di Irene Malaspina
La psicoanalisi ha la sua origine convenzionale nella pubblicazione dell’interpretazione dei sogni da parte di Freud del 1900. Si inaugura con lui la possibilità di indagare l’interiorità a partire dal riconoscimento di un modo di funzionare della mente diverso da quello dello stato di veglia, che apre ad una dimensione interiore sconosciuta, inquietante e fertile che egli chiama inconscio. Freud ravvisa nel sogno la via regia per raggiungere questa profondità in noi. Nell’esplorare ciò che non possiamo conoscere con il solo pensiero razionale, egli scopre che la natura della mente è conflittuale, essendo abitata da strutture ed istanze che hanno logiche antinomiche. La prospettiva di un lavoro clinico sarà dunque quella di rendere cosciente questo conflitto, facendo emergere anche ciò che in noi è sconosciuto per arrivare ad una soluzione di compromesso tra la soddisfazione dei bisogni e la necessità di vivere in società.
Con Anna Freud, sua figlia ed erede, vengono approfonditi i meccanismi di difesa che l’io utilizza per gestire le potenti energie della mente primitiva. Sarà con Melanie Klein, coeva ed antagonista di Anna, che si andranno indagando ancor più all’origine dell’esistenza le forze antivita, messe in campo fino dagli inizi per gestire l’esperienza più perturbante che l’uomo fa una volta scagliato mondo: ovvero l’assoluta dipendenza da un altro essere umano. Osservando i bambini, scopre che non solo i sogni, ma anche il gioco può portare alla comprensione delle configurazioni interiori che possono mettere l’essere umano in scacco, bloccato tra il bisogno di sostegno e la paura dell’abbandono. Sviluppando ulteriormente la possibilità della mente di esprimersi attraverso le immagini nel gioco libero, Winnicott, erede non ortodosso della stessa Klein, descrive la possibilità per gli esseri umani di salvarsi da questo scacco matto esistenziale, accedendo ad una terza area, a metà tra interno ed esterno, dove fare l’esperienza di essere co-creatori della realtà e non solo passivi fruitori. Per accedere a questo potenziale, è necessario concedersi di sperimentare uno stato a confini allentati, che solo un’ esperienza di “accudimento sufficientemente buono” può concedere. La patologia sarebbe, in questa ottica, l’impossibilità di espandersi oltre i confini dell’io di controllo. Senza questa esperienza, infatti, è impossibile presagire l’esistenza di una dimensione più profonda ancora e più misteriosa dell’inconscio, da lui denominata Vero Sé. Negli stessi anni sarà Bion ad esplorare la funzione sognante della mente, che lascia intravedere un livello dell’Essere da lui denominato O, in cerca di uno spazio nella mente umana, per diventare mondo. La prospettiva della coppia analitica diventa ora quella di creare le condizioni per mettere a dimora l’Eterno e consegnarlo al flusso del Tempo. La guarigione in questo modo di intendere il lavoro clinico risiederebbe nell’andare oltre ad una prospettiva strettamente personalistica per sviluppare una affettività vera ed autentica, al di là del narcisismo individuale.
In Italia, gli sviluppi del pensiero bioniano sono stati parzialmente raccolti e sviluppati da Antonino Ferro e dal gruppo pavese che hanno creativamente trovato una strada di applicazione tecnica delle idee bioniane sul pensiero onirico della veglia che prende il nome di approccio narrativo. Rinunciando alle implicazioni più mistiche contenute nel pensiero bioniano, tali autori hanno seguito l’idea che l’esperienza vitale venga approfondita in misura tanto maggiore quanto più è possibile rappresentarla per immagini, lasciando che le stesse si accoppino secondo linee di sviluppo imprevedibili e sempre germinative nello spazio dell’incontro tra paziente che analista. In America, l’eredità di Bion viene raccolta da Ogden, anch’esso autore contemporaneo, che approfondisce la modalità di ascolto sognante del terapeuta, che, nello spazio della sua propria interiorità, offre a quella del paziente un luogo dove farsi viva. Seguendo queste riflessioni appare evidente come la chiave di volta del processo analitico sia il modo di ascoltare il paziente, più ed oltre che l’interpretazione. Vale la pena di ricordare, infine, in questa brevissima sintesi che non può avere la pretesa di essere esaustiva, il filone relazionale che a partire da Mitchell, trova in Bromberg e nella terapia del trauma e della dissociazione il suo sviluppo più recente. Trovo interessante di questa prospettiva l’indagine di quello che succede nello spazio che c’è tra paziente e terapeuta, tra un pensiero e l’altro, tra una visione del mondo e la sua omologa su un altro livello della struttura del mondo interno. La riflessione su quello che accade in questi luoghi “between the spaces” apre ad un dialogo con altri saperi come la letteratura, il teatro, il cinema, la filosofia, l’etnopsichiatria e la teologia, portando la psicoanalisi ad accoppiamenti sempre più generativi con saperi “altri”, che condividono con essa lo stesso oggetto: ovvero la mente dell’uomo. Facciamo nostra l’esortazione di Socrate scritta in lettere di pietra sul tempio di Apollo a Delfi “conosci te stesso”, onde varcare quella soglia sacra che ci permette di incontrare per primi i nostri demoni, ma poi, se il coraggio ci assiste, anche i nostri dei.