Riflessioni su “Il bazar degli abbracci” di Sonia Abadi
Recensione di Ivano Calaon – Psicoterapeuta, socio CSTCS
Abstract: Nel libro “Il bazar degli abbracci” l’autrice, una psicanalista, dipinge una serie di scene che raccontano l’esperienza del ballare il tango. Non si tratta di un testo solo per ballerini di tango o psicanalisti ma di una cronaca appassionata di questo ballo. A partire dalle suggestioni offerte si passa a discutere di se e come il tango e in generale le attività creative ed espressive possano essere terapeutiche
Il tango: l’arte dell’improvvisazione in coppia
Come passa il tempo libero uno psicoterapeuta? Se si tratta di una persona di Buenos Aires ci sono buone probabilità che balli tango. Se poi decide di dare anche una forma scritta a questa esperienza ne può nascere un piccolo gioiello come “Il bazar degli abbracci” di Sonia Abadi.
Non si tratta di un’indagine psicanalitica sul senso o sui significati inconsci del tango. Fin dalle prime pagine si è anzi grati all’autrice perché non usa il bisturi teorico per sezionare la vitalità del ballo. Con eleganza e ironia si viene invece accompagnati dentro la Milonga: la sensazione è quella di stare seduti a un tavolo di un locale argentino in sua compagnia e vedere intrecciarsi vicende e passioni di chi balla. Il libro è composto di brevi capitoli, intitolati come brani o versi di tango: un’esperienza piacevole è leggerli ascoltando il pezzo musicale indicato in nota, facilmente reperibile su internet.
Una famosa definizione del tango è quello di Discepolo: un pensiero triste che si balla. Le melodie del tango sono effettivamente piene di malinconia e nostalgia perché raccontano di un paese senza storia, creato dall’immigrazione. Ma c’è anche molto altro:
“Se ballare è un piacere del corpo e dello spirito, cullati dalla musica, ballare abbracciati aggiunge la sensualità. Ma ballare il tango è anche una questione di abilità, di gioco, è l’arte di improvvisare in due”.(Tango droga, tango passione, p.17)
L’improvvisazione a due è il cuore del tango. A differenza della maggior parte delle danze da sala o della danza classica non esiste una coreografia fissa o delle figure da eseguire in un ordine dato, se non a fini didattici. Il tango è come il jazz, un linguaggio da acquisire pian piano nel corso degli anni, in cui si imparano alcune parole, poi qualche frase e con il tempo e la pratica diventa possibile un dialogo che sarà ogni volta diverso. Improvvisare, nel tango e nel jazz, non significa fare le cose a caso o in maniera raffazzonata, significa aprire possibilità ad ogni passo: in base al livello tecnico, al talento, all’umore è infatti possibile offrire un ventaglio di interpretazioni diverse della stessa situazione. Come accade quando si conversa senza un argomento preciso, non è noto a priori cosa si dirà e quando, ma condividendo una lingua si sa che sarà possibile intendersi o almeno c’è la possibilità che ciò accada. Quanto all’interesse della conversazione è ovvio che può essere molto variabile:
“Ci sono ballerini sobri, dal testo breve e conciso, spoglio e austero. Soltanto il sentimento, l’intensità dell’abbraccio e la raffinatezza dell’interpretazione del ritmo li riscattano dalla monotonia. Altri sorprendono per la destrezza del loro fraseggio. Altri ancora, sono così “addobbati” da risultare stucchevoli. Per non parlare dei più inesperti, che ballano a memoria il loro monologo, non sanno marcar e quando la donna non riesce a seguirli, le chiedono con aria saccente “Questo non lo conoscevi, vero?”. La poesia delle donne merita un capitolo a parte. Si suppone che si lascino guidare. Anche se qualcuna oppone resistenza, non si sa se per ricatto o per un impeto di femminismo importuno. Altre volte vanno “a rimorchio” con una passività che, più che abbandono, parrebbe rassegnazione. Poi ci sono le donne che, senza lasciarsi sfuggire il dialogo, imprimono al ballo la loro energia personale, aggiungendo un adorno di tanto in tanto, giocando raffinatamente con le distanze e i gesti. Dedicano al pavimento complici carezze che non hanno il coraggio di offrire al compagno. A lui spetta il compito di decifrare il messaggio”. (Poeti della mattonella e del parquet, p. 23)
Il gioco dell’improvvisazione
L’improvvisazione è gioco, è un’esperienza che coinvolge profondamente e completamente. I bambini quando giocano davvero sono seri e concentrati e mettono tutti se stessi in ciò che stanno facendo. Chi balla tango non è serio perché sta facendo pensieri tristi, ma perché è preso dal gioco del mantenere l’abbraccio con l’altro in mezzo alle possibilità che nascono a ogni passo, agli spazi che continuamente si aprono e si chiudono sulla pista. Ed è un’esperienza che rivela se stessi e l’altro: la tensione dei muscoli, l’odore, il sudore, il modo di muoversi e stare fermi, il modo di gestire la vicinanza e la distanza sono qualcosa su cui non si può mentire e che rendono il tango “pericoloso” nel senso etimologico di prova, esperimento, saggio. Il tango è qualcosa che mette alla prova ciò che siamo e come lo siamo. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con l’italianissima arte di arrangiarsi e che di nuovo affonda le sue radici nella cultura argentina:
“Il porteño è un esperto dell’improvvisazione, è esperto nell’improvvisare come tirare a fine del mese, come attraversare la strada senza un semaforo, come affrontare i mille problemi quotidiani nei quali l’unica certezza è l’incertezza. Nella vita come nel tango, il suo lemma sembra essere: “Io ci provo in un modo o nell’altro ce la farò!” Così l’arte antica del payador, l’arte rinnovata del milonguero e l’arte di vivere giorno per giorno in Argentina hanno qualcosa in comune: il talento sublime dell’improvvisazione”(Poeti della mattonella e del parquet, p. 23)
Nell’abbraccio dell’ invidia
Dunque il tango vive di improvvisazione, un’improvvisazione che però avviene sempre alla presenza, anzi nell’abbraccio dell’altro o dell’altra, e quindi Il tango è anche, e soprattutto, la magia dell’abbraccio. Non solo perché si balla abbracciati, ma perché mantenere la frontalità e la rotondità dell’abbraccio anche nei passaggi più complessi e nella apparente confusione della milonga è ciò che rende appassionante il ballo, nonché una delle sfide più complesse per i principianti. Passiamo i primi anni della nostra vita in braccio a qualcuno, per lo più nostra madre o qualcuno che ha un ruolo analogo, ed è attraverso quelle braccia che maturiamo il senso di esistere, di avere una continuità nel tempo e nello spazio, di non essere persi in un caos doloroso e inspiegabile e che scopriamo, ma non sempre e non tutti, la possibilità della tenerezza, della fiducia, dell’abbandono. Nonché il terrore di non essere presi, la paura di essere lasciati cadere o di venire stritolati. L’abbraccio nel tango è una forma di contenimento reciproco, è affidare all’altro la paura e il desiderio di entrare in relazione e provare a vedere cosa ne fa, come e se saprà giocarci, trasformarlo e restituircelo in una forma che sicuramente non avremmo mai immaginato da soli. Con tutti i rischi del caso.
Per questo il tango è passione, perché evoca esperienze antiche e viscerali, quei momenti in cui essere abbracciati a qualcuno era questione di vita e di morte, perché si può morire per mancanza di abbracci ma anche per abbracci troppo stretti e soffocanti. Passione è una parola ambigua, significa coinvolgimento emotivo, entusiasmo ma anche sofferenza e pena (la passione di Cristo) e questo ci ricorda che tutte le relazioni profonde e significativa sono segnate dall’ambivalenza, che è impossibile vivere una passione autentica senza confrontarsi con il negativo, con la distruttività nostra e altrui. E il profondo affetto che lega un bambino alla madre nell’abbraccio porta con sé anche una profonda invidia e distruttività, che non può non emergere in un luogo in cui si pratica l’arte dell’improvvisazione abbracciata:
“L’invidia, come un filo invisibile, si insidia tra i ballerini in pista e tra i tavoli. È il peccato capitale dal quale nessuno si salva. Chi sta in fondo, invidia quelli che si trovano in prima fila. Chi è in coppia, invidia i non accompagnati e chi è solo, invidia le coppie. I giovani invidiano l’esperienza e i vecchi l’entusiasmo. Chi comincia a lavorare presto al mattino invidia quelli che possono fermarsi fino a notte inoltrata, i disoccupati invidiano chi ha un lavoro. Gli stranieri invidiano la gente di Buenos Aires e i porteños quelli che vengono a rubare le ragazze, oppure i milongueros…in fin dei conti, nella Milonga tutti aspirano a trasformarsi da invidiosi a invidiati. A parte qualche incurabile, che scruta con rancore l’erba del vicino “accigliato, come se spiasse”. Ma c’è anche chi finisce per capire che l’invidia, l’invidia sana, rappresenta il primo passo verso la conoscenza. E l’accetta”. (E mi vogliono fregare per invidia o per rancore, p. 51-52)”
Invidiare significa che tu hai qualcosa che io desidero ma non ho e pur di non affrontare il dolore che questo comporta, pur di non dover riconoscere di essere altro da come vorrei, faccio di tutto, almeno nella mia fantasia, per rubartelo e distruggerlo, perché è intollerabile che tu abbia o sia più di me. Qualsiasi genitore ha sperimentato la ferocia e la disperazione del proprio figlio che si rifiuta di mangiare, un gesto con cui fin dalla più tenera età diciamo “Io non ho bisogno di nessuno” nel preciso istante in cui il bisogno dell’altro è massimo. Se si riesce però a vivere e affrontare queste situazioni il premio è la possibilità di conoscere, il mondo non è più opaco ma diventa trasparente. Significa intuire cosa è mio e cosa è tuo, chi può fare cosa, dove stanno i nostri limiti e possibilità. E allora diventa possibile giocare il gioco dell’improvvisazione, del lasciarsi andare sentendo che c’è qualcuno su cui contare, e anche la morte fa un po’ meno paura, come racconta Branduardi nella “Ballata in Fa #-“
Sei l’ospite d’onore del ballo che per te suoniamo,
posa la falce e danza tondo a tondo:
il giro di una danza e poi un altro ancora
e tu del tempo non sei più signora
Non è il caso di fare tanti complimenti…
Un buon ballerino o ballerina di tango parla poco, come un buon terapeuta del resto. L’attenzione è libera e fluttuante ed è rivolta soprattutto a sentire in che posizione si trova l’altro , dove è il proprio equilibrio e quello dell’altro, dove sono i rispettivi baricentri, quali passi si possono fare o non fare in un dato momento. Del resto la comunicazione che passa attraverso i gesti è talmente ricca che le parole sarebbero un inutile appesantimento. Viene però il momento in cui si può dire qualcosa, ma proprio come l’intervento di un terapeuta, anche quella del complimento è un arte raffinata:
“La milonga senza seduzione verbale non è milonga. Il complimento, la breve conversazione sussurrata, sono armi di conquista, aspetti dell’erotismo orale che accompagna da sempre il ballo. Due parole bisbigliate mentre ci si abbraccia, una frase ben studiata tra un tango e l’altro oppure una breve, proprio alla fine della tanda, rappresentano la dose perfetta. Tempi strettissimi che richiedono grande abilità dialettica e capacità di sintesi. “Fare complimenti” è un’arte che presuppone il talento di saper cogliere un aspetto prezioso o attraente dell’altro e sottolinearlo, portarlo in primo piano, incorniciarlo con parole adeguate. Apprezzare la qualità che è inevitabile notare. Anche se è molto più raffinato scoprire il fascino segreto, il dettaglio che pochi sono in grado di apprezzare ma del quale il “titolare”, si sente segretamente orgoglioso. Elogiare l’intelligenza, la sensibilità o la timidezza di una donna bella, per esempio. O la tenerezza di un duro, questi sono gli aspetti più squisiti di un complimento. A volte, con un pizzico di fortuna, di intuito o abilità, si può riuscire a pronunciare esattamente ciò che l’altro desiderava ascoltare da sempre, ma nessuno gli aveva mai detto prima. Parole che ammantano l’anima di chi le riceve e al tempo stesso la denudano. Parole che accarezzano , che regalano la magica sensazione di sentirsi compresi, scoperti, valorizzati”. (Dimmelo nell’orecchio, p. 72)
Il bazar degli abbracci è un bel titolo perché rende l’idea di che tipo di luogo sia una milonga. I bazar sono affollati, pieni di gente, colori, grida e rumori. Stordiscono e intrigano, in genere il modo migliore per conoscerli è perdersi, vagabondare per vicoli e portici senza fretta. Le botteghe si susseguono una dietro l’altra e ci vuole un po’ di occhio per distinguere le cose di valore dalle fregature. E poi bisogna saper contrattare cioè costruire in maniera condivisa il valore dell’oggetto a cui si è interessati. Gli abbracci che ci si scambia in milonga, e verrebbe da dire anche nella vita, non hanno tutti lo stesso valore e lo stesso significato e in fondo saper ballare il tango non è molto diverso dal sapersi muovere in un suk affollato e vociante: occorre la stessa misurata eccessività.
Il bazar delle psicoterapie
Ma anche quello delle terapie è davvero un bazar, anzi un gran bazar nel quale gli stessi addetti ai lavori a volte fanno fatica a raccapezzarsi. Il parallelo tra tango e psicoterapia è intrigante, oltre all’improvvisazione, all’abbraccio, al ruolo dell’invidia saltano subito all’occhio il tema dell’intimità con uno sconosciuto/a, la milonga come setting, la coppia paziente-terapeuta come coppia di ballerini, il problema di chi conduce e chi viene condotto e molti altri. E ci si potrebbe anche chiedere se il tango stesso non sia una forma di terapia. Tanto più che esistono forme di danzaterapia, musicoterapia, arteterapia o terapia con animali relativamente utilizzate nel campo educativo o socio-assistenziale e basta guardarsi un po’ intorno per vedere come qualsiasi tipo di attività espressiva, creativa o sportiva possa essere detta “terapia”. Sicuramente fantasia e varietà non si lesinano nel bazar delle terapie, almeno a livello del marketing. Inoltre una domanda che i pazienti spesso si fanno e fanno ai loro terapeuti è “Ma tutti questi soldi e tempo che spendo qui a parlare dei miei problemi, non potrei utilizzarli per fare qualcosa di più divertente tipo un corso di tango? (o un viaggio, shopping, ecc.)”. Del resto se il tango mette in moto dinamiche profonde che permettono di conoscersi e di conoscere meglio l’altro, perché soffrire anni e anni su un lettino? Si può arrivare agli stessi risultati spendendo meno e divertendosi di più. E accade infatti che a volte i pazienti abbandonino o sospendano la terapia con queste motivazioni ufficiali (su quelle ufficiose molto si potrebbe dire ma non è questa la sede).
Una prima considerazione che si può fare è che attività espressive e/o ricreative e terapia non sono necessariamente in opposizione, possono convivere tranquillamente. Fare un percorso di psicoterapia non significa entrare in una clausura priva di contatti con il sociale e con la possibilità di coltivare passioni, anzi uno delle finalità tipiche è proprio quello di riuscire a vivere in maniera più creativa e flessibile quegli ambiti che da sempre procurano fatica e frustrazione, e magari scoprirne di nuovi. Può essere utile usare la differenza che Gasca fa tra terapie espressive e terapie trasformative. Un buon esempio di terapia espressiva è lo psicodramma moreniano classico oppure certe forme di terapia gestaltiche soprattutto degli anni ’60 e ’70 che vedevano nell’espressione emotiva un qualcosa di buono di per sé. A ben guardare anche il primo Freud, prima di sviluppare la pratica e la teoria psicanalitica, era convinto fosse possibile guarire l’isteria attraverso la “scarica” di un trauma inconscio rimosso (un aggressione sessuale subita nell’infanzia). Basta imparare a “sputare il rospo” e si sta già meglio. E’ un punto di vista ben espresso, ad esempio, dal cantautore De Andrè, quando diceva che in diverse occasioni la composizione di una canzone gli ha evitato di doversi sdraiare sul lettino di un terapeuta. Intuitivamente l’idea è affascinante ma un po’ semplicista. Prima di tutto perché ci sono molte patologie in cui l’unica cosa che non bisogna fare è facilitare l’espressione: una persona narcisista ed esibizionista non ha certo il problema, almeno rispetto alla maschera sociale di cui si serve, di esprimersi. Per non parlare dei deliri paranoici. Inoltre, seguendo questa linea di pensiero, nel mondo dell’arte dovremmo incontrare una folla di persone dall’ invidiabile equilibrio emotivo, dato che un artista passa la vita a dare forma originale alle emozioni. Senza arrivare a scomodare il binomio “genio- follia” non è invece difficile trovare esempi di artisti di successo profondamente segnati dalla sofferenza psichica: Vittorio Gassman ha attraversato ripetuti e dolorosi episodi depressivi nell’arco della sua lunga e luminosa carriera, la poetessa Alda Merini ha certamente avuto nel talento letterario una risorsa preziosa che tuttavia non l’ha risparmiata dall’inferno della psicosi e del manicomio. Per non parlare del chitarrista Jimi Hendrix o del leader dei Nirvana Kurt Cubain, morti suicidi in giovane età e all’apice del successo. Insomma, se “tenersi tutto dentro” sicuramente non fa bene, il problema è anche e forse soprattutto la qualità della propria esperienza interiore e relazionale. Le cosiddette “terapie del profondo” o trasformative, cercano in qualche modo di modificare i processi mentali di base che danno forma alle emozioni, al modo di vivere il proprio corpo e il rapporto con gli altri. Non si tratta di andare soltanto a tirare fuori quello che non va, di dire, cantare, disegnare o danzare il proprio dolore, ma soprattutto di imparare a vedere in profondità il modo in cui viviamo e come continuiamo a stare dentro a ciò che ci rende infelici, vuoti o divora tutte le nostre energie e creatività. Per poi farsene carico e provare ad esplorare modalità alternative. Occorre inoltre mettere a fuoco il fatto che i lavori creativi sono prestazioni che richiedono elevati livelli di efficienza e di equilibrio: un eccesso di controllo ossessivo sicuramente blocca la creatività ma quando la sofferenze psichica è alta qualsiasi creazione è impossibile . Tabbia, un simpatico psicanalista barcellonese, sostiene che Van Gogh abbia dipinto “I girasoli” con la sua parte meno malata, non con la sua parte folle. Quando il pittore olandese si è tagliato un orecchio dopo un litigio con l’amico-rivale Gauguin non ha realizzato un gesto artistico, bensì un atto autodistruttivo, sintomo di un dolore incontrollabile.
Restando nel mondo della danza, una terapia espressiva può essere vista come l’attività di un fotografo che racconta la vita di una compagnia di ballo, rende visibili punti di vista inattesi su spettacoli, prove, momenti di vita quotidiana. Un qualcosa di interessante che permette di vedersi come non sarebbe stato possibile altrimenti e può arricchire con importanti consapevolezze. Mentre una terapia trasformativa è forse più simile a un lavoro da coreografi, a un entrare nei luoghi e nei momenti in cui prende forma la rappresentazione che la compagnia di ballo dà di se stessa. Un lavoro lungo e paziente in cui non si tratta tanto di insegnare nuovi passi o tecniche di danza ma piuttosto di sviluppare la capacità di creare i propri passi e le proprie coreografie.
E allora può anche accadere che un paziente, da sempre molto intellettuale, un giorno incontri una milonga improvvisata nel centro della propria città. Per anni ha guardato con sufficienza il mondo del ballo, ha fatto da da tappezzeria alle feste con la musica, e quando provava a buttarsi in pista si sentiva comunque uno strano incrocio tra un orso e un palo della luce. Ma quel giorno rimane affascinato e decide di iscriversi a un corso di tango. Riuscendo, dopo qualche tempo, addirittura a divertirsi.