Sandro Veronesi, “Il colibrì”
Recensione di Isabella Donato, psicoterapeuta SPC
Elogio dell’immobilità, ovvero come tentare di salvarsi dal dolore senza cambiare.
Il colibrì è il protagonista del libro, Marco Carrera, orgoglioso di questo soprannome perché, come l’uccellino, mette tutte le energie per mantenersi fermo e talora va anche all’indietro.
L’incipit lascia basiti: conosciamo uno psicoanalista che per tutelare l’incolumità del nostro protagonista gli rivela contenuti delle sedute con la moglie, irritandosi vieppiù dallo scoprire che gli è stato mentito; dopo questo agito, abbandonerà la professione per dedicarsi a cose veramente importanti, aiutare le popolazioni in situazioni di emergenza.
Scopriamo inoltre che la psicoanalisi è attività prettamente femminile, come il pilates, che, se non aiuta, dà un certo tono. Marco Carrera è circondato infatti da donne che vanno in analisi, attività che lui subisce come il fumo passivo.
Non perdiamo di vista tale professionista; per tutta la narrazione seguirà premuroso le vicende del nostro protagonista distillando perle di saggezza:
” Io mi occupo ogni giorno di persone che hanno perso tutto, spesso sono solo i soli superstiti del loro intero nucleo familiare. Hanno problemi materiali di ogni tipo, e a volte hanno anche brutte malattie, ma lo sa su cosa lavoriamo? -No..- Lavoriamo sui desideri, sui piaceri. Perché anche nella situazione più disastrosa i desideri e i piaceri sopravvivono”
Il nostro protagonista ci fa conoscere un’infanzia immerso nei privilegi ed agi di una famiglia borghese intellettuale, dove il brillio degli oggetti di design e delle frequentazioni altolocate nasconde i conflitti e il disamore. Ma mentre lui nega una realtà dolorosa così non è per la sorella che, sprofondata in un malessere crescente, si suicida. La sua scomparsa è solo una delle perdite dolorose che il colibrì subisce; nel mentre si dibatte tra una relazione virtuale, in cui è la distanza a rendere magnifica ed inarrivabile l’intesa (“ noi siamo due che ci si ama, scriviamolo, con tanti errori, io a te ti amo, e te tu mi ami a me, scriviamolo così, Luisa mia, su ogni superficie creata da buon Dio) ed un matrimonio in cui gli elementi di unione sono semplici proiezioni di somiglianza – si innamora all’istante di una perfetta sconosciuta perché vive per coincidenza le sue stesse sventure -. L’impatto con la realtà sarà catastrofico per la relazione ma la responsabilità è attribuita alla non aderenza della moglie al modello attribuitole, si scoprirà infatti abile manipolatrice e non reale copia della sofferenza del protagonista. Ne fa le spese la figlioletta, che comincia ad avere delle strane percezioni; anche qui entra in scena uno psicologo ed anche qui il nostro lo neutralizza prendendo il controllo della situazione a suo modo.
La tesi del libro sarebbe che in questo mondo frenetico, dove il cambiamento e la velocità è valore insopprimibile, indipendentemente dalla meta, restare fermi, non cercare una soluzione qualunque sia è l’unico modo possibile di ribellarsi, di trovare il modo per riflettere sulla nostra vita, sulle trasformazioni che ci impone.
“Vi sono esseri che per tutta la loro vita si dannano allo scopo di avanzare, conoscere, conquistare, scoprire, migliorare, per poi accorgersi di essere sempre andati alla ricerca solo della vibrazione che li ha scaraventati al mondo: per costoro il punto di partenza il punto di arrivo coincidono. Poi ce ne sono altri che invece pur stando fermi percorrono una strada lunga e avventurosa perché è il mondo a scivolare sotto i loro piedi, e finiscono molto lontani da dove erano partiti: Marco Carrera era uno di essi. … La sua vita aveva uno scopo .Non tutte le vite lo avevano, la sua lo aveva”
Ma che significa restare fermi?
Il nostro protagonista sembra capace solo di uno sguardo sul passato, su cui esercita una capacità critica che tuttavia non lo conduce a vivere in maniera diversa l’intimità, l’affettività, le relazioni. Non a caso il libro non ha dialoghi ma solo scambi mail, elucubrazioni mentali, catalogazione di oggetti, riflessioni disordinate.
Stimolato dal “pensiero positivo” dello psicoanalista guru, cerca di governare il caos e lo smarrimento coltivando ciò che gli dà sollievo ovvero le partite a tennis e il gioco d’azzardo, attività che potremmo benevolmente definire anestetiche, che hanno il solo valore di creare una sospensione del dolore, dove il trionfo ginnico sui coetanei rimanda a una capacità di vittoria laddove la vita fornisce solo sconfitte e perdite e, sul tavolo da gioco, dove anche l’amico iettatore (!!!) viene neutralizzato, anche il destino viene beffato. Appaiono ribaltati i ruoli, sul terreno da gioco vince contro tutti ( persino lo psicoanalista si scoprirà essere stato sconfitto sonoramente da ragazzo e sempre per mano del nostro protagonista… “ Lei è quello che mi libera dalle trappole”. La trappola è dapprima il tennis e poi la psicoanalisi …) mentre nella vita reale assiste impotente a lutti ed abbandoni.
“Mi chiedo: ma il male – hai presente? Ha circuiti preferenziali, il male, o si accanisce a caso?”.
La soluzione coincide con la micromaniacalita’, quel tanto di trionfalismo e di negazione, di ipervalutazione delle proprie regole e cerimonie.
A tutto ciò si accompagna l’idea di essere destinato ad una missione, allevare la nuova generazione, l’uomo nuovo, in questo caso una bambina, Miraijin, che frutto di una sapiente mescolanza di razze, porterà il rinnovamento.
“Aveva tanto sofferto, sì, per uno scopo altissimo: consegnare al mondo l’uomo nuovo – ma solo dopo aver resistito alle percosse e alle ingiurie di una sorte oltraggiosa, come dice Amleto.“
Siamo al pensiero magico, estremo tentativo per pensare di avere il controllo sulle cose, ribaltando anche questa volta una realtà catastrofica, la propria caducità.
È il ritratto di un uomo profondamente solo che si difende azzerando la vita psichica e annacquando ogni esperienza; oggetti e azioni sono al posto dei sentimenti; come dice Bollas “un individuo di questo tipo vive in un mondo di abbondanza insignificante”.
Le descrizioni dei personaggi sono piatte, prive di complessità e sfaccettature: le donne appartengono ad un universo incomprensibile, sfuggenti (l’eterna amata), perse in abissali inquietudini ( la sorella, la moglie), rinchiuse in eremi colmi di sfarzo ( la madre); gli uomini sono ridotti a rivali sconfitti su tutti i fronti. Manca la curiosità, il dubbio, il phatos.
Sembra l’esperienza di una persona incapace di elaborazione delle perdite che vengono negate nel loro impatto emotivo. Così com’è negata la rabbia, l’aggressività , l’odio, da cui il colibrì sembra apparire immune.
Joyce McDougall, nel fornire l’identikit del paziente antianalitico per eccellenza descrive una persona che generalmente è intelligente, proviene da un ambiente socio culturale che valorizza il mondo delle idee, compresa la psicoanalisi, e da una famiglia in cui più di un membro aveva già fatto un’analisi: ecco il ritratto del protagonista!
Per evitare di sprofondare nella depressione o di dissolversi nell’angoscia, crea un edificio psichico caratterizzato dalla magia infantile megalomanica e impotente: strumenti infantili per far fronte a una vita di adulto. Vive in un mondo dove l’alterità viene disconosciuta, dove non è stato colmato il vuoto lasciato dall’assenza dell’altro. E’ il mondo del ristagno sotto il motto del “meglio morire che cambiare”.
“Ubi nihil vales, ibi nihil velis”. Dove nulla puoi, niente devi volere. Questo è il motto del colibrì citato nel libro.
Christopher Bollas descrive questi individui, definendoli normotici, come persone che trasformano l’esperienza intrapsichica e culturale in escreti mnestici:le fotografie di una vacanza sono più importanti dell’esperienza vissuta nel recarsi un in un dato luogo, l’abbonamento all’opera è più significativo della andare a vedere l’opera. Ecco allora che nel libro assistiamo ad un’elencazione sfinente degli oggetti di design ( e del loro valore economico, snocciolato uno ad uno) di libri e di plastici ingegneristici che non diventano oggetti affettivi o depositi di ricordi ma rimangono icone del gusto e dell’intelligenza raffinata.
“Se la malattia psicotica è caratterizzata da una rottura dell’orientamento di realtà e da una perdita di contatto col mondo reale, allora la malattia normotica consiste in una rottura radicale della soggettività e nell’assoluta assenza dell’elemento soggettivo nella vita quotidiana. Come la malattia psicotica è caratterizzata da rivolgersi esclusivamente al mondo della fantasia e dalla allucinazione, così la malattia normotica può essere definita come i rivolgersi esclusivamente agli oggetti concreti e al comportamento convenzionale. Il normotico fugge la vita onirica gli stati mentali soggettivi l’immaginazione e il gioco aggressivo differenziato con gli altri.Favorisce lo scarico della vita mentale rispetto all’elaborazione articolate che esigono processi simbolici e comunicazioni reali. Si può dire che se lo psicotico è precipitato nella profondità il normotico è precipitato nella superficialità.
Il libro si conclude con un’uscita di scena teatrale dove grande assente è ancora una volta il dolore lasciando al suo posto un grande senso di amarezza e sconfitta.
“ Questa era Miraijin Carerra. Messa così diventava un dono che Marco avrebbe fatto a loro che restavano, e il senso di impotenza spariva”.
Riferimenti:
Christopher Bollas, L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Raffaello Cortina Editore
Christopher Bollas, L’età dello smarrimento. Senso e malinconia. Raffaello Cortina Editore
Joyce McDougall, A favore di una certa anormalità. Borla