15 luglio 2019

Nadia Terranova, “Addio fantasmi”

Recensione di Isabella Donato, psicoterapeuta SPC

Ida torna nella casa natale, la casa che sua madre chiama “nostra” ma che lei non considera più sua: “negli anni ne avevo ripulito la memoria con accurata violenza”. L’attende un compito apparentemente semplice. Scegliere le cose da conservare e quelle da buttare: “ bisognava che tornassi per scegliere cosa lasciare andare”. Lascia la sua vita adulta in un altra città; prima di partire sogna di annegare.

 

Il rientro a casa è un tuffo in un passato traumatico che ha fermato il tempo: ogni oggetto, ogni crepa sul muro, ogni traccia di umidità richiamano ricordi che erompono come se ci si trovasse “dentro il passato che non è mai passato”.

Nei cassetti c’era ancora la mia vecchia biancheria, tirai fuori una maglietta e chiusi gli occhi per non sentire l’adunata di tutte le cose

Ida sa che deve fare i conti con tutto ciò e una parte di lei è proprio lì per questo; sa di essere cristallizzata, sospesa in una dimensione di isolamento emotivo, unico rimedio ad un dolore tenacemente negato su preciso mandato materno;

Dice l’autrice “ Ida è in dialogo con la luce che la ferisce e con il buio che va a cercare.
Il protagonista è il vuoto, l’assenza; i dialoghi con la madre sono impiegati a togliere.
Il silenzio è il loro dizionario. È un silenzio parlante. Usano delle parole, ma sono parole vuote: parlano dei coprisedie, della frittata, del motorino. Di cose concrete, sì, ma la cosa più concreta che avevano, il corpo di un’altra persona, si è smaterializzata. Io credo che nelle famiglie ci sia spesso, quando c’è una tragedia, un lutto, una lacerazione, un abbandono, una grammatica che si costruisce attorno a ciò che non si dice. Dentro le famiglie vedo più quello che non si dicono piuttosto che quello che si dicono. Quando viviamo nell’intimità con qualcuno costruiamo il rapporto anche su quello che non ci diciamo, su quello che è meglio non dire”.

Nella descrizione di Melanie Klein tutti gli eventi, nei fantasmi, sono avvertiti come causati da oggetti buoni oppure da oggetti cattivi, a seconda della natura dell’evento. Si può pensare, allora, che l’esperienza interna di un evento traumatico corrisponde all’esperienza di essere abbandonato da oggetti interni buoni e amorevoli che proteggono le contengono, e di essere lasciati alla mercé di oggetti odiosi e malevoli che sono percepiti come cause del trauma. Questo è soprattutto vero quando un disastro esterno si verifica realmente, poiché è in tali esperienze estreme, qual è la morte di qualcuno e/o la possibilità di morire noi stessi, che maggiormente ci si aspetta di venire protetti dai propri oggetti buoni .
(Comprendere il trauma, un approccio psicoanalitico. TSC Tavistock Studi Clinici p 69)

Ida si attende un lavoro di recupero, finalmente condiviso, di oggetti e ricordi per poter far scorrere di nuovo il tempo, ma si trova nuovamente sola; la solitudine emotiva in cui la lascia la madre è tuttavia diventata anche una sua modalità di vivere che comincia a vedere non più come unico modo possibile di stare al mondo, ma come una gabbia asfissiante.

Continua l’autrice :”Ida è impegnata in una feroce lotta con il mondo per tenerlo alla larga dal proprio dolore. Un dolore che difende perché vuole viverlo alla sua maniera. In realtà, però, non tiene fuori Pietro, il marito, la loro unione si fonda spontaneamente su quel cancello chiuso. Proprio poiché lui non appartiene a quel trauma, è stato scelto. Lui è l’alternativa, l’unico domani possibile, l’unica persona di cui si sia fidata e che non aveva niente a che fare con la sua infanzia. Il fatto di non dovergli rendere conto di questa faccenda le concede una sorta di libertà binaria: da un lato può essere chi vuole all’interno del suo matrimonio, dall’altro può avere un rapporto con il passato che è solo suo. Senza interferenze.

E’ una narrazione asciutta, lucida e spietata, noi siamo lì con lei, tredicenne costretta a responsabilità adulte, a formulare domande senza risposta, a cercare il senso del dolore ma siamo anche con la donna adulta che cerca di mollare la presa, che affronta la sua storia ed è capace di sviluppare uno sguardo altro, sguardo in grado di connettersi al proprio dolore e a quello degli altri. Non emerge dal dolore, lo attraversa.

Scrive Thomas Ogden :”Una delle motivazioni principali, se non la motivazione principale, per un individuo che non ha sperimentato parti importanti di ciò che è accaduto nella sua vita precoce, è rivendicare quelle parti perdute di se stesso per sentirsi infine completo, comprendendo dentro di sé il più possibile la sua vita non vissuta (non sperimentata). Per me questo è un bisogno universale il bisogno di ogni persona di rivendicare o asserire per la prima volta e, ciò che di sé è andato perduto; nel fare questo realizza l’opportunità di diventare la persona che ha ancora la potenzialità di essere. Facciamo questo a discapito del fatto che il tentativo di realizzare quel potenziale di diventare più pienamente se stessi implica l’esperienza di quel dolore che era stato impossibile tollerare durante l’infanzia e la fanciullezza, e che ha portato alla perdita di importanti aspetti del sé.
…Abbiamo tutti le nostre particolari aree di esperienza che non siamo stati in grado di vivere, e viviamo alla ricerca di queste esperienze perdute, queste parti perdute di noi stessi.
(Vite non vissute p. 63)