Han Kang, “La vegetariana”
Recensione di Isabella Donato, psicoterapeuta SPC
E’ la narrazione di un processo di dissoluzione in tre atti:
Tutto ha inizio con un sogno; Yeong-hye, la protagonista fa un sogno con carne,sangue, ancora carne e ancora sangue, dappertutto; da allora rifiuta la carne, non la mangia non la tocca esclude progressivamente ogni contatto “carnale”. E’ una deriva incessante e radicale, una ribellione per sottrazione, negazione, annullamento di sè.
E’ sempre un occhio esterno che la descrive, non ha mai voce Yeong-hye: la vediamo attraverso la descrizione del marito prima, del cognato e della sorella poi.
Lo sguardo del marito è sconcertato prima, furibondo e rifiutante poi; Da figura di sfondo, da donna incolore, remissiva, servizievole, rifugio sicuro per la propria mediocrità, la moglie diventa un elemento disturbante. La sua scelta è vista come un atto ostile, un gesto di ribellione all’ordine familiare, alle consuetudini sociali. Più lei si sottrae, più l’ambiente circostante diventa rabbioso, cinico, e violento;
“non basta più smettere di mangiare carne…i sogni non si fermano..”
Lo sguardo del cognato, artista visionario, è invece erotizzato. Il corpo scarnificato, la sua assenza di vitalità e desiderio è orripilante ed eccitante allo stesso tempo. E’ un’attrazione mortifera, una fascinazione del vuoto, dell’annullamento, simbolizzata attraverso la trasfigurazione vegetale in cui trasforma, dipingendolo, il corpo della cognata;
“I sogni smetteranno, adesso?”
Si spalanca l’abisso: ciò che è simbolico per l’uomo è aspirazione concreta per Yeong-hye: la trasformazione vegetale come estremo rifiuto della carnalità e della violenza, vagheggiata come come condizione per annullare la sofferenza.
Lo sguardo della sorella, infine, esprime la desolazione di chi viene lasciata sola, abbandonata.
Guarda, sorella, sto facendo la verticale; sul mio corpo crescono le foglie, e dalle mani mi spuntano le radici… Affondo nella terra. Di più, sempre di più, all’infinito…
Yeong-hye ha varcato un confine, a suo modo si è ribellata alla disumanità, alle convenzioni, all’adesione silenziosa a modelli rigidi, lei invece ne rimane prigioniera. Lo stato della sorella la obbliga a risalire al percorso carsico di tutto quello che in superficie appare come incomprensibile.
“Di colpo, fu assalita dalla sensazione di non aver mai davvero vissuto in questo mondo. Era vero: non aveva mai vissuto. Anche da bambina, per quanto indietro si spingesse la sua memoria, non aveva fatto altro che subire. Aveva creduto nella sua bontà connaturata, nella sua umanità, ed era vissuta di conseguenza, senza mai fare del male a nessuno. Si era sempre impegnata, indefessamente, a fare le cose nel modo giusto; tutto il suo successo era dipeso da questo, e lei avrebbe continuato così per sempre. Ma adesso, non capiva perché, di fronte a quegli edifici cadenti e a quelle erbacce, era soltanto una bambina che non aveva mai vissuto.”
Vede il filo sottile che la trattiene tra le fila di chi non crolla, non si lascia andare, resiste per senso del dovere, per paura, per vigliaccheria … perché lo fa qualcuno al posto suo.
“E’ solo un sogno”
E’ un libro disturbante, crudele, confondente. Ci precipita senza paracadute in un’esperienza psicotica dove il confine tra sogno e realtà si infrange. La quotidianità , la vita della veglia, del non -sogno, è invasa e abitata da elementi onirici.
Il pazzo, dice Kant, è “un sognatore da sveglio”.
Il problema, sottolinea lo psicoanalista Salomon Resnik è che “non può svegliarsi”.