Liberare la realtà dal “cumulo muto di nomi”:
il percorso terapeutico come spazio e tempo per permettere al paziente adolescente di esplorare i fattori consci e inconsci all’origine del suo orientamento identitario.
La verità è che i nomi ci scelgono
prima ancora di pronunciarli.
Sulle pareti, a ridosso delle strade,
nei vasi di garofani e ortensie,
sulle strisce d’acqua che rigano
le finestre al mattino, sulle
scarpe allacciate, sui pulsanti
dei campanelli, nelle stazioni
in disuso. Su tutto si coagula
un nome. Tutto ne risplende.
E chi sfugge dai nomi sappia
che non si sfugge alla nominazione
perché i nomi legano in nodi
di verità strette da calzare,
costringono in sillabe da pronunciare
a denti stretti. Da far male.
I nomi che mi hanno scelta
non trovarono angoli da rischiarare.
Cessarono presto i significati
mentre ero intenta a scavare in ogni
lettera.. speravo nelle eccezioni,
in costrutti arcani da indagare
per darmi un senso.
Ci rinunciai e con loro
all’arroganza della definizione.
All’insensatezza di attenersi
alle parole per vedere la realtà.
La verità è che la realtà
dormiva a un palmo dal naso
sepolta da un cumulo muto
di nomi.
Giovanna Cristina Vivinetto
Penso che questa poesia abbia in sé tutto quello di cui oggi vorrei parlare: mi riferisco alla parola “verità”, e alla pesantezza che questo termine può evocare, di quanto possa trascinare dietro di sé riflessioni e posizioni rigide e – queste sì, davvero – binarie: mi trovo d’accordo con quanto scrive Alessandra Lemma a proposito del rischio di assumere quello “stato mentale rigido” a cui il dibattito sulle problematiche relative al genere sembra spesso condurre. Il rischio è quello di polarizzarsi, da un lato, su una patologizzazione “senza quartiere” – definendo la scelta transgender come “negazione del dato biologico”, in nome di una pretesa di cura onnipotente che riduce una realtà mutevole a regole prestabilite – dall’altro, di operare una collusione con la fantasia inconscia del paziente, e con il diniego che opera del proprio sesso e rispetto alla natura originaria del proprio corpo. Ma se mi sottraggo al rischio di un pensiero rassicurante ma rigido, il mio intervento sarà fatto soprattutto di interrogativi, e molto meno di risposte. Ma in fondo, non sono le risposte intelligenti che ci salvano, ma le domande, per il loro potenziale di apertura all’impensabile.
Intanto, credo sia sempre più necessario interrogarci sulle ragioni per cui i fenomeni legati all’identità di genere siano in aumento esponenziale. Sta accadendo qualcosa di nuovo e inusitato, o questi fenomeni sono stati sdoganati? E, se così fosse, che cosa li ha sdoganati? Stiamo parlando di cambiamenti culturali e di costume tali da comportare una revisione e una risignificazione delle configurazioni fantasmatiche a cui noi psicoanalisti siamo abituati a fare riferimento?
Sicuramente non possiamo sottrarci al compito, come ha scritto recentemente Anna Maria Nicolò, di “creare uno spazio di elaborazione dei cambiamenti che stiamo vivendo, con la consapevolezza e il rispetto dell’irriducibile molteplicità di dimensioni da cui emerge l’universo umano”.
Ma allora, la psicoanalisi può continuare a usare i suoi strumenti interpretativi, di decifrazione, ricostruzione e reintegrazione, in un mondo che sta mutando? Detto altrimenti: è possibile che gli strumenti di analisi creati, messi a punto e affinati per operare in una determinata situazione storico-sociale, vengano applicati ad una situazione storico-sociale radicalmente diversa?
Per quanto mi riguarda, sto pensando all’esperienza clinica e di supervisione, relative agli adolescenti che oggi – in numero crescente – arrivano nei nostri studi manifestando la loro volontà di trasgredire le norme di genere. Un altro interrogativo: siamo davvero in presenza di un autentico “trasgredire”?
Nella mia esperienza, e in quella dei colleghi con i quali collaboro, quel che sembra soprattutto portato dagli adolescenti che incontriamo è una preponderante tendenza verso l’indifferenziato, cioè verso la possibilità di trasmigrare da un orientamento sessuale ad un altro. Questo dato di realtà – che riguarda i dati emersi nel nostro Centro clinico – mi porta a spostare il focus, momentaneamente, al fenomeno che Amalia Giuffrida, in un articolo di qualche anno fa, aveva definito come il delinearsi di una nuova identità: il genere sessuale unico. A tale proposito, di nuovo non sento di avere nessuna verità certa, ma un interrogativo che dentro di me si fa ipotesi: la bisessualità, se allora è vissuta come possesso prezioso e onnipotente di tutti gli attributi femminili e maschili insieme, potrebbe quindi porsi come soluzione inattaccabile e perfetta, rispetto alle “manchevolezze” delle scelte etero o omosessuale? Giuffrida, descrivendo “una spinta sociale verso l’indifferenziazione, o meglio, verso il genere sessuale unico, inteso come dimensione di onnipotente autarchia e di permanenza nella condizione di bi-sessualità” ipotizzava “che di fronte a stati collettivi di profonda impotenza, sostenuta anche dalla invasività tecnologica, biotecnologica e mediatica, l’uomo spodestato persino della sua pensabilità e corporeità, vi opponga difensivamente il principio del vivere ‘senza limiti’, in una sorta di chimerico soddisfacimento onnipotente del desiderio, manipolando, e rendendo senza confini, il principio di realtà.”
Il pensiero di Giuffrida mi ha colpito, perché segna il passo delle riflessioni che in questo tempo vado facendo – sia perché vivo, come tutti noi, dentro questo tempo difficile, nutrito di passioni tristi – sia grazie al lavoro con i pazienti, soprattutto giovani pazienti… perché mi turba, e talvolta mi sgomenta, il pensiero che questa tendenza verso l’indifferenziato sia collegabile a un aumentato sentimento di impotenza. Che, nella misura in cui si fa intollerabile, viene negato, e agito nell’ambito del registro narcisistico a favore di un’illusoria soddisfazione proteiforme del desiderio. In questo modo, l’onnipotenza sarebbe salva: il soggetto può essere tutto, madre, padre, maschio, femmina … e possedere tutte le doti e le funzioni, vivendo una sessualità polimorfa, magicamente senza fine.
Siamo in presenza di cambiamenti epocali che ci condurranno a soggettività alternative, mutanti, transgeniche fino ai corpi cyborg, oppure siamo alle prese con nuove patologie, o invece ci muoviamo in un ben più ampio registro che riguarda una società che si nutre – e ci nutre – di pericolose illusioni? Il filosofo Salvatore Natoli ci dice che abitiamo un mondo che “non sa più trasgredire. Perché senza norme, ogni cosa è legittimata, nulla si avverte come colpa. E’ questa – conclude Natoli – “la società delle solitudini”. E cito, ancora, Francesco Barale quando scrive: “E’ proprio vero che oggi ci avviamo, nella mediaticità totale, verso una società senza padre (con la conseguente crisi dell’autorità e la costituzione di un volontario fascismo strisciante sostitutivo), ma anche verso una società senza lutto ( che sappiamo essere la sola strada per una possibilità di introiezione, assunzione di identità e accettazione delle differenze)”.
In una società ad alto indice di disgregazione, la costruzione di sé può allora essere affidata esclusivamente all’intervento sul corpo.
E torniamo così ai giovani pazienti, e a quanti dichiarano di odiare il corpo che biologicamente hanno avuto in sorte: personalmente, non ho esperienza di pazienti adolescenti che si stanno orientando al progetto della cosiddetta riassegnazione chirurgica del sesso, mentre incontro adolescenti che arrivano nel nostro Centro già determinati a interventi su base ormonale, e altri meno determinati, ma che comunque dichiarano di voler cambiare il proprio nome, di non sopportare e di voler nascondere i propri genitali, o il proprio seno, o la propria barba….
Quello che sento centrale, in loro, è – appunto – l’odio, e il desiderio profondo di cancellare quel corpo percepito come intollerabile e ingiusto scafandro.
Impugnando con disperazione la verità dell’essere precipitati alla nascita nell’habitus corporeo “sbagliato”.
E torno, allora, a pensare alla verità e al suo peso ingombrante.
“I nomi” scrive la Vivinetto “legano in nodi di verità strette da calzare, costringono in sillabe da pronunciare a denti stretti. Da far male.”
Sto pensando, in questo momento, a un giovane paziente seguito da una collega, e al suo confuso impigliarsi tra i nomi che alternativamente si attribuisce, e tra i quali oscilla: Vittorio e Maja. Nomi non sentiti come davvero capaci di significare, ma solo “nominazioni” a cui aggrapparsi per provare a esistere.
Pensiamo ai nomi che vengono dati ai bambini alla nascita: nomi dei nonni, destinati a perpetuarne il ricordo; o nomi che vanno per la maggiore, e per questo socialmente rassicuranti; oppure nomi che – al contrario – risuonano, per i genitori che li scelgono, esotici e conducono lontano; o ancora, nomi che esorcizzano la malasorte … qualunque esso sia – nel momento in cui il bambino “si sveglia” nel mondo esterno e comincia a rapportarsi con esso – il nome che gli viene assegnato dovrebbe incontrare al più presto il bambino stesso e le sue personali esigenze, che lo rendono unico e bisognoso di definizione.
Dietro il nome, la necessità di individuarsi del bambino: di sentire, cioè, accolto il bisogno di essere visto grazie, in primo luogo, all’esperienza sensoriale e motoria condivisa, attraverso scambi ripetuti con l’ambiente e l’oggetto, cioè con le figure di accudimento. Che sono lì per rispecchiare e nominare le esperienze- prima di tutto a livello corporeo – affinché gradualmente possano diventare rappresentabili a livello mentale. Altrimenti, il bambino può solo “calzare un nome”, costretto in nodi identitari che lo trasformano in un ricettacolo di massicce proiezioni. Nessuna risposta al suo bisogno di sapere “chi sono io?”, ma un’ingiunzione ad un “fai in modo di essere!”, per diventare quello che ci si aspetta da lui, talvolta in un vero capovolgimento della relazione contenitore/contenuto. Perché venuto al mondo, e nominato, per alleviare il dolore mentale genitoriale, dolore che ha reso irrimediabilmente fragile e inadeguato il contenitore.
Stiamo parlando di bambini che, non avendo sperimentato in modo sufficiente, “marcato” (come scrive Fonagy) e saldo il rispecchiamento nello sguardo dell’adulto, non hanno acquisito quindi, in modo stabile, la capacità di mentalizzare l’esperienza corporea: bambini che potranno diventare adolescenti per cui l’esperienza soggettiva di essere-nel-corpo sarà un’esperienza fragile e incerta. Neo-adolescenti che si adopereranno, allora, per fare in modo di essere qualcosa di diverso.
Questo è quanto io avverto nella determinazione dell’adolescente a traslocare nel sesso di segno opposto: perché sento che il ricorso a un aut-aut avviene quando un’inconsistenza o una mancanza sul piano dell’essere ha generato un’ipertrofia del fare.
Del resto, era stato per primo Winnicott, in “Gioco e realtà”, a fare una distinzione fondamentale per il pensiero psicoanalitico tra gli “elementi femminili puri” e quelli “maschili puri” della personalità, sottolineando che non hanno nulla a che fare con l’orientamento sessuale. Perché femminile e maschile riguardano rispettivamente l’essere e il fare, come dimensioni essenziali del funzionamento mentale di ogni essere umano.
E se l’essere-nel-corpo è stata per il bambino un’acquisizione debole, per l’adolescente che si preparerà a diventare potrà essere paradossalmente rassicurante la scelta di agire un’identità diversa, rispetto a quella del proprio corpo anatomico: perché preserva dal sentimento incombente di perdita di sé. Evitando, così, l’incontro con l’angoscia di integrazione, con l’inevitabile, perturbante e – aggiungerei – sacrosanto disordine psicologico che ne deriva, e con il dover arrivare, infine, a rappresentarsi come oggetto separato. L’illusione è data dal credere che il nome proprio cambiato, l’assunzione di ormoni, o il colpo di bisturi risolvano e siano sufficienti a generare cambiamento, con un taglio netto … l’adolescente, nel non sapere e potere stare in un corpo che non è stato sufficientemente visto per tutto il tempo necessario, e nel suo ricercare, quindi, un nome e un corpo altri, è in realtà alla continua ricerca di confini esterni che lo preservino dalla sensazione di perdersi e gli permettano di sperimentare, in qualche modo, un sentimento di “consistenza” esistenziale. Una consistenza fatta di acquisizioni concrete – le modifiche che l’adolescente può agire sulla superficie del corpo, in misura variabile invasive – e pertanto acquisizioni non mentalizzabili. Perché soltanto agite, appunto.
Si opera così un’abolizione del conflitto psichico: questa rinuncia mi sembra rappresenti il nucleo della sofferenza psichica che conduce gli adolescenti nei nostri studi. Apparentemente, arrivano solo per cercare nella figura dello psicologo un testimone compiacente che assecondi e sostenga le fantasie di riparazione attraverso la costruzione dell’anatomia del sesso opposto, in realtà – se la collusione tra paziente e terapeuta è, auspicabilmente, sventata – se cioè li ascoltiamo e ci ascoltiamo davvero nel nostro lavoro con loro, ci rendiamo conto che la richiesta sottesa è profondamente un’altra. E cioè: dove va a finire la parte “cattiva”, odiata – maschile o femminile – della propria identità psico-fisica? Credo che il nostro compito consista nel riassegnarle diritto di cittadinanza sulla scena psichica. Del paziente, nostra, e della nostra relazione con lui.
Perché l’alleanza terapeutica si rende possibile se da parte del terapeuta c’è la disponibilità a mettersi in gioco con interrogativi e riflessioni riguardanti – anche – il proprio corpo, la propria identità, il proprio stato mentale.
Nella matrice transfert-controtranfert, ciò che inizialmente sembra emergere con questi giovani pazienti è spesso un apparente disinteresse per la persona, e per il corpo, del terapeuta: sembra che la nostra presenza sia ammessa sulla scena solo in quanto chiamati a prendere atto del rifiuto di un corpo “sbagliato” e del desiderio di un corpo “giusto”. Spesso, la sensazione è quella di una determinazione del paziente a ridurre il terapeuta a un corpo-mente neutro, privo di una reale consistenza.
Ma in fondo – per un ex bambino che non ha avuto modo di introiettare relazioni oggettuali sufficientemente salde e marcate – non può che esserci questa sorta di sguardo “cieco” sul terapeuta: dove è mancata la funzione del rispecchiamento, come sostiene Winnicott, è venuta a mancare anche la funzione di un materno capace di contenere e ritrasmettere al bambino l’esperienza in una forma metabolizzata, cioè – come ci dice Bion – la graduale interiorizzazione di una funzione pensante. Quindi l’adolescente sembra inizialmente non poter percepire il terapeuta se non come un’indistinta presenza, spesso oggetto non investito di reale interesse, curiosità, desiderio, pensiero. Ma con il procedere del lavoro, l’adolescente comincia a sperimentare che il suo corpo tormentato e il suo sé frammentato tra nominazioni incerte possono davvero depositarsi ed essere rappresentati nella mente della terapeuta.
Questo accade quando noi terapeuti riconosciamo al corpo “originale” del paziente il diritto di esistere, perché – per quanto odiato, soprattutto perché odiato – gli appartiene. E’ un passaggio delicato: il lavoro si fa doloroso, spesso suscita nell’altro risentimento, odio, rifiuto, ma fa parte dell’esperienza del guardare e dell’essere visti.
E’ in questo momento che il terapeuta può cominciare a essere percepito come persona viva e pensante. Non è semplice: si viene liberati da una condizione in cui la nostra mente, da oggetto “opaco” e in qualche modo reso sterile dalle proiezioni del paziente, può cominciare a essere investita di sentimenti di invidia, rabbia, distruttività, desiderio … del resto, non può esserci reverie né funzione alfa senza L e H, senza amore e odio, come dice Bion in “Apprendere dall’esperienza”. E’ solo da questo momento che può cominciare a delinearsi un cambiamento graduale dello stato mentale, verso un funzionamento più depressivo.
Come suggerisce Winnicott, in una sua straordinariamente vivida e attuale illustrazione clinica, nella misura in cui un terapeuta è in grado di trattare con i propri sentimenti di depressione – può allora riconoscere l’esperienza della depressione del genitore-oggetto interno del paziente, distinguendo quest’ultima dalla propria depressione. In questo modo, e da questo momento, può aiutare il paziente a cominciare a sottrarsi al compito, che svolge dalla nascita, di alleviare il dolore psicologico genitoriale. E’ adesso, che il rispecchiamento può cominciare a generare trasformazioni: il terapeuta non solo è capace di riflettere l’esperienza del soggetto, ma nello stesso tempo comincia a indicare con chiarezza che la propria e quella del paziente sono, in parte e necessariamente, esperienze diverse.
E nella diversità si può cominciare a delineare un possibile, gradualmente sempre più integrato, vero Sé dell’adolescente. Quando, cioè, sarà meno spaventato e quindi abbastanza fiducioso da far emergere qualcosa che fino a quel momento era stato relegato nei territori dell’invisibilità, per il terrore che il suo vero Sé venisse ancora una volta non visto, sfruttato, e quindi potenzialmente annientato.
Il cammino – nella relazione tra paziente e terapeuta – si prospetta non semplice né breve: sono infatti convinta – riprendendo gli interrogativi iniziali – che la psicoanalisi non possa e non debba più far ricorso agli strumenti classici dell’interpretazione, decifrazione, ricostruzione e reintegrazione. Lo penso in generale, per la psicoanalisi oggi, ma soprattutto per quanto riguarda il lavoro con gli adolescenti, e in particolare per questi adolescenti la cui vita psichica è davvero “sepolta sotto un cumulo muto di nomi”, che non sono i loro. Penso che davvero siamo sempre più chiamati a non usare cliché interpretativi, non trattando il materiale portato dal paziente come enigma da svelare.
Con pazienti per i quali l’ambiente – non sintonizzato sui loro reali bisogni, ha collaborato allo strutturarsi di un falso Sé – siamo sempre più chiamati a un lavoro costruttivo (in senso junghiano), piuttosto che analitico/interpretativo, affidandoci all’intuizione, alla reverie, per raggiungere e cogliere i livelli più profondi dell’esperienza emotiva. Il lavoro analitico può allora andare a sfrondare il cumulo muto di nomi e ad alleggerire l’arroganza delle definizioni (come scrive la Vivinetto), per svolgere quella funzione – commovente e straordinaria, nel suo restituire significato autentico ai nomi e alle parole. Funzione di cui ci parla un’altra poetessa:
“Alcuni dicono che,
quando è detta,
la parola muore.
Io dico, invece, che
proprio quel giorno
comincia a vivere.”
Emily Dickinson
Bibliografia
Alessandra Lemma,“Pensare il corpo”, Fioriti editore, 2015
Anna Maria Nicolò e Laura Accetti,“Corpo e diniego: l’enigma transgender”, Psicoterapia psicoanalitica, “Del corpo”, n.1/ 2022
Amalia Giuffrida, “Nuove identità: il genere sessuale unico”, Psiche, rivista di cultura psicoanalitica, 2002
Francesco Barale, “Normale caos dell’amore: corpo, Edipo e sexualtheorie all’epoca della modernità liquida”, Psiche, 2003
Donald Winnicott, “Dalla pediatria alla psicoanalisi”, 1945
Giovanna Cristina Vivinetto, “Dolore minimo”, Interlinea, 2018
Emily Dickinson, “The poems”, 1872