commento di Nicoletta Massone
fonte La Repubblica
La notizia
Un nuovo esame del CNR consente di indagare le condizioni generali di salute, in modo da individuare i livelli di possibile sofferenza cardiaca.
La Repubblica, 17 settembre 2002
Il commento
Finalmente un test in grado di operare nel campo della prevenzione per quanto riguarda le affezioni cardiache: questa la notizia degli ultimi giorni. Il Servizio di Prevenzione e Protezione del CNR ha messo a punto uno screening in grado di pronosticare, con almeno 10 anni di anticipo, la probabilità del verificarsi di un infarto al miocardio o di altre gravi patologie cardiovascolari. Questo, attraverso una valutazione dei fattori di maggiore rischio: sesso, età, alimentazione, abitudine al fumo, livelli di colesterolo e di pressione arteriosa, diabete e ipertrofia del ventricolo sinistro.
Nel caso del riscontro di un rischio elevato, il consiglio è quello di iniziare, eventualmente, una terapia farmacologia, ma soprattutto di provvedere ad una modificazione delle abitudini esistenziali. “Nella prevenzione delle malattie cardiache, infatti – sottolineano i ricercatori del CNR – è essenziale lo stile di vita.”
Rilievo, noto, forse, ma importante perché, in qualche modo, conferma un’impressione diffusa: la nostra esperienza sembra legare la “malattia di cuore” ad una fatica quantitativamente eccessiva, raccolta nel succedersi quotidiano dei giorni e fattasi, improvvisamente, non più sostenibile. Come se le sollecitazioni cui siamo esposti: responsabilità lavorative, impegni familiari, improvvisi e laceranti dolori, diventassero di colpo un grumo condensato e non più digeribile di sofferenza. Fardello eccessivo che finisce per pesare sull’esistenza e sul nostro cuore che dell’esistere è il battito, il colore, il respiro.
L’esperienze diretta e immediata, dunque, lega in modo privilegiato il cuore alle emozioni. Certamente sappiamo che gli affetti coinvolgono, nel loro manifestarsi, sia il corpo che la mente: la paura fa tremare le mani e sbianca il volto, la tensione di un dibattito acceso imporpora la guance, la pelle si increspa nell’attesa di una carezza.
Una ad una, tutte le parti del corpo si inteneriscono, giurano vendetta o eterno amore insieme con la nostra anima. A seconda delle circostanze, sono le gambe, i capelli o le labbra ad avere maggiore centralità e il cuore non manca mai. E’ proprio il suo ritmo che si presta, in modo particolarmente appropriato, ad attribuire un tono affettivo agli istanti e agli incontri della vita.
Giustamente, allora, temiamo per lui che ci appare così forte quando si allarga sulle nostre speranze, ma che sentiamo anche altrettanto fragile quando lo pensiamo esposto senza possibilità di difesa ad ogni intensità emotiva.
E il timore per un cuore che può spezzarsi di colpo, sotto il peso di un compito fattosi intollerabile, rappresenta anche la trepidazione per noi stessi, impegnati nell’identico lavoro di trovare un’armonia interiore rispetto alle esperienze che viviamo.
E’ un lavoro che ci attende ogni giorno e che ogni giorno non è mai garantito nella sua conclusione.
Un progetto ha avuto buon esito, ne siamo contenti, ma è costato mesi di preoccupazione, a volte la paura del fallimento è stata cosa quasi palpabile, senza contare la fatica del dialogo con altri, costante tensione nel tentativo di fare prevalere la spinta della collaborazione piuttosto che l’impulso distruttivo della rabbia, della frustrazione e dell’impotenza. Una telefonata affettuosa nel cuore di un pomeriggio di lavoro, sembra allentare, per un attimo, il senso di claustrofobia, ma il calore di quel rapporto è una conquista costante che passa attraverso il dramma del confronto, la metabolizzazione delle piccole e grandi incomprensioni, delle rabbie e delle delusioni. Un caro amico ci ha fatto notare quanto nostro figlio sia sensibile ed attento, un professore ce ne ha lodato la curiosità e l’intelligenza; ci sorprendiamo orgogliosi di avere collaborato alla crescita di queste capacità, ma sappiamo anche la fatica dell’impegno. Proprio nostro figlio, a volte, fa scelte che non ci aspettiamo e questo ci amareggia e ci preoccupa; a volte proprio nostro figlio soffre per una incomprensione, per un amore che finisce, per le nostre stesse scelte e il nostro dolore, sordo e profondo, non può che fare eco al suo.
E’ come se ogni giorno avessimo il prioritario bisogno di filtrare tutto ciò che è avvenuto fuori e dentro di noi per trattenere il bene e trasformare il male in qualcosa che ci possa appartenere.
Ci sono occasioni, però, in cui tutto questo non riesce e la sensazione, allora, può essere simile a quella di un’intossicazione: elementi dolorosi, alieni, potenzialmente pericolosi, ci hanno invaso e non sappiamo più come difendercene. Sentimenti negativi che, in genere, siamo abituati a ridimensionare e circoscrivere, ora si allargano a dismisura e l’atmosfera interiore diventa di disperazione: qualcuno, non si sa chi, forse solo la furia cieca del destino, ha cancellato ogni speranza, siamo diventati estranei a noi stessi, intrappolati in una vita che non ci appartiene e che ci schiaccia con la sua inospitalità. Il mondo che ci circonda, improvvisamente, diventa gelido e disadorno: forse ci siamo allontanati troppo e, come Pollicino, non troviamo più la strada del ritorno all’affetto rassicurante di una casa.
E’ il nostro stesso pensiero che non riesce più ad accoglierci, a consolare una crescente agitazione. Cerchiamo solo di correre più veloci dell’angoscia, di correrle davanti per non farcene prendere, per non saperla ed esserne strozzati.
E’ una corsa a precipizio, sfrenata, non possiamo fermarci per fasciare le ferite, non possiamo tenere conto di chi abbiamo travolto, neanche se quel qualcuno siamo noi stessi.
Il nostro cuore, lanciato a mille, palpita frenetico nella gabbia toracica, troppo piccola ora per contenerlo. Ma temiamo che, a trattenerci, si possa spezzare.
La malattia organica, in questo caso, può essere l’inevitabile conseguenza di uno sforzo stremante al quale non sappiamo trovare alternative. Bisognerebbe potere tornare indietro, forse proprio a quel surplus di dolore che sembra avere rotto l’equilibrio e reso inutilizzabili le nostre capacità di stare con noi stessi.
Anche se quel surplus di dolore, come dicono le tabelle sugli indici dello stress, è l’intollerabile assenza di una persona amata, il muro vuoto e nero delle ore che ha lasciato, l’indigenza colpevole di una solitudine senza rimedio. Anche se quel surplus è la consapevolezza di avere mancato per sempre una meta desiderata, l’ignominia di una sconfitta o il peso di una ingiustizia taciuta.
Sono tutte quantità emotive che sembrano incunearsi e spezzare il fragile contenitore del nostro pensiero che fugge, impazzito, nell’estremo tentativo di annullare, fare sparire, togliere, quello che è avvenuto. Ma non lasciare spazio al pensiero è la paradossale richiesta di vivere solo a singhiozzo, impedire al cuore di battere per abortire un abbozzo di consapevolezza che, in piena luce, sarebbe lacerante. Dice Fernando Pessoa:
“Chi mi solleverà dall’esistere? Non è la morte che voglio né la vita: è qualcosa che brilla nel fondo dell’inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. E’ tutto il peso e tutto la pena di questo universo reale e impossibile da cui l’immaginaria falce crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e di insensibilità”
Per non ammalarsi di cuore, dicono i ricercatori del CNR, bisogna cambiare vita e sembra che proprio questo sia accaduto a Chiara che, dopo essersi sottoposta al test, è stata considerata ad alto rischio di malattia cardiaca.
“La mia vita è cambiata, ma più dentro che fuori, forse. Le analisi non hanno fatto altro che confermare una cosa che immaginavo. Ero una che se la prendeva per tutto, che soffriva per le ingiustizie, che correva anche quando stava ferma. Ora qualcosa dentro di me si è spostato, distinguo i miei problemi da quelli che miei non sono. Mi fermo, faccio un bel respiro, aspetto. Non sapevo, non avrei mai detto che avrei preso una minaccia come un’occasione per conoscermi di più.” La malattia nasce anche dal tentativo di non sapere, nella certezza che questo sia l’unico modo per allontanare la minaccia della sofferenza. Ma il prezzo da pagare è alto perché ogni nostra risorsa, corpo e mente, è impiegata senza risparmio e senza rispetto. Invertire la rotta e prenderci cura dei nostri pensieri ci permette, come è successo a Chiara, di conoscerci meglio, di sentire quello che ci accade, sentire i battiti del nostro cuore che possono farsi soffocati e sordi, ma possono anche aprirsi sotto la carezza di una speranza nuova.