L’umorismo come rivelatore di nuove visioni del mondo, di noi stessi, delle nostre relazioni antiche e presenti.
Giovanna Capello
Dove non c’è umorismo, non c’è umanità;
dove non c’è umorismo (questa libertà che
si prende, questo distacco di fronte a sé
stessi), c’è il campo di concentramento.
Eugéne Ionesco
Tardo pomeriggio. Sto ascoltando Andrea, un paziente adolescente invischiato nel rapporto con una madre gravemente disturbata, abbandonato dal padre, tormentato da angosce persecutorie alle quali reagisce assumendo atteggiamenti grandiosi e sprezzanti. Mi sta raccontando della sua ultima conquista, una ragazzina che Andrea si propone di “usare e scartare”:
“… perché a me non frega niente: le tipe sono tutte uguali e si possono sostituire quando ti sei stufato, e io mi annoio sempre un botto, e sempre più in fretta! Emma poi secondo me è pure abbastanza una cozza, anche se su instagram si mette che neanche una fashion blogger … io ora le sto dietro, metto like sulle sue storie, ma in realtà le rido dietro non sai quanto, sentendomi sempre più stufo, e più scazzato…”.
Il tono sale: un ronzio concitato e senza pause, una sorta di apnea logorroica, incalzante e insieme monotona che – soprattutto – sembra non ammettere un mio intervento: qualcosa che potrebbe risuonargli, in questo momento, come un contrappunto insopportabilmente stonato da parte mia. “Non è giornata”, penso, e resto in silenzio. Improvvisamente lo studio accanto, abitato da una cara collega, risuona della sua risata sottile e squillante, che conosco bene: un pensiero mi attraversa (e che sento muoversi tra il lieve disappunto e l’invidia) “Cosa avranno da ridere, di là?”. Andrea si interrompe, rivolge lo sguardo al muro che divide i nostri studi, e quasi in perfetto sincrono con il mio pensiero sbuffa: “Ma cosa avranno da ridere, di là?”. Sgrano gli occhi, alzo le spalle, allargo le braccia – la mimica e i gesti, nell’Era Mascherine-Anticovid, si sono decisamente accentuati – e dico ad Andrea: “Qualunque cosa sia, sono curiosa anch’io: abbiamo sentito tutti e due una risata, ma evidentemente pensiamo entrambi che siano in due, a condividere qualcosa che li ha divertiti…”. Andrea scoppia a ridere: “E vorrei vedere! Manca solo che di là ci sia qualcuno che ride da solo: va bene che questo è un posto di fuori di testa, ma qui se si ride non è perché si sclera, è perché ci si prende bene…”. “Accidenti – gli dico, davvero colpita – stai dicendo che se si ride con qualcuno è perché ci si prende bene, mentre sembra che nel ‘ridere dietro a qualcuno’ si finisca per scazzarsi: in effetti ho la sensazione che quando dici di Emma ‘le rido dietro non sai quanto’, tu sia proprio solo, isolato in un tuo star ‘dietro’ cupo e appartato, che non sembra poter diventare mai un ‘insieme’”.
“Mi viene in mente – prosegue Andrea, dopo un breve silenzio, e con tono apparentemente noncurante – che quando ero più piccolo giocavo a nascondino in casa di mio nonno, io e lui insieme. E l’altra notte l’ho sognato: ho sognato che stavamo insieme e giocavamo di nuovo a nascondino, ridendo come matti ogni volta che uno trovava l’altro. Ma ad un certo punto – toccava a lui nascondersi – io non lo trovavo più. Mi sono svegliato che praticamente piangevo: in quel momento lì, dopo mesi, ho realizzato che davvero lui è morto, non c’è più. Mi è rimasto addosso uno sturbo che non hai idea…” Lo guardo, e provo una sensazione di pena profonda – come se volessi stanarlo anch’io, quel nonno “sparito”: “Bè, Andrea: un’idea penso di farmela. Perché è terribile: un bambino si aspetta sempre che l’altro ricompaia, sia lì pronto a farsi ritrovare. Il gioco del nascondino ha delle regole precise, che ci si aspetta vengano sempre rispettate: se l’altro non ricompare, ci si sente intrappolati in una ricerca senza fine.” Andrea mi fissa un istante, poi torna a guardare il muro che confina con l’altro studio, fa un mezzo sorriso: “Eh si, c’è bisogno di qualcuno che liberi tutti, toccando il muro e gridando ‘Tana!’…”.
Nella seduta di quel pomeriggio, io e il mio paziente siamo passati:
– dal riso beffardo che sembrava destinato ad inchiodare Emma, Andrea, ed anche la sua terapeuta in una solitudine velenosa e disumanizzante;
– alla sorpresa di una risata che filtra attraverso il muro e si dilata nella stanza, allentando la tensione eccitata, diffondendo curiosità e introducendo un respiro più riflessivo;
– alla nostalgia, al dolore autentico per la perdita e alla possibilità di rendere pensabile e dicibile la paura che la perdita si rinnovi. Ma la paura, filtrata in studio insieme alla risata della collega in quel momento serenamente ignara, ha permesso di assegnare a questa stanza la funzione di luogo del gioco condiviso (il nascondino) e dell’alleanza – contenitore di affetti vivi, preziosi e insieme fragili e infantili, bisognosi di cure e di protezione. Da quel giorno, la “tana” entrerà spesso nel nostro lessico privato, a definire il tempo e lo spazio della seduta: un piccolo posto protetto dove il dolore può nascondersi come un animaletto selvatico, impaurito e spesso ringhioso, ma dove può anche provare – con cautela e a piccole dosi – a lasciarsi stanare, senza correre il rischio di venir braccato, catturato, manipolato. E dove sperimentare, insieme, la possibilità di dare libertà – “liberi tutti!” – ai sentimenti elementari, non ancora cresciuti, che non hanno ancora parola, di Andrea. Nei pressi della tana, la smorfia del riso corrosivo si trasforma nell’esperienza affettiva di un sorriso condiviso.
Attraverso il ricordo del trasformarsi del riso di Andrea in seduta, mi trovo – allora – a pensare se non sia giunto davvero il momento di stanare il senso e il valore che ha per me, oggi, la risata nel lavoro analitico. E ritrovo, così, le parole di Nina Coltart:
Vorrei parlare brevemente di un altro aspetto che spesso – questa è la mia impressione – è sentito come pericoloso in psicoanalisi, sebbene in modo diverso dall’incontro con l’odio omicida attraverso l’atto di fede. Mi riferisco alla risata. Difficilmente sentirete gli analisti parlare di quando ridono durante una seduta, e non troverete nemmeno scritti sul tema. Torno a Bion riportando un suo commento, anche se non lo ha sviluppato da nessuna parte quanto avrei desiderato che facesse. In uno dei seminari di San Paolo, Bion parla di come la psicoanalisi sia cambiata e si sia evoluta: si domanda addirittura se Freud capirebbe quello che alcuni di noi fanno oggi. Poi, in modo apparentemente casuale, prosegue dicendo:
“Mi chiedo se essere capaci di ridere di se stessi faccia parte delle regole della psicoanalisi. È in conformità con le regole della psicoanalisi che dovremmo divertirci e trovare buffe le cose? È ammissibile che ci si diverta in un convegno di psicoanalisi? Suggerisco che – dopo esserci aperti un varco in questa questione rivoluzionaria consistente nel divertirsi nel sacro processo della psicoanalisi – potremmo ben continuare per vedere dove potrebbe portarci quello stato mentale più gioioso”.
[…] Per dirlo in termini semplici, la risata e il divertimento possono essere fattori terapeutici in psicoanalisi. Sono fermamente convinta che non soltanto si possa, ma si debba godere delle sedute analitiche. Ho pensato di scrivere un saggio sulla risata in psicoanalisi, e forse qui mi sono avvicinata quanto più possibile a farlo. Credo di aver paura di deludere me stessa, e di non rendermi conto che quello che significa in realtà è che ho trascurato la tecnica, o che ho sviluppato un particolare tipo di difesa, o entrambe, o molte altre cose orribili; ma certamente con l’avanzare degli anni ho l’impressione che mi capiti di ridere più spesso (1)
Nina Coltart, e attraverso di lei Bion: non ci sono a mio avviso parole più chiare e intensamente rivoluzionarie, capaci di descrivere quello “stato mentale più gioioso” che, in modo spesso sconcertante abita anche me, nonostante questo tempo infinitamente difficile e dolente che stiamo attraversando, malato di pandemia e di guerra. Certo, non posso evitare di interrogarmi riguardo alla possibilità di star sviluppando, a mia volta, un qualche tipo di difesa… ma in fondo non lo credo davvero: sento che, così pensando, rischierei di flagellarmi inutilmente con il tentare una semplificazione di una faccenda invece complessa – l’umorismo, che affacciandosi nella relazione dialettica tra analista e paziente, chiede invece attenzione e merita riflessione. Spesso l’umorismo viene connotato negativamente: ironizzare viene equiparato a non prendere sul serio, a farsi beffe. Come scrive Giuseppe Pellizzari:
Un atteggiamento ironico viene considerato indice di poca serietà, di superficialità, di scarsa dedizione al dovere. E per questo motivo è guardato con molta diffidenza specialmente nelle società gerarchizzate, fondate sul principio di autorità, quali sono ad esempio l’esercito e la Chiesa e, aggiungerei, le varie associazioni di psicologi e psicoanalisti” (2).
Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, il terribile monaco dallo sguardo vuoto, Jorge da Burgos – che incarna un’idea dogmatica e cieca della conoscenza fondata sull’auctoritas religiosa e che per proteggere il secondo libro della Poetica di Aristotele arriva a provocare la morte di quanti avevano tentato di leggerlo – spiegherà a Guglielmo da Baskerville che, essendo il libro dedicato al riso e alla commedia
potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza […] Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui vero nome è timor di Dio (3).
Guglielmo è un uomo di fede, ma con spirito laico ironizza sulla fede dogmatica dei monaci: a volte, penso che anche gli analisti corrano il rischio di affondare in simili tenebre fideiste, ostinandosi a vivere questo mestiere come un rito sacro, da officiare con gesti sacerdotali e parole ispirate, invece di considerarlo e viverlo con curiosità e interesse per l’altro – lasciandosi contaminare dal suo dolore e cercando di capire come aiutarlo a scioglierne la pesantezza, ma comprendendo, anche, che bisogna fidarsi della piccola verità contenuta in ogni risata che talvolta risuona nella stanza d’analisi.
Perché l’ironia è un’arma potente di disvelamento: è innegabile, allora, che possa contenere una certa dose di cattiveria perturbante.
Ma se il riso ha tratti diabolici, è perché è umano. Come scrive, in modo mirabile, Milan Kundera ne Il libro del riso e dell’oblio:
Considerare il diavolo un Partigiano del Male e l’angelo un soldato del Bene significa accettare la demagogia degli angeli. La faccenda, in realtà, è più complessa. Gli angeli sono partigiani non del Bene, ma della creazione divina. Il diavolo, al contrario, è colui che nega al mondo divino un senso razionale […] E quando le cose sono private di colpo del loro senso presunto, del posto assegnato loro nel preteso ordine delle cose (un marxista formatosi a Mosca che crede negli oroscopi), provocano in noi il riso. All’origine, il riso appartiene dunque al diavolo. Vi è in esso qualcosa di malefico (le cose si rivelano diverse da come volevano far credere di essere), ma anche una parte di benefico sollievo (le cose sono più lievi di come apparivano, ci lasciano vivere più liberamente, smettono di opprimerci con la loro austera serietà). (4)
Il riso è critica, è decostruzione della realtà. Si diverte ad usare provocatoriamente “il vocabolario partigiano della parte avversa” (5). Eppure sappiamo che dietro l’apparente, esclusivo gusto corrosivo del distruggere, si affaccia il desiderio, o la speranza, di costruire meglio. Come ci hanno insegnato – e per fortuna continuano a farlo – giullari, cantastorie, musicisti. “La risata, il divertimento liberatorio consiste proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune […] anzi, è più vero […] o almeno, più credibile” (6).
Il riso attacca la follia mortifera del monaco cieco, portata in scena da Umberto Eco: attacca la paura, perché il clima di paura è – sempre – reazionario, in quanto si propone di conservare, inalterato, lo stato delle cose. La paura sta a rappresentare – in questo senso – la condizione che ostacola la mente del paziente nel suo desiderio di aprire la strada alla verità. E il sorriso e il riso assumono, in questa particolare accezione, un aspetto semantico di tipo affettivo e, insieme, trasgressivo e destruens, capace di produrre un cortocircuito tra ciò che appartiene al preteso ordine delle cose e la bellezza insita in quello che tanto normale e razionale non sembra. Generando così – attraverso la comprensione condivisa in seduta – un sentimento di libertà e di creatività, e traducendo il lavoro analitico in linguaggio poetico. Quanto il riso e il poetico siano vicini di casa, risulta evidente dal momento che la natura antisintattica e decostruttiva appartiene ad entrambi: come il linguaggio poetico racconta la realtà attraverso il ricorso alla metafora, per cui non esiste un’identica corrispondenza tra la forma letterale dell’enunciato e quel che si intende comunicare, schiudendo così il pensiero a nuove aperture di senso – così la comunicazione che suscita il sorriso, o il riso, opera a sua volta una sorta di manipolazione semantica, dichiarando qualcosa, ma in realtà volendo significare l’opposto (“Questo è un posto da fuori di testa!”). Stiamo parlando, dunque, dell’ambiguità creativa insita in queste particolari forme di comunicazione indiretta: l’umorismo del resto – ci ha insegnato Pirandello – nasce come “sentimento del contrario”. Qualcosa di sottile, spesso inafferrabile, che però va connotandosi per una sua natura intrinsecamente affettiva, diversa dall’ironia quando questa si fa sarcasmo: quest’ultimo è “una contraddizione puramente verbale, con connotazioni emotive limitate all’idea di un che di beffardo e mordace” (7). Il termine “sentimento” introduce infatti un significato nuovo: il riso a volte può sferzare, certo, ma porta sempre – anche in seduta – un vento caldo, che attraversa e spettina entrambi, paziente e analista. Producendo irriverenza, leggerezza e curiosità: l’inizio di un processo conoscitivo che individua nuovi possibili nessi e prospettive, perché si fonda su una sorta di compassione, da cui prende forma e si allarga un sorriso di comprensione.
Sia l’umorismo che il testo poetico generano quindi un particolare ponte metaforico che dall’individuale conduce all’universale, perché
la metafora non stabilisce un rapporto di causa-effetto: ‘Tu sei così perché da piccolo ti è successo questo’. Non è una spiegazione, che istituisce una legge causale. È l’assunzione di un punto di vista, magari sorprendente, dal quale guardare insieme ciò che avviene. È la scelta di un’inquadratura che cerchi di rendere visibile ciò che altrimenti risulterebbe invisibile. Per citare Paul Klee, ‘non ripete le cose visibili, ma rende visibile’. Lo scopo della metafora dunque non è spiegare, ma semplicemente rendere visibile (8).
In questo modo, quando l’umorismo si affaccia in seduta, si fa invenzione, che apre una delle possibili strade alla possibilità di pensare l’impensabile.
Nel lavoro analitico con i bambini accade spesso, in modo improvviso e quasi misterioso, di imbattersi in qualcosa che, fino ad un istante prima, risultava inimmaginabile. Si sorride e si ride spesso, lavorando con i bambini, tanto più sono piccoli. Molto meno, quando si ha a che fare con pazienti adolescenti, i quali – proprio a causa delle difficoltà connesse ai processi psichici di questo momento evolutivo, relativi alla sempre più citata e condivisa “seconda nascita” (Peter Blos) – hanno una pelle simbolica delicata e vulnerabile, che l’ironia potrebbe facilmente lacerare. L’adolescente si prende ferocemente sul serio, e in analisi vuole – e deve – essere preso sul serio: solo lo sperimentare a lungo un approccio insaturo e un ascolto valorizzante da parte del terapeuta, può sollevare il giovane paziente dalla minaccia narcisistica spietata e tirannica che spesso pende sul suo capo, consentendo l’accesso ad una spontaneità di pensiero finalmente libera. Ma, fino ad allora, poche risate… anche se, gradualmente, a volte anche queste arrivano. Passando – come sta accadendo ad Andrea – dal riso corrosivo, per approdare al riso condiviso.
Ma per tornare al riso del bambino, e a come questo appartenga alla seduta insieme a tutto un corredo di emozioni condivise tra bambino e terapeuta – lo spavento, il raccapriccio, la rabbia scatenata, la confusione, la tenerezza, la seduzione … – vorrei prendere spunto dalla riflessione di Franco Fornari, quando scrive:
Nella genealogia dei linguaggi, il riso è un sintomo che precede il simbolo. Virgilio stesso vedeva nel sorriso del parvus puer un sintomo del riconoscimento della madre, che quindi riconosce se stessa nel sorriso del bambino. In questo senso, il sorriso è adiacente al regno profondo delle madri. Forse non è senza significato che il fiorire dei motti di spirito nasca nell’area della convivialità tra amici. Gli amici si sorridono nell’incontrarsi, e i cinesi quando si incontrano si dicono: ‘Hai mangiato?’ dove noi diciamo: ‘Come stai?’. Si può quindi pensare che il motto di spirito impegni il linguaggio ad appropriarsi, celebrandolo, di qualcosa che lo precede e che lo genera: l’affetto (9).
Adele è una bimba di 18 mesi: mi hanno contattato i due giovani genitori perché resi disperati dall’assoluta determinazione della loro bambina di rifiutare qualsiasi minima separazione, in particolare dalla mamma. Adele vive praticamente in braccio all’una o all’altro, e la notte non dorme se non incollata ai genitori. Rifacendomi al modello della consultazione partecipata (pratica clinica teorizzata e messa a punto da Dina Vallino, come estensione della Infant Observation), propongo alla famiglia una serie di incontri e, nel corso della seduta in cui vedo la bambina insieme alla coppia, i due genitori si mostrano disponibili, ma anche – comprensibilmente – ansiosi: evidentemente preoccupati che io possa rilevare un disturbo, una qualche forma di disfunzionamento della mente della loro bambina. Imperturbabile, Adele per i primi dieci minuti rimane tenacemente in braccio al papà, prendendo però con curiosità in mano i giocattolini che lui le porge. Ma lo sguardo di Adele, ad ogni poco, torna ad immergersi nel volto della mamma. Il sorriso della mamma è tenero, la bambina a sua volta le sorride quietamente: ma a me arriva anche la sensazione di una sorta di “incantesimo” che incatena entrambe, non lasciando libera l’esplorazione della bambina nella stanza e tra i giochi. Mi siedo sul pavimento e, raccontando, metto in scena una piccola vicenda in cui i pupazzi che rappresentano i membri della famiglia vanno a dormire nei diversi lettini della casa delle bambole. Improvvisamente, Adele si divincola dall’abbraccio del papà, scende a terra e – rapidissima – sposta tutti i pupazzi, sistemandoli nel letto matrimoniale. Con foga, afferra anche mucche, dinosauri, tigri e galline, cercando di ammucchiare tutti nel lettone. Ogni gesto è accompagnato da piccoli versi gutturali e da occhiate che mi lancia, con aria furba. Provo a “doppiare” i suoi pensieri: “Non provarci, sai, Giovanna! Qui si sta tutti insieme e non ci si lascia mai!”. Adele mi guarda con fermezza, poi le si apre un improvviso sorriso sul volto e scuote la testa con vigore, in segno di assenso. Un sorriso bambino, che non ha nulla di quieto e tenero: qualcosa di malefico ma che – risulta evidente dal comportamento di Adele – produce, insieme, sollievo. “Le cose si rivelano più lievi di come appaiono, ci lasciano vivere più liberamente, smettono di opprimerci con la loro austera severità”. (M. Kundera). I due giovani genitori scoppiano, a loro volta, a ridere: un misto di meraviglia e fierezza, di fronte al dispiegarsi dell’innegabile intelligenza della loro bambina che gioca.
Dal gruppo di pupazzi ammonticchiati sul letto, scivola giù a più riprese la tigre, e cade a terra. Guardo Adele e dico: “Sono una tigre, e non ci posso proprio stare nel lettone troppo pieno! Ho bisogno di uno spazio tutto per me, per crescere e per imparare ad andare in giro per il mondo …”. Sistemo con delicatezza la piccola tigre in un lettino: Adele mi guarda, a sua volta, con grande attenzione; quindi prende un pentolino, viene verso di me, me lo consegna e con un cucchiaio di plastica cominciamo a dare una pappa immaginaria all’animale. Per l’intera sequenza, Adele la Tigre non ha mai rivolto lo sguardo alla mamma.
Nel corso della consultazione, la situazione a casa ha iniziato a migliorare rapidamente: Adele si addormenta sempre più spesso nel suo lettino, e i risvegli notturni si vanno diradando. Nessun miracolo, “semplicemente” si è reso possibile un movimento di pensiero che l’isolamento aveva reso difficile: una gravidanza vissuta in lockdown, e i successivi, primi mesi di vita, condotti in una strettissima convivenza con una mamma sempre presente, anche troppo disponibile, e un papà confinato a sua volta in casa, in smart-working. Adele è uno dei tanti bambini nati e cresciuti in epoca-virus, per i quali il rispecchiamento nello sguardo della madre è rimasto esclusivo ed è durato anche troppo a lungo: una condizione di claustrum nutrito dall’incertezza e dalla paura, dove il regno profondo delle madri ha lasciato poco spazio al divertimento liberatorio della risata.
Deve giungere, infatti, il momento in cui il sorriso cessa di essere solo sintomo di riconoscimento della madre, generato dal rispecchiamento e dall’affetto, per assumere una funzione altra rispetto al reale. Quando, cioè, il linguaggio viene svuotato della sua relazione d’identità con la cosa narrata, e si esprime attraverso la metafora.
Al riso come sintomo, subentra allora il riso come simbolo.
Ci troviamo, così, di fronte a due tipi di linguaggio poetico:
– il linguaggio del pulsionale, che corrisponde alla fase simbiotica del bambino con il corpo materno: un linguaggio materico e ritmico, fatto di scambi di sorrisi, lallazioni, allitterazioni, giochi di parole – un linguaggio “musicale” che molto ha a che fare con i suoni ineffabili che caratterizzano il poetico;
– il linguaggio che ha incontrato e conosciuto l’interdizione della posizione edipica, e da questa non potrà più prescindere: un linguaggio che inevitabilmente deve farsi anche scontro, e dove la comunicazione che suscita il riso sta a rappresentare altro, o addirittura il contrario, rispetto al contenuto manifesto. Qui, regna la poesia scaturita dalla necessaria violazione della regola paterna, della trasgressione della legge: la comunicazione si fa allora meno musicale e più concettuale, animata da uno spirito tendenzioso, e la relazione di alterità passa in primo piano, sostituendo la relazione di identità. Perché “È quasi impossibile portare la fiaccola della verità in mezzo alla folla, senza bruciacchiare la barba a qualcuno” (Georg Christoph Lichtenberg). Anche questo è linguaggio poetico.
Crescere – lasciare l’infanzia e attraversare l’adolescenza – richiede la fatica di ricordare che si può continuare a sorridere con meraviglia imparando, nello stesso tempo, a ridere – con ironia e affetto – del mondo e di se stessi. Con l’umorismo perturbante, inquieto e consapevole di chi guardando l’altro guarda se stesso, e vede che il re è – come sempre – nudo.
Ma questa è la matrice umana e commovente del riso.
Ricordo una piccola favola – in realtà una verità storica – raccontata da Dario Fo. Si narra che, in un tempo lontano, ogni bambino appena nato e accolto in famiglia – in un mondo per lui totalmente nuovo, misterioso, non facile da comprendere – veniva circondato non solo da cure e attenzioni, ma anche da capriole, smorfie e sberleffi: lo scopo era quello di determinare in lui una reazione – una risata. Il bambino, di fronte a questo spettacolo di giullari e saltimbanchi, ad un tratto capiva che
c’era qualcosa: ironia, umorismo? … di sicuro c’era invenzione. E il piccolo rideva, finalmente, a sua volta. In quel momento, allora, tutta la famiglia applaudiva. E tutti insieme dicevano: ‘Il bambino è diventato uomo!’. Perché l’essere umano ha valore nel momento in cui riesce a ridere: cioè acquisisce la capacità di intendere l’assurdo, il paradosso, lo scherzo, il gioco, la fantasia. (10)
Senza il sorriso, senza la risata, non c’è umanità, ma l’orrore ottuso del campo di concentramento. Ritroviamo allora, ancora per un istante, le parole del Giullare:
Il riso è sacro. Quando un bambino fa la prima risata è una festa. Mio padre, prima dell’arrivo del nazismo, aveva capito che buttava male: perché, spiegava, quando un popolo non sa più ridere diventa pericoloso. (11)
Ma anche di fronte alla realtà del campo di concentramento – quando la vita di un popolo è oppressa da un regime totalitario, o quando la vita del singolo è perseguitata dalla tirannide del dolore mentale – il riso è una possibile risposta poetica, che consente la ripresa del pensiero e della vita: contro il collasso e la morte di tutto ciò che vi è di prezioso, di umano.
Dio disse: “Troverete la felicità in ogni angolo della terra.”
Poi fece il mondo tondo.
E rise, rise tanto. (12)
Note
1) N. Coltart (1992), Pensare l’impensabile, Cortina, Milano, 2017, pp. 10,11.
2) G. Pellizzari, L’apprendista terapeuta, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 158.
3) U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980, p. 546.
4) M. Kundera (1978), Il libro del riso e dell’oblio, Adelphi, Milano,1998, pp. 69-70.
5) H. Lausberg (1949), Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna, 1969, p. 232.
6) D. Fo (1977), Dario Fo parla di Dario Fo, I Lerici, Cosenza.
7) L. Pirandello (1920), L’umorismo, in Saggi, poesie, scritti vari, Mondadori, Milano, 1960, p. 24.
8) G. Pellizzari (2002), op. cit., p. 145.
9) Fornari F., La comunicazione spiritosa, Sansoni, Firenze, 1982, p. 4.
10) D. Fo, Interviste da Alcatraz Channel, 2015.
11) D. Fo, Interviste da la Repubblica, 2006.
12) Anonimo, Facebook.
*articolo già pubblicato sulla Rivista di psicologia analitica, n.54,volume 106/2023