazione più rischiosa, credo in ogni legame tra esseri umani, ma ora ci stiamo occupando della coppia analitica. Una buona formazione deve mettere in grado il giovane terapeuta di riconoscere questo rischio, sempre presente, in modo che possa evitarne le rapide

Una buona formazione non deve essere presuntuosa, non deve perseguire onnipotentemente l’esaustività, la perfezione, il tutto. Deve aiutare ad attivare le doti, le inclinazioni di ciascuno e a riconoscere e a essere tolleranti verso i limiti individuali e dell’umanità in generale

Formare ‘quanto basta’, potrebbe essere un’indicazione. Certo il quanto basta non è fisso, varia con il variare delle condizioni e per questo mi pare ricco di dinamicità. 

Ricorda un po’ la madre sufficientemente buona … in fondo nelle vicende umane non dobbiamo mai tendere alla perfezione ma alla verità, all’intensità e non al ‘massimo’.

Formazione quindi come cura e attenzione alle potenzialità di ogni singolo allievo che possa scoprire in se stesso risorse, coltivare con passione la sua capacità di essere e diventare profondamente umano: possa cioè perseguire una strada esistenziale dove la sua verità trovi spazio e espressione attraverso gli affetti e le costruzioni di falsificazione del reale vengano decostruite

Perché –come ci dice Ferro- Il nostro sapere è più simile ad un formaggio svizzero pieno di buchi che ad un parmigiano e può accadere che passiamo il nostro tempo a tappare i buchi usando dei trompe-l’oil per fingere e convincerci che li abbiamo tappati (religioni, fanatismi, teorie).  

È una formazione al sentire che fonda l’essere. Ha a che fare con l’accesso alla propria creatività, dopo che un po’ di lavoro è stato fatto per aiutare la mente a tollerare l’incertezza, ad aspettare che una configurazione prenda forma, a non essere paralizzata né dall’insuccesso, né dal successo.

Si apre così lo spazio del gioco, quella grande intuizione winnicottiana che ci introduce ad un sapere che superi la struttura binaria su cui si fonda il pensiero occidentale per muoversi verso una pacifica coesistenza degli opposti. Possiamo abitare uno spazio potenziale in cui le menti si incontrano senza dover sciogliere le contraddizioni, senza contrapporsi, ma reciprocamente ‘contaminandosi’ del sentire dell’altro, per far nascere qualcosa di nuovo e co-creato.

È lo spazio ludico che ci fa parlare di una psicoanalisi giocosa in cui le intense esperienze emotive che ‘accadono’, sono espressione di un processo di crescita e trasformazione che rendendo tollerabile soffrire il dolore, apre anche al gioire la gioia.

So di non avervi parlato di molte cose… ma per ora mi fermo qui